2.-1

2001 Words
2. «Non agitarti, Robin» fu la prima cosa che disse, con la sua voce calma e calda, quando fummo nel corridoio. «Ti assicuro che non voglio farti niente di male e niente che tu non voglia. Solo, per favore, non gridare». «N-non grido» balbettai. Dove mi stava portando? «Ti ringrazio. Ti sto portando verso un ascensore poco usato e poi verso un’uscita di servizio. Da quando saremo lì avrai preso una decisione. In nessun caso ti farò del male. Hai capito?». «Non proprio» ammisi. «Hai capito che non ti farò del male? Non ho una pistola, non voglio rapirti. Ma tu non cammini molto bene, suppongo, quindi mi basta spostarti per renderti meno pericolosa per me, ora hai capito?». Annuii. «Molto bene. Sei già stata interrogata?». «Sì, ma credo... credo che l’interrogatorio vero ci sarà domani». «Hai nominato con qualcuno di loro la Mechanics Cooperative Bank?». «Eh?». Lo sentii sospirare. «Già, be’... così è la vita». «Ah, il volantino che avevi in tasca. Ma si leggeva solo la parte superiore» dissi io, quasi orgogliosa di essermelo ricordata. Poi ci pensai meglio. «Oh, merda». Lui mi batté un paio di pacche amichevoli su una spalla. «Non preoccuparti. In qualche modo sapevo che l’avevi visto e che prima o poi ti sarebbe venuto in mente. Ora ascolta». L’ascensore si aprì davanti a noi e lui mi spinse dentro. Provai ad alzarmi e lui fece... be’, il contrario di quello che mi aspettavo. Mi aspettavo che mi tenesse giù, invece mi sorresse per il gomito. «Stai attenta» disse. «C-che... che cosa vuoi?». I suoi occhi si puntarono nei miei. Erano castano scuro, ma se li osservavi con attenzione vedevi che portava delle lenti colorate e intravedevi l’azzurro al di sotto. «Voglio farlo, il prossimo colpo. Abbiamo già rinunciato a questo. Buttato al vento un mese di preparativi. Un bel po’ di soldi. Capisci?». «S-sì, non... non lo dirò a nessuno, lo giuro». Lui scosse la testa. Continuava a sorreggermi per il gomito. «No, non funziona così. Se faccio qualcosa devo esserne sicuro. Voglio che vieni con noi. Non gratis e non per forza, okay? Se vieni con noi puoi avere un’intervista, delle foto... non lo so. Ti ho googlata. Sei una giornalista, no? Sto cercando di comprarti, non di minacciarti». Deglutii. Ero comunque spaventata. Le porte si aprirono e lui mi aiutò a uscire zoppicando. Poi portò fuori anche la sedia a rotelle. Dovevo ammettere che se era un rapimento era piuttosto sui generis. Eravamo al piano terra, sul retro dell’ospedale, vicino a quella che doveva essere un’uscita per i fornitori. «Qua fuori è pieno di tuoi colleghi. Credo che molti di loro sarebbero entusiasti di una proposta simile. La sto facendo a te perché hai visto quel cavolo di volantino. E ti ho aiutata, stamattina, anche se forse fartelo notare non è molto elegante. Dico solo...» si strinse appena nelle spalle «...c’è il reporter’s privilege, giusto? La confidenzialità delle fonti. Quindi se vieni con noi non starai commettendo un reato. Resti con noi fino al colpo, senza partecipare né ai preparativi né all’esecuzione, ovviamente. Puoi avvertire i tuoi amici e così via, ma non dire dove sei, né farti rintracciare. Puoi avere foto e roba del genere. Non so che cosa ti serve per fare uno scoop. Che Lady Carter è lesbica, per dire». Lo volessi o meno mi sfuggì una mezza risata. Sorrise anche lui. «Eh, sì. Che disdetta. Quello che intendo è... ci guadagniamo tutti. Non si può dire che tu ci stia aiutando, stai solo facendo il tuo lavoro. E facendo il tuo lavoro non hai modo di spifferare a nessuno del prossimo obbiettivo. Tutto qua. Capisco che sia un po’...» «È totalmente folle». «Okay, è totalmente folle. Quindi?». Lo guardai io negli occhi, questa volta. «Se dico “no” che cosa succede?». «Ti lascio qua. Annullo la prossima operazione. Sarò un po’ infelice, suppongo». «È... strano». «No, è logico. Rapirti, minacciarti, addirittura ammazzarti? Mi nuocerebbe di più della perdita economica. Oltre al fatto che non sono un assassino, ma capisco che questo sia un argomento inutile. Quindi? Non hai più tempo». Presi un bel respiro. «Va bene» dissi. Per prima cosa non ero così sicura che mi avrebbe davvero lasciata lì. Poteva essere una bugia. Ma specialmente... specialmente se non avessi colto quell’opportunità non mi sarei mai data pace. +++ Mi aiutò a risedermi sulla sedia a rotelle e mi spinse fuori. L’aria era fredda, a quell’ora di sera. Accostato al ciglio della strada c’era un furgone con il retro coperto, con il portellone aperto e con la rampa abbassata. Data la poca luce non vidi chi c’era al volante. Carter mi spinse su per la rampa, accese una luce interna e risollevò la rampa. Chiuse il portello dietro di noi e andò sull’altro lato, dove batté un paio di colpi sulla parete divisoria con la cabina del guidatore. Il motore si mise in moto, lui venne a bloccare le ruote della mia carrozzella. «Ti spiego come funziona» disse, mollando sul pavimento il sacco giallo che aveva preso dalla mia camera. Sul pavimento c’era anche un plaid accuratamente ripiegato e uno zaino. «Al prossimo lavoro mancano più o meno due settimane. Non sarò più preciso di così. In questo periodo staremo in una località che abbiamo preparato allo scopo, relativamente vicina al nostro obbiettivo. Potrai parlare con me, ma non con i ragazzi. Potrai vedere me, non le loro facce. Fin qua ci siamo?». Annuii. «Ovviamente ti daremo da mangiare e provvederemo a tutte le altre tue necessità, ma non aspettarti un hotel a cinque stelle». «Non me lo aspetto» dissi, con un mezzo sorriso. «Puoi comunicare ai tuoi capi che sei con noi. E puoi chiamare... chiunque si preoccuperebbe per la tua assenza». «I miei genitori. Devo chiamarli, sì». Carter mi lanciò un’occhiata seria. «Bene. Prima di partire ti porto a un telefono pubblico». Mi indicò lo zaino. «Là dentro ci sono dei vestiti. Tra poco il fugone si fermerà, io scenderò e tu potrai cambiarti». «No, guarda. Devi darmi una mano. Mi hanno sparato a una gamba, se te ne fossi dimenticato. Ho bisogno di farmaci, bende, disinfettante... tutta quella roba lì». «Ce l’ho» disse lui, indicando il sacco giallo. Sospirai. «Okay, perfetto. Mi servirà anche un registratore e una macchina fotografica». «Va bene» disse lui. Il furgone si fermò e sentii la portiera del guidatore che sbatteva. Per la prima volta Carter mi sembrò leggermente a disagio. «Quindi che cosa...» Mi alzai dalla sedia a rotelle e mi liberai del telo. Appoggiare il piede destro mi faceva male alla coscia, quindi cercai di non farlo. «Forse potrei sdraiarmi su quel plaid» dissi. «In effetti l’ho portato apposta» commentò lui, spiegandolo sul pavimento. Mi aiutò a sedermi e capii benissimo che mentre lo faceva vide tutto quello che c’era da vedere, lo volesse o meno. Stupidi camicioni ospedalieri. Si accucciò accanto a me come quella mattina e prese lo zaino. Iniziò a tirare fuori dei vestiti ancora nella loro busta. Cercai le mutande, che mi sembravano la cosa più urgente. Individuai un pacco da cinque di slip neri assolutamente basic, ne presi uno e infilai senza problemi il piede sinistro nel primo buco. Per infilare il destro avrei dovuto piegare la gamba e non mi sembrava una grande idea. «Immagino che sia un po’ come essere ingessati» commentò Carter, aiutandomi. «Serve un po’ di tempo per capire come muoversi». Sdraiata sul plaid mi tirai su le mutande, che erano un po’ troppo strette, e sospirai di sollievo. Poi mi resi conto che le mie contorsioni avevano avuto l’effetto collaterale di farmi scivolare giù le maniche, quindi ora che ero coperta sotto, ero nuda sopra. Sospirai e mi misi a ridere. «Va be’. Suppongo che tu possa sopravvivere». Carter scosse appena la testa. «Non lo so. Ma c’è anche un reggiseno, da qualche parte». Frugò nello zaino e ne tirò fuori un bel pacco da tre di reggiseni bianchi da corsa. Li guardai e poi guardai lui. «Non voglio lamentarmi, davvero. Ma gli slip neri e i reggiseni bianchi?». Lui fece un gesto fatalista. «Saranno pure della taglia sbagliata, vedrai». Mi liberai del camicione e me ne infilai uno. «Sono pieni di ottimismo, più che altro» commentai, quando ebbi constatato che erano per una donna molto più abbondante di me. Carter mi passò un altro pacco, questa volta di magliette a maniche lunghe nere. Aveva comprato tutto come minimo in tre esemplari, a quel che pareva. Me ne infilai una e misi da parte le altre. I pantaloni erano in unica copia, stranamente, ed erano dei jeggins. Era una scelta misericordiosamente pratica. Carter mi aiutò a infilarmeli e quando fu praticamente costretto a salirmi sopra mi resi conto che era in imbarazzo, davvero, davvero in imbarazzo. «Ehi, non preoccuparti, sul serio» gli dissi. «Anzi, grazie». Lui annuì. Vedevo benissimo che era ancora profondamente a disagio, il che, in fondo, deponeva a suo favore. Mi rimboccò i pantaloni, visto che erano un po’ troppo lunghi. Cercai qualcosa da mettermi sopra e trovai un maglione a coste nero. Trovai anche dei calzini sottili dello stesso colore, ovviamente in un pacco da cinque. Me ne infilai uno e poi sbuffai, allungando il piede destro verso di lui. «Ed è anche sporco» spiegai. Finalmente Carter sorrise. Evidentemente i piedi non gli sembravano parti poi così private. Mi spolverò tranquillamente la pianta e mi mise il secondo calzino, per poi allungarmi le scarpe. «La buona notizia è che le hai prese. Avrei odiato lasciare delle Miu Miu in ospedale. La cattiva è che non riesco a portarle. Cioè, non riesco a camminarci, almeno ora». Carter tirò fuori dallo zaino un paio di runner verdi e nere. Era l’unica cosa di cui avesse azzeccato la taglia. +++ Lasciammo il furgone e salimmo su una berlina della Ford. Ormai erano quasi le nove di sera e il traffico attorno a Richmond si era un po’ calmato. Carter prese verso nord. «Dove stiamo...» iniziai a chiedere, ma poi mi dissi che forse era meglio di no. «È il nostro piano di fuga per il lavoro di oggi. Dividerci e poi rivederci su a nord. Mi fermerò in una stazione di servizio, così potrai chiamare. Dovresti metterti un cappellino, per le telecamere». Annuii. Era tutto strano e assurdo, ma ne capivo il senso. Alla stazione di servizio Carter non scese dalla macchina. Lo feci io e camminai cautamente fino al telefono pubblico subito all’esterno. Per la prima volta ero consapevole che una telecamera a circuito chiuso mi stava sicuramente riprendendo. Avevo in testa un cappellino da basket ed era buio. Era probabile che nessuno mi riconoscesse. La mia era una situazione curiosa. Tecnicamente non stavo facendo niente di illegale. Certo, sapevo dov’era un ricercato e non lo stavo denunciando, ma quel ricercato era una mia fonte, quindi non ero obbligata a farlo. E stavo nascondendo delle informazioni vitali all’FBI, ma loro non sapevano che lo stavo facendo. Ciò nonostante non dovevo farmi riconoscere, perché se qualcuno avesse riconosciuto me avrei creato una traccia che la polizia avrebbe potuto risalire fino a Carter. Per prima cosa chiamai Jerry McLaren, la mia direttrice editoriale. Dato l’orario la chiamai al cellulare, il cui numero per fortuna ricordavo a memoria. «Ciao, Jerry» le dissi, quando rispose, «scusa per l’orario». «Ma scherzi? Sei la notizia del giorno, Robin! E in realtà è da stamattina che cerco di contattarti». «Il mio cellulare è rimasto in macchina» le spiegai. «E in teoria non potrei parlare con nessuno, ma ho una fonte da aggiungere». Seguì un attimo di silenzio. «Quale fonte?» chiese Jerry, alla fine. «Dale Carter». Jerry iniziò a ridere senza ritegno. «Oh, cacchio» riuscì a dire, alla fine, in tono trionfante. «Sei riuscita a parlargli, eh? Ti bacerei in bocca, ti...» «Sto riuscendo a parlargli. Sono in macchina con lui. Nei prossimi giorni ti racconto. Per il momento aggiungilo alle fonti, okay?». «Cristo, in che senso...» «Un’intervista. Esclusiva. Delle foto. Tutto quanto, Jerry. Ma devi aggiungerlo alle fonti, altrimenti sono una complice di uno dei primi ricercati d’America». «Consideralo fatto. Quando ci sentiamo di nuovo?». «Domani, penso. Ora telefono ai miei e gli racconto una balla. Ciao, capo». Lei ridacchiò di nuovo. «Ciao, amore della mia vita». Subito dopo chiamai i miei. Non gli dissi che ero con Dale Carter, è ovvio. Sono due figli dei fiori ormai invecchiati e hanno una mentalità apertissima, ma, insomma, che fossi andata via con un rapinatore sarebbe stato un po’ troppo anche per loro. Gli dissi che me l’ero filata dall’ospedale per evitare i giornalisti e che sarei rimasta via un paio di settimane, da un’amica. Li avvertii che l’FBI avrebbe potuto cercarli. Gli dissi di non innervosirsi e di spiegargli che sarei tornata presto a casa mia e gli avrei rilasciato tutte le dichiarazioni del caso, ma che comunque non avevo nulla da aggiungere a quello che avevo già detto. Gli chiesi anche di telefonare al mio avvocato e dirle di occuparsi della cosa. L’avrei chiamata il giorno seguente o quello dopo ancora. Una volta finite le chiamate tornai zoppicando verso la macchina. Carter mi passò in silenzio una bottiglietta d’acqua e una boccetta di antidolorifici.
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