La colazione nella Casa degli Ospiti.Restai un po’ lontano dagli altri per dare un’occhiata a quella casa, che, come vi ho detto, era posta nello stesso luogo della mia antica abitazione.
L’edificio era alquanto lungo e i suoi estremi, formando una curva, si discostavano dalla via. Nella parte bassa del muro che ci stava di fronte, si aprivano lunghe finestre a reticolato. La costruzione in mattoni rossi e col tetto di piombo era bellissima; su, in alto, al disopra delle finestre si allungava un fregio composto di figure rappresentative in terra cotta assai bene eseguite, e disegnate con tal precisione e perizia, quali non avevo mai riscontrato prima nei lavori moderni. Riconobbi subito il soggetto delle figure, che mi era particolarmente familiare.
Per altro, tutto questo lo appresi rapidamente, perché fummo subito all’interno; in una sala dal pavimento di marmo a mosaico e dal tetto di legno. Nel lato opposto al fiume non c’erano finestre, bensì archi, che davano accesso ad altre camere, e da uno di essi si intravedeva un lembo di giardino posto nel fondo. Al di sopra degli archi una larga parte della parete era dipinta, credo, a fresco, a colori vivaci, ed erano rappresentati gli stessi soggetti del fregio esterno. Tutto in quel luogo era bello, solido, mirabile; e quantunque la sala non fosse molto ampia (forse un tantino più piccola di Crosby Hall) si provava in essa quell’esaltante senso di spazio e di libertà che una buona architettura ispira sempre nell’animo di un uomo sereno, abituato a tenere in esercizio i suoi occhi.
In quel bel luogo, che io sapevo di certo essere il salone della casa degli ospiti, tre giovani donne andavano e venivano; e poiché erano le prime del loro sesso che io vedevo in quel mattino così pieno d’avventure, le guardai, com’era naturale, con attenzione, trovandole belle almeno al pari dell’architettura e dei maschi.
Quanto ai loro abiti, e senza dubbio ne presi nota, direi che erano decentemente coperte di stoffa e non affagottate nei fronzoli; vestite da donne e non tappezzate a mo’ di poltrone, come la più parte delle donne del nostro tempo. Riassumendo, il loro vestire era qualcosa tra l’antico costume classico e quello più semplice del secolo decimoquarto, benché evidentemente non volesse imitare né l’uno, né l’altro; era inoltre gaio e leggero come voleva la stagione. Le donne poi considerate in se stesse, faceva piacere a vederle; quanta felicità, quanta gentilezza traspariva dai loro volti. Ben fatto e robusto era il loro corpo e l’aspetto in genere sano e vigoroso. Tutte erano, per lo meno, avvenenti ed una era molto bella e dai lineamenti perfetti. Come ci videro, ci vennero incontro allegramente, senza la minima affettazione di ritrosia, e tutte e tre mi strinsero la mano, quasi fossi un amico tornato di recente da un lungo viaggio. Se non che, non mi sfuggì che guardavano di sottecchi il mio abito, che era quello stesso della notte precedente, e che, nella migliore ipotesi, non mi dava un aspetto elegante.
Appena Robert il tessitore ebbe detto loro qualche parola, si dettero da fare immediatamente; e in un batter d’occhio furono da noi, ci presero per mano e ci condussero ad una tavola nel punto più bello della sala, dove la nostra colazione era apparecchiata. Mentre ci mettevamo a sedere, una di quelle ragazze uscì in fretta, e poco dopo tornò con un grande mazzo di rose, molto diverse in grandezza e qualità da quelle che di solito produceva Hammersmith, ma più somiglianti alle rose di un antico giardino. Ella corse alla credenza, prese un bicchiere assai finemente lavorato, vi mise all’interno i fiori, lo ripose nel mezzo della tavola. Un’altra che nel frattempo era corsa via, tornò con una grande foglia di cavolo ricolma di fragole, alcune delle quali appena mature, e riponendola sulla tavola, disse:
– Non c’è nulla di meglio a quest’ora; io vi avevo pensato anche prima che mi levassi stamane, ma guardando lo straniero che entrava nel vostro battello, d**k, mi uscì di mente, e così non ho saputo prevenire i merli. In ogni modo, ve ne sono alcune che possono stare alla pari di quante se ne trovano in Hammersmith quest’oggi.
Robert le dette un buffetto sulla testa, amichevolmente; poi demmo l’assalto alla colazione, che era semplice, ma assai delicatamente preparata, e servita con molto gusto.
Il pane, di diverse qualità, era particolarmente buono a cominciare da quello grosso, spesso, di colore oscuro e di sapore dolce delle pagnotte di fattoria, che a me piaceva più di tutto, fino a quello sottile, a cannello, dalla crosta di frumento, come ne avevo mangiato a Torino.
Mentre mi mettevo in bocca i primi bocconi, mi cadde lo sguardo su una iscrizione intagliata e dorata in una lapide, come quella dell’alta tavola nella sala di un collegio ad Oxford, e una parola che mi era famigliare richiamò la mia attenzione; diceva così:
“Ospiti e vicini, in questo luogo, nella sala degli ospiti, un tempo si trovava la sala delle conferenze dei socialisti di Hammersmith. Bevete un bicchiere alla loro memoria!
Maggio 1962”.
È difficile dirvi quel che provai nel leggere queste parole, e credo che tutta la commozione, che invadeva il mio animo dovette trasparirmi in viso, perché entrambi gli amici mi guardarono con curiosità e tutti restammo in silenzo.
Ma non trascorsero che pochi minuti e il tessitore, che non aveva precisamente i modi cortesi del barcaiolo, mi disse in tono piuttosto brusco:
– Ospite, noi non sappiamo come chiamarvi; saremmo forse indiscreti se vi domandassimo il vostro nome?
– Ma, – risposi – ne dubito anch’io, e in tale incertezza, chiamatemi Ospite, che, come sapete, è anche un nome di famiglia e, se credete, aggiungetevi Guglielmo.
Dick mi fece un inchino, ma un’ombra di inquietudine passò sul volto del tessitore, il quale disse:
– Spero che non vi dia noia la mia domanda, vorreste dirmi da dove venite? In queste cose io sono curioso e per buone ragioni, per ragioni letterarie.
Evidentemente d**k lo toccava col piede di sotto la tavola, ma egli non ne risentiva affatto, ansioso com’era nell’attesa della mia risposta. Quanto a me, fui proprio sul punto di spifferare: – da Hammersmith; – ma mi contenni, considerando in che sorta di labirinto di contraddizioni ci saremmo cacciati, e presi il tempo per inventare una bugia per l’occasione, avvalorata da una piccola verità, e dissi:
– Vedete, io sono stato tanto tempo lontano dall’Europa, che ora tutto mi sembra strano; ma sono nato al confine della foresta di Epping, e là sono stato allevato, cioè a Walthamstow e Woodford.
– Proprio un bel posto quello – interruppe d**k – un posto assai ameno, ora che gli alberi hanno avuto il tempo di crescere dopo la grande demolizione delle case nel 1955.
L’irrefrenabile tessitore soggiunse: – caro cittadino, giacché conoscete la foresta da qualche tempo, potreste dirmi che c’è di vero in quello che si racconta circa lo scoronamento degli alberi nel secolo decimonono?
Con questa domanda si veniva a tendermi il laccio dal lato della mia storia naturale archeologica, e difatti io caddi in trappola; e perdendo la coscienza del tempo e del luogo nel quale mi trovavo, mi misi a raccontare. Intanto una delle ragazze, la più bella, che era andata spargendo sul pavimento piccoli rami di spigonardo e altre erbe odorose, si avvicinò e standomi dietro, mi pose sul braccio una mano, che stringeva ancora alcune di quelle piante che io ero solito chiamare melisse. Quel forte odore mi fece tornare in mente i giorni della mia infanzia, e l’orto a Woodford, e le grandi susine turchine che crescevano sul muro di là del prato delle erbe odorose; tutta una connessione di ricordi che si affacciarono tutti insieme.
Ho iniziato: – quando io ero ragazzo, e per molto tempo dopo, quasi tutta la foresta, eccettuato uno spazio intorno alla Queen Elisabeth’s Lodge e il luogo denominato High Beech, era formata di alberi scoronati misti a boschetti d’alloro. Ma quando il Municipio di Londra lo rilevò, all’incirca venticinque anni or sono, il taglio e lo scoronamento, che erano antichi diritti dei cittadini, ebbero fine e gli alberi furono lasciati crescere liberamente. Poi io non ho più rivisto quel luogo, tranne che una sola volta, dopo molti anni, cioè quando noi tutti della Lega ci recammo per una gita di piacere ad High Beech. Fui molto sorpreso nel trovare così mutata la foresta, specialmente per le molte costruzioni che sorgevano; ed anzi, giorni or sono abbiamo sentito che quei filistei vogliono ridurla a giardino. Ma ciò che voi dicevate circa la sospensione delle costruzioni e del crescer degli alberi, sarebbe una troppo buona notizia; perché dovete sapere.... Qui rammentai in un baleno la data di d**k e mi interruppi bruscamente, piuttosto confuso. L’ardente tessitore non si accorse del mio imbarazzo e si affrettò a dire, quasi fosse conscio della sua mancanza di cortesia:
– Ma, dico io, che età avete mai?
Dick e la bella ragazza scoppiarono in una fragorosa risata, quasi che la condotta di Robert fosse scusabile dal punto di vista dell’eccentricità; e d**k soggiunse sempre ridendo:
– Scusatevi, Bob, non è bene far tante domande agli ospiti. Date retta, il troppo sapere vi danneggia. Voi mi ricordate dei primitivi pensatori in quegli insulsi romanzi dell’antichità, i quali, secondo quanto ci dicono gli autori, erano pronti a calpestare ogni buona regola di cortesia pur di perseguire la loro scienza utilitaria. Il fatto è che io comincio a credere che voi abbiate così offuscato il vostro cervello con lo studio delle matematiche e con le continue ricerche in quei libri vecchi e idioti d’economia politica, che non siete quasi più in grado di comportarvi bene.
Davvero, è proprio tempo di lavorare un po’ all’aria aperta; bisogna che ve lo purghiate questo vostro cervello da queste ragnatele.
Il tessitore non fece che ridere di buon umore – la ragazza gli si avvicinò, e, dandogli un leggero buffetto sulla guancia, disse ridendo: – povero compagno! è proprio fatto così.
Quanto a me, mi sentivo in qualche modo imbarazzato, ma pure risi, vuoi per amore di compagnia, vuoi per la dolcezza che mi ispiravano quella felicità così calma, quella bontà d’indole; e prima che Roberto mi facesse le scuse, cui si disponeva, dissi:
– Ma, cittadini (già adottavo questa parola), io non sono affatto contrario a rispondere alle vostre domande quando sono in grado di farlo; interrogatemi pure fin che volete, che mi farete piacere. Vi dirò tutto ciò che desiderate intorno alla foresta di Epping e al tempo della mia giovinezza; e, quanto alla mia età, non sono mica una bella signora io, lo vedete; perché dunque non dirvela? Non ho ancora compiuti i cinquantasei anni.
Malgrado il recente discorso sulla buona creanza, il tessitore non poté fare a meno di emettere un lungo – “wow” – di meraviglia, seguito dall’ilarità generale per la sua schiettezza. L’allegria si dipinse su tutti i volti, benché in omaggio alle buone regole di cortesia, ognuno trattenesse il riso, ed io guardavo confuso ora l’uno ora l’altro, finché dissi:
– Ditemi, vi prego, che c’è di strano; voi sapete che io ho bisogno di imparare da voi, ridete pure; ma ditemelo.
Allora essi risero apertamente ed io di nuovo mi vi associai per la ragioni che ho detto. Ma alla fine, la donna più avvenente disse carezzevolmente:
– È vero, è vero, il nostro povero compagno è rozzo! Ma, sentite, posso dirvelo lo stesso anch’io quello che intende: ebbene, a lui pare che voi sembriate troppo vecchio per l’età che dite d’avere; ma non c’è da meravigliarsene perché da quanto avete detto, pare che la vostra vita sia trascorsa in paesi poco socievoli. Si dice, ed a me pare una verità incontestabile, che il vivere fra gente infelice faccia invecchiare precocemente. Dicono pure che l’Inghilterra meridionale è un posto dove si conserva meglio la gioventù. – Poi soggiunse arrossendo: – ed io, che età pensate abbia?
– Ebbene – dissi – ho sempre sentito dire che una donna ha quella età che mostra; quindi, senza offendervi, né adularvi, dirò che avete vent’anni.
Qui ella rise allegramente e rispose: – posso chiamarmi contenta del complimento che mi sono procurata; a dirvi la verità io ho quarantadue anni.
La guardai meravigliato, e di nuovo lei fece sentire il suo riso armonioso; ma d’altronde la mia meraviglia era giustificata, perché neppure una lievissima ruga si scorgeva sul suo viso. Aveva la pelle liscia come avorio, le guance piene e rotondette, le labbra rosse come quelle rose che aveva portato con sé; le belle braccia, che si era denudate per essere più libera nel suo lavoro, erano robuste e ben fatte dall’omero al polso. Ella arrossì un tantino sotto il mio sguardo, benché evidentemente mi avesse ormai preso per un ottantenne, ed io per toglierla dall’imbarazzo dissi:
– Vedete bene che il detto antico ha avuto una nuova conferma, e mi rendo conto che non avrei dovuto rivolgervi una domanda indiscreta.
Ella rise di nuovo, poi disse: – or bene ragazzi, vecchi e giovani, è necessario che io torni al lavoro adesso. C’è parecchio da fare qui ed io devo sbrigarmi, perché ieri cominciai a leggere un grazioso libro antico, e vorrei terminarlo stamattina: dunque addio per ora.
Ci fece un saluto con la mano e con passo leggero uscì dalla sala portando via, come dice Scott, un raggio di sole dalla nostra tavola.
Quando ella fu partita, disse d**k: – Ed ora, caro ospite, non volete fare qualche domanda al nostro amico qui? È giusto che venga la vostra volta adesso.
– Sarò ben felice di rispondervi, – disse il tessitore.
Ed io: – Signore, se vi farò delle domande, queste non saranno molto moleste, e, giacché siete tessitore, vi interrogherei volentieri intorno al vostro mestiere, in quanto io sono, o fui, in ciò interessato.
– Oh, – fece egli, – temo di non potervi essere molto utile da questo lato: perché io non faccio che il lavoro più materiale e sono un ben povero meccanico, a differenza di d**k qui presente. Oltre che della tessitura mi occupo anche in qualche modo di tipografia e di composizione, quantunque sia poco pratico delle stampe di un genere più fine, e per giunta la macchina tipografica va a finire col finire della manìa di scriver libri. Sicché sono stato costretto a dedicarmi ad altro e, seguendo l’inclinazione, ho scelto la matematica. Inoltre, ho cominciato a scrivere un libro sulla storia antica, per così dire pacifica e privata, della fine del secolo decimonono, più per fare una descrizione del paese prima che cominciasse la rivoluzione, che per altro. Fu perciò che vi feci quelle domande sulla foresta di Epping. Vi confesso che le vostre informazioni mi hanno alquanto disorientato; non erano però meno interessanti per questo, e spero che potremo riparlarne quando il nostro amico d**k non sarà più qui. Lo so che egli mi crede un retrogrado e mi disprezza per la mia imperizia nei lavori manuali, ma d’altronde egli non fa che seguire il costume odierno.
Da quanto ho appreso dalla letteratura del secolo decimonono (e ho letto parecchio), mi par chiaro che si vuol prendere una rivincita sull’insulsaggine di quel tempo, in cui si aveva in dispregio chiunque facesse uso delle sue mani. Ma, caro d**k, mio vecchio camerata, ne quid nimis! Non esageriamo!
– Eh via, – disse d**k, – come mi giudicate! Non sono io l’uomo più tollerante del mondo? Non mi fate studiare le matematiche, tenetemi lontano dalla vostra nuova estetica, lasciandomi tutto alla mia estetica pratica fatta d’oro e d’acciaio, a lavorare fra i lambicchi da smalto e i graziosi martellini e mi avrete fatto contento. Ma, per la miseria, eccone un altro che viene per voi, mio povero ospite. Sentite Bob, bisogna che mi aiutiate a difenderlo ora.
Poco dopo egli gridò: – Qua Boffin, noi siamo qua se andate in cerca di noi.
Sbirciai di sopra la mia spalla un luccichio, qualcosa che scintillava al raggio di sole che attraversava la camera, e mi volsi. Potei allora osservare una splendida figura che avanzava ciondolando sull’impiantito. Era un uomo dal soprabito adorno di copiosi ricami ed elegante ad un tempo, sul quale riflettendosi il sole, lo faceva sembrare tutto coperto da una armatura d’oro. Era alto, dai capelli neri e bello oltre ogni dire, e quantunque la sua faccia non fosse priva di quella benevola espressione, che traspariva da tutti quei volti, pure aveva nell’incedere quel certo contegno altero, di cui una grande bellezza, riveste quelli che la posseggono, siano uomini o donne. Egli venne, sedette alla nostra tavola, col sorriso sulle labbra e distese le lunghe gambe, lasciando penzolare un braccio dalla sedia. In tutti i suoi movimenti era quella certa lentezza, quella grazia, che tutte le persone alte e ben fatte possono permettersi senza cadere nell’affettazione. Era un uomo nel fiore dell’età, ma aveva tutta l’aria di un ragazzo felice dell’acquisto di un nuovo giocattolo. Egli mi fece un grazioso inchino e disse:
– È chiaro che voi siete l’ospite di cui Anna mi ha parlato poco fa; venuto chissà da qual lontano paese, che non conosce né noi, né i nostri costumi. Quindi io voglio sperare che non avrete difficoltà nel rispondere ad alcune mie domande, perché, vi dirò...
Qui d**k saltò su a dire: – No, prego, Boffin! Lasciatelo in pace per ora. Senza dubbio voi desiderate che l’ospite sia contento ed abbia ristoro; ma come mai può egli ottenere tutto questo, se è continuamente turbato da domande di ogni genere, mentre si ritrova fra gente nuova e nuovi costumi, e non ha avuto ancora il tempo di rifarsi? No, no; io voglio condurlo dove egli potrà chiedere chiarimenti a sua volta ed ottenere risposte soddisfacenti, voglio condurlo a Bloomsbury dal mio bisavolo e son sicuro che non troverete nulla da ridire. Di modo che, invece di star lì a tormentarlo, fareste bene ad andare da James Allen, a prendermi una carrozza, che guiderò io stesso. Ma, fatemi il piacere, dite a Jim che mi mandi il vecchio Grigio, perché io non sono mica tanto bravo a guidare una carrozza, quanto una barca. Orsù, fate un salto, vecchio amico e non serbate il broncio: il nostro ospite sarà in seguito tutto per voi e per le vostre storie.
Guardai meravigliato d**k nel vedere con quanta famigliarità, per non dire con che tono brusco, parlava ad un personaggio dall’aspetto così rispettabile; perché io proprio credevo che quel signor Boffin, malgrado il suo nome reso così ben noto da Dickens, fosse per lo meno un senatore fra quel popolo strano. Pur tuttavia egli si levò in piedi e disse: – È giusto mio vecchio remigante, ed io son tutto per voi; oggi non è uno dei miei giorni di faccende, e sebbene – (qui si degnò di farmi un inchino) – il piacere di discorrere con un sì dotto ospite sia differito, ammetto che egli debba vedere il vostro degno congiunto al più presto. Inoltre egli sarà forse più in grado di rispondere alle mie interrogazioni, quando avrà ottenuto soddisfacenti risposte alle sue.
Così dicendo si volse e sparì dalla sala.
Quando egli fu proprio scomparso, io dissi: – Non trovate regolare che io vi domandi chi è questo signor Boffin? Nel pronunziare questo nome non posso fare a meno di ricordare tante ore piacevoli, che mi ha procurate la lettura di Dickens.
Dick si mise a ridere e disse: – appunto, a noi succede lo stesso. Vedo che avete compresa l’allusione. Naturalmente il suo vero nome non è Boffin, ma Henry Johnson; lo chiamiamo Boffin soltanto per burla, un po’ perché egli è uno spazzino, un pò perché vuol vestire così sfarzosamente, caricandosi d’oro come un barone del medioevo. E non fa bene dal momento che ci trova gusto? Se non che, noi, che siamo suoi intimi amici, ci permettiamo di scherzare con lui.
Dopo ciò io serbai il silenzio per un po’ di tempo, ma d**k continuò:
– Egli è un ottimo camerata e non si può fare a meno di amarlo, ha però una debolezza, quella d’impiegare il suo tempo a scrivere novelle reazionarie; ed è molto orgoglioso di ottenere il vero colore locale, come suol dire. Perciò, supponendo che voi veniate da qualche angolo dimenticato della terra, ove l’uomo è tuttora infelice, e come tale degno dell’attenzione di uno storico, pensa che gli possiate dare qualche opportuno chiarimento. Oh, quanto a questo egli sarà con voi d’una franchezza senza pari, ma per vostra tranquillità guardatevene!
– Eppure d**k – disse il tessitore con fermezza – le sue novelle mi sembrano buone.
E d**k: – Oh per voi certamente, ciascuno ama il suo simile: matematiche e novelle sull’antichità vanno messe alla stessa stregua. Ma eccolo che ritorna.
Infatti lo spazzino dorato ci chiamò dalla porta della sala; noi immediatamente fummo in piedi e presto ci trovammo nel portico, davanti al quale trovammo una carrozza pronta per noi con un forte cavallo grigio attaccato; ed io non potei fare a meno di trovarla degna di nota, perché era leggera e comoda, senza avere niente di quella volgarità repellente, che io trovavo ai nostri giorni inseparabile dalle vetture in genere e da quelle di lusso specialmente, ma aveva la bellezza, la purezza di linee di una carrozza Wessex.
Noi montammo, d**k ed io. Le ragazze, che erano venute ad accompagnarci fino al portico, ci salutarono con la mano; il tessitore si inchinò cortesemente; lo spazzino ci fece un inchino, ponendovi tutta la grazia d’un trovatore; d**k scosse le redini, e via.
CAPITOLO IV.