2. Momenti di placida vita familiare

2971 Words
2. Momenti di placida vita familiare Vera fu svegliata da qualcuno che gridava in corridoio. «Questo è troppo!» eruppe una voce stridula, sbalzandola fuori dal sonno. E, per quanto fosse stridula, non c’era da sbagliarsi, era anche una voce maschile. Quella di mr. Rees Argall, l’istitutore del giovane Mark. «Che questo è troppo dovrei dirlo io!» ribatté il latrato della cugina Cicely. Nessuno avrebbe creduto che una signorina tanto graziosa e perbene fosse in grado di raggiungere una tale potenza vocale, se non l’avesse sentita con le sue orecchie. Vera l’aveva sentita più volte, quasi sempre diretta contro Argall, pertanto ci credeva benissimo. Oltretutto, doveva essere un orario antelucano; dalle tende chiuse filtrava appena una lama di luce grigiastra. Vera provò a cacciare la testa sotto il cuscino, come una bambina piccola che finga di non sentire i richiami della tata, ma servì a poco. «Un uomo dovrebbe avere il diritto di fare le proprie abluzioni mattutine in santa pace, non mi sembra di chiedere molto!» «Come potevo sapere che avrebbe scelto proprio stamattina per prendere un bagno! Le ricordo— «Prendo un bagno tutti i mercoledì mattina, prima che ogni altro occupante della casa si— «Le ricordo che sono una signora e che certi spettacoli non dovrebbero neppure sfiorare i miei occhi!» «Di certo non potevo prevedere che lei si svegliasse all’alba!» «Avrebbe dovuto segnalare le sue intenzioni in qualche modo! La sua nudità è indecente!» Vera iniziò a incuriosirsi. Davvero Cicely aveva fatto irruzione nella stanza da bagno sorprendendo mr. Rees senza vestiti? Il problema, naturalmente, era l’aggeggio diabolico che Lady Murston aveva fatto installare all’inizio della Stagione: una calderina a gas dal prezzo offensivo, che oltretutto avrebbe potuto scoppiare da un momento all’altro. Ma scaldava l’acqua, era innegabile, e anche piuttosto in fretta. Grazie a questa innovazione era possibile riempire la panciuta vasca con i piedini a zampa di leone in poco più di quindici minuti e prendere un bagno in qualsiasi momento della giornata. «Ma di quale nudità va cianciando, ero già avvolto in un telo!» «Come non notarlo, lo è tuttora! E sta gocciolando sulla moquette!» «Adesso verrà fuori che è colpa mia se, dopo essere stato aggredito nella stanza da bagno— Vera spalancò la porta della sua camera e lanciò uno sguardo truce ai due contendenti. Nessuno dei due era chissà quanto inappropriato, ma nessuno dei due era neppure molto appropriato. Cicely indossava una vestaglia scozzese di flanella sopra la camicia da notte e aveva i capelli sciolti sulle spalle. Anche Mr. Argall indossava una vestaglia, un indumento marroncino di rara bruttezza, da cui spuntava l’orlo di un telo da bagno e i suoi piedi nudi. I capelli erano avvolti in un altro telo più piccolo e il mento era coperto di sapone da barba, escluso per una striscia sulla guancia destra, che era già stata rasata e presentava anche un taglietto sanguinante. Vera guardò dall’una all’altro in silenzio. Silenzio: quello che avrebbe dovuto regnare in casa a quell’ora. Rientrò nella sua camera senza aver detto una sola parola, sicura che il messaggio fosse arrivato comunque. Si rimise a letto, nel tepore delle lenzuola. Era tutta colpa di quella calderina, pensò confusamente, prima di riaddormentarsi. Nella sua vecchia casa, su nel Lincolnshire, avevano una vasca da bagno in cucina e usavano quella dopo aver scaldato l’acqua sulla stufa. Non c’erano mai stati problemi. Fortune trovò i fiori sul tavolino della corrispondenza all’ingresso, uscendo di casa. Incuriosita, si rigirò tra le mani il mazzo di roselline, lilium e violaciocche bianche. Era una composizione di ottimo gusto e l’odore era molto buono. Aprì il biglietto attaccato con un nastro e lesse il messaggio. Sua Eccellenza Lady Grey, Sarei deliziato se accettasse il mio invito ad assistere alla commedia musicale “McCarthy's mishaps” questo sabato al Criterion. In caso positivo, porti il mio modesto mazzolino con sé quando uscirà di casa. Un suo fervente ammiratore. Era un messaggio curioso, tra il ridicolo, il lusinghiero e il sinistro. Ridicolo, perché una corte tanto sfacciata a una donna maritata da poco sembrava uno scherzo. Lo spettacolo a cui il suo ammiratore la invitava, tra l’altro, era comico ed era stato definito dai giornali molto divertente. Insomma, non sembrava il sottofondo adatto per una scena di seduzione. Lusinghiero, perché di certo i fiori erano stati scelti con cura e componevano un bouquet raffinato e particolare. Attirare l’interesse di una persona di buon gusto era sempre una soddisfazione. Infine sinistro, perché il biglietto sembrava implicare che fuori dal cancello ci fosse qualcuno incaricato di controllare se Fortune fosse uscita con i fiori oppure no. Certo, Londra era piena di monelli che fornivano servizi come quello per pochi penny, ma se fosse stato un espediente per compromettere il suo buon nome? O ridicolizzare suo marito? Nel dubbio, Fortune buttò il mazzo e proseguì con i suoi piani della mattinata, che comprendevano una visita alla sua amica Emmeline e un salto in una piccola libreria a Charing Cross, dove sperava di trovare un buon regalo per il compleanno di Francis, che era quel sabato. Uscì dall’ingresso di Bolton Street, attraversò il cortile e stava per dirigersi a passo veloce verso la Piccadilly, quando una carrozza le si affiancò. La sua prima reazione fu di allerta. Poteva essere il misterioso ammiratore che la teneva d’occhio? Ma si rese presto conto che lo scudo sullo sportello era quello di suo marito. Subito dopo Francis si affacciava al finestrino e le rivolgeva un ghigno divertito. «Dove va questa bella signora dagli incanti sconosciuti?» «Mi hai fatto prendere un colpo» ribatté lei, ignorando la citazione letteraria [1] . «Stasera voglio parlarti dello strano omaggio che ho ricevuto, anche se temo di aver distrutto le prove». Francis aprì lo sportello. «Puoi farlo anche ora. Ti do uno strappo». Ci rifletté qualche secondo. «Se non lo trovi invadente». Fortune sbuffò e salì a bordo senza bisogno di predellino, aggrappandosi alle maniglie. Non era molto signorile, ma almeno era veloce. «Un po’, ma posso tollerarlo. Sto andando da Emmeline». Diede l’indirizzo al cocchiere e si accomodò accanto a Francis. «Emmeline Pankhurst, la tua amica suffragista?» «Sì, l’hai conosciuta al matrimonio. Ma voglio chiederle consiglio riguardo la gravidanza di Rachel». L’espressione di Francis si fece più cauta. Della gravidanza di Rachel ne sapeva fin troppo, dato che Brian gliene aveva parlato quando non avrebbe dovuto. Ne sapeva abbastanza da capire che si trattava di un argomento sensibile, per Fortune. «Consiglio legale?» chiese. Mrs. Pankhurst era la moglie, e l’assistente, del noto barrister [2] Richard Pankhurst, motivo per cui Fortune l’aveva già consultata in passato come esperta in giurisprudenza. Lei scosse la testa. «Consiglio femminile». Su quello Francis sapeva poco o nulla, visto che a Fortune non era sembrato il caso di parlargli della gravidanza complicata di sua sorella. Lui alzò le mani come a dire che non intendeva ficcare il naso. «E di quale omaggio parlavi?» Fortune sospirò. Gli raccontò dei fiori che aveva ricevuto e del biglietto allegato. «Mi inqueta un po’» ammise. «Quando la tua carrozza si è accostata, in un primo momento mi ha quasi fatto paura, te l’ho detto». «E non hai pensato di uscire con il mazzo per vedere che cosa succedeva?» Fortune lo guardò male. «È chiaramente uno specchietto per le allodole». «Supponi che non lo sia». Francis si chinò per baciarle il collo e Fortune sentì un brivido in tutto il corpo. Come ottenesse quell’effetto era un mistero. «Supponi che sia un vero ammiratore». «Be’, non ha importanza. Da parte mia dargli corda sarebbe sconsiderato, anche fosse solo per togliermi la curiosità». Lui la baciò ancora. Ed era un comportamento sconveniente, era ovvio, ma a Fortune era sempre piaciuto il suo scarso senso della decenza. In quella stessa carrozza, tra loro, erano successe cose ben più indecenti, e all’epoca non erano neppure sposati. «Anche fosse solo...» «Uff, Francis, che cosa vuoi sentirti dire? Che non darei mai corda a un altro uomo? La gelosia non ti si addice». Lui ridacchiò. Riprese a baciarle il collo e la strinse anche per la vita. «Oh, mi si addice, solo che, invece di farmi impazzire di rabbia, mi solletica». «Francis!» Fortune sentì una delle sue mani sui seni. La sentì solo perché, sì, aveva chiuso gli occhi e aveva iniziato a sospirare. «L’idea di te che ti incontri con uno sconosciuto, nell’oscurità di un palco privato, mentre lo spettacolo è in corso...» Le sue dita la stuzzicavano in modo divino e Fortune gli infilò una mano sotto la giacca, stringendogli un fianco. «Che fantasia... scabrosa... amore...» «Immagina un amplesso adulterino, consumato in piedi, o tra i velluti delle poltrone... la sua mano sulla tua bocca per impedirti di gemere... le gonne sollevate, il suo membro che ti viola... ripetutamente...» «F-Francis...» Davvero le aveva sollevato le gonne, mentre la baciava con trasporto sempre maggiore. La sua mano si era posata sulla forcella tra le cosce di Fortune e aveva iniziato a massaggiarla, a stringerla. «Immaginalo ansimare nelle tue orecchie. Le spinte dei suoi fianchi, l’ondeggiare lascivo delle tue pelvi... entrambi afferrate con violenza il piacere dell’altro... gozzoviglia il suo batacchio nella tua fica, il tuo ventre su di lui pesa... d'un peso sozzo e che sciaborda... e le tue poppe debordano... dalla camicia lentamente... e danzano con indolenza. I suoi occhi quasi sborrano, mentre i tuoi, d'una vacca, come quelli di Giunoni antiche, gettan loro sguardi obliqui... profondi come colpi d'ascia [3]...» L’orgasmo scosse Fortune mentre la carrozza sobbalzava sull’acciottolato di chissà quale strada. Aveva perso il senso del tempo e della direzione. In quanto a Francis, ansimava, i pantaloni bagnati del suo piacere, il suo seme caldo sulla mano di lei. Fortune si abbandonò al suo abbraccio e lui le sfiorò gentilmente le labbra con le sue, le iridi verdi e maliziose messe in ombra dalle lunghe ciglia. «Avrei dovuto... arrivarci...» sospirò, ancora affannata. «La composizione del bouquet... era superba... quanti uomini dal gusto squisito... conosco?» Lui rise divertito. «Così pochi? Non depone a tuo favore, ma muse». «Non saprei. Almeno io non mi eccito all’idea che mia moglie amoreggi con uno sconosciuto». «Neanche questo depone a tuo favore, tesoro. Anche se, se fossi sposata a una donna, probabilmente dovresti eccitarti immaginandola con un’altra donna». Sospirò. «Be’, comunque è un’idea interessante». «Francis». Lui la baciò di nuovo, questa volta un bacio quasi casto. «Se succedesse davvero ne sarei devastato. Non ha senso e non è giusto, perché io ho avuto un milione di avventure e tu solo me, ma se succedesse... se succedesse davvero e tu ti dessi a un altro come ti sei data a me... ne soffrirei, sì». Fortune sbuffò. «Non mi darò proprio a nessuno». Si raddrizzò e si aggiustò le gonne, per poi rivolgergli un sorrisino dispettoso. «Ma non è quello che dicono tutte?». Anche Francis sorrise. «Potremmo davvero vederci in quel palco». «Conoscendoti, l’avrai già prenotato». «Al Criterion ne ho uno a disposizione tutto l’anno, ma se così non fosse l’avrei già prenotato, sì. Sabato è anche il mio compleanno». «Me lo ricordo. Ripensandoci, era un altro indizio». «Ti amo come un cane, ma muse. Con lo stesso abbandono, la stessa fiducia, la stessa dedizione. E provando di continuo a strusciarti il cazzo sulle gambe». Fortune rise e lo spinse via. «Ci penserò. Ora credo di essere arrivata». I pregi di zia Eloise si rivelavano con il tempo. Quando Vera era arrivata a The Lodge, la residenza principale dei Murston nel Northamptonshire, l’impressione che aveva avuto di lei non era stata favorevole. In precedenza si erano incontrate troppe poche volte perché la Vassemer di mezzo si facesse un’opinione precisa, ma in autunno, con suo padre appena morto e quel che restava della famiglia diviso in tre, zia Eloise le era sembrata ingessata in modo quasi ridicolo nel ruolo di perfetta padrona di casa. Ridicolo perché suo marito, Lord Murston, era un dongiovanni impenitente con una donna in ogni porto – o per meglio dire in ogni salotto, in ogni casolare dei dintorni e pure in diverse case di piacere – che non si faceva il minimo scrupolo nel trattarla come fosse una seccatura. E zia Eloise lo era. Lo era con tutti, non solo con lui, nel pretendere che si comportassero nel modo più appropriato possibile, sempre attenta alle apparenze, fino a sfiorare la caricatura della famiglia aristocratica e benestante. Lo era con puntiglio. Con un’aggressività indiretta, passiva, pervicace. Vera se n’era accorta col passare del tempo. Suo zio poteva presentarsi a cena con addosso il profumo di un’altra donna, ma zia Eloise gli avrebbe tolto ogni soddisfazione imponendogli l’abbigliamento più consono, l’argomento più appropriato di cui parlare, il rispetto assoluto delle buone maniere e la salvaguardia delle forme, cascasse il cielo. Quella donna abbondante ed elegantissima aveva il cuore di un sadico e, una volta che te ne rendevi conto, assistere alle mille forme della sua vendetta era piuttosto spassoso. «Lord Murston ci precederà a Epsom oggi per assicurarsi che i posti a noi riservati siano all’altezza» annunciò la mattina prima del Derby, a colazione. «Gli ho chiesto, già che c’è, di passare a prendere anche qualche cesta di sali, che fanno tanto bene alla salute». «Per carità, zia, non parliamo di bagni» borbottò Vera, ancora assonnata. Zia Eloise sembrò all’oscuro del tonante litigio mattutino tra una delle sue figlie e l’istitutore. D’altronde, quello che non poteva cambiare, di norma, lo ignorava. Solo con qualche secondo di ritardo Vera capì perché Lady Murston avesse incaricato il marito di comprare dei sali che erano conosciuti come “sali di Epsom”, sì, ma che si trovavano ovunque. Le rivolse un sottile sorriso soddisfatto. «Credi che ne prenderebbe un po’ anche per le mie sorelle?» Zia Eloise non tradì nulla, sembrò solo felice di aiutare. «Senza dubbio, cara. Gli manderò un telegramma. Più tardi vorrei scambiare due parole con te, se sei d’accordo». Vera immaginava quale potesse essere l’argomento della conversazione. Entrambe le sue sorelle si erano sposate, entrambe molto in fretta e molto al di sopra del loro rango. Restava solo lei. Per completare il quadro – e per togliersi dalle scatole una nipote che rischiava di mettere in ombra le figlie – zia Eloise probabilmente le avrebbe chiesto se Vera proprio non trovava confacente nessuno dei suoi possibili corteggiatori. Magari un altro duca, come Lord Robert De Vere, o almeno un barone, come Lord Simon Roper-Curzon. Il primo assomigliava a un furetto, il secondo aveva un senso dell’umorismo abominevole, ma era possibile che per zia Eloise fossero dettagli trascurabili. D’altronde zio Hugh un tempo era molto bello e a lei non ne era venuto nulla di buono. A volte Vera si chiedeva come zio Hugh e zio Richard avessero potuto essere fratelli di sua madre. Entrambi erano così ipocriti e mediocri, sua madre splendeva come una stella: autonoma, brillante, colta, spiritosa, emancipata. I suoi zii non avevano nulla di lei. Rassegnata a difendere le sue posizioni a oltranza con zia Eloise, Vera la raggiunse sul portico posteriore all’orario concordato. La primavera quell’anno era più calda del solito e il giardino emanava un odore floreale quasi stordente. «Mia cara» l’accolse sua zia, nell’immacolato vestito da passeggio. «Immaginerai perché ti ho voluto parlare». Vera avrebbe voluto gestire la conversazione per sottesi arguti e argomentare con calma, ma dalle sue labbra eruppe senza controllo quanto di più volgare potesse uscire dalle labbra di una signorina educata: la verità. «Lord De Vere è un tappo pomposo, per di più rachitico, e Lord Teynham non è meglio di lui, con quella sua pretesa di essere spiritoso e la prozia sempre attaccata alle gonnelle! Non ho nessun desiderio di sposarmi con uno di loro». Zia Eloise la fissò per qualche secondo sbattendo le palpebre. Poi, a sorpresa, emise un risata leggera. «Non l’avrei messa in questi termini, ma ammetto di essere d’accordo con te, cara. Quei due sono pessimo materiale da matrimonio». «Oh». Zia Eloise le fece segno di sedersi accanto a lei sul divanetto in ferro battuto. «E hai ragione anche sul motivo per cui ti ho chiesto di incontrarci: vorrei discutere del tuo futuro. Oh, so che asserisci di non volerti sposare». «Lo confermo» disse Vera. Ma la sua bellicosità ormai si era appannata. «Se però cambiassi idea, vorrei che riflettessi sulla particolare, e felice, situazione in cui ti trovi. Entrambe le tue sorelle si sono accasate con degli ottimi partiti». Fece una pausa, come ponderando ciò che aveva appena detto. «Ottimi sotto il profilo economico, quantomeno. Nessuna delle due dovrà mai fare affidamento solo sulla rendita che vi ha lasciato Sir Henry. E siete molto unite, quindi credo che in futuro non ti mancheranno i mezzi di sostentamento». Vera socchiuse gli occhi, sospettosa. Quella non sembrava neppure sua zia. Nel contempo, aveva calcolato tutta la sua contabilità per gli anni a venire, quindi era senza dubbio sua zia. «In poche parole, ti trovi nella situazione, più unica che rara, di poterti sposare per amore. Oh, di norma lo sconsiglierei, ma nel tuo caso... immagino che possa considerarsi un rischio calcolato. So che tra te e mr. Argall è nata... una simpatia, diciamo». Vera aprì la bocca, stupefatta, ma sua zia continuò senza badarle. «So che avete delle affinità. I libri, la cultura... tutte le eccentricità che ti rendono così poco adatta a un matrimonio con esemplari... più convenzionali». «Non... non ci ho mai pensato» ammise Vera, un po’ confusa. Non ci aveva mai pensato per un motivo semplice, in realtà: per Rees Argall non provava alcun trasporto. «Hai tutto il tempo per pensarci ora» decretò zia Eloise. Il discorso era concluso, almeno per lei. Si alzò e tornò in casa, lasciando Vera lì con una discreta confusione in testa. [1] “A una signora creola”, di Charles Baudelaire. [2] Avvocato delle corti superiori ed esperto in giurisprudenza. [3] Liberamente ispirata a “Ragazzate” di Paul Verlaine, da Femmes,1890.
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