1. Cahiers de doléances

3408 Words
1. Cahiers de doléances (o un riassunto per chi si fosse distratto) Perry era sempre stato sensibile, forse troppo sensibile per il suo stesso bene. Le sue esperienze del mondo non erano chissà quanto vaste o varie, ma nel suo piccolo anche lui aveva visto qualcosa. Aylsham Hall, la sua casa, e poi i galoppatoi e le piste di mezza Inghilterra. Nell’ultimo periodo non aveva potuto fare a meno di notare che qualcosa era cambiato. La sua mamma era più capricciosa che mai e pretendeva da lui cose sempre diverse. L’altra sua mamma era distratta, preoccupata. Solo il cane Pappy sembrava sempre lo stesso. Perry era un cavallo, certo, ma non era stupido. Sapeva che qualcosa non tornava. Il culmine della stranezza era stato raggiunto durante la galoppata di Newmarket. Persino lui aveva capito quanto quella galoppata fosse importante per le sue mamme. Non voleva deluderle e infatti aveva dato il meglio di sé. Oh, era stato terrificante e grandioso. Aveva corso come mai prima, gli zoccoli che percuotevano il terreno, la folla che gridava come un mostro vivo, il rumore del galoppo degli altri corridori che si perdeva dietro di lui. I polmoni che bruciavano, i muscoli come molle cariche, il vento in faccia, il pelo velato di sudore... Aveva corso e aveva superato se stesso, lo sapeva. Si sarebbe aspettato coccole, leccornie, di venire spazzolato con infinito affetto dalla sua mamma dal pelo baio scuro (per quei due ciuffi che aveva, poveretta), che era sempre così apprensiva e così premurosa con lui. Invece la sua mamma baia gli aveva accarezzato a stento il muso, prima di scappare chissà dove. Lasciandolo lì come se non gli volesse più bene. La sua altra mamma, quella di pelo falbo (per quanto anche lei fosse piuttosto spelacchiata), l’aveva condotto verso le stalle, gli aveva dato un paio di pacche e l’aveva affidato a uno, un semi-sconosciuto che non sapeva nemmeno quale fosse il suo tipo di carota preferito. Aveva sentito la sua mamma falba emettere i suoni striduli di quando era molto stressata con un altro essere che purtroppo Perry conosceva bene. Uno stallone morello che l’aveva sempre odiato. Lui di pelo ne aveva a sufficienza, ma era cattivo, Perry lo sapeva. Non gli aveva mai fatto né carezze, né complimenti. Perry aveva abbassato le orecchie e scosso la coda per esprimere tutta la propria contrarietà. Al tizio ignorante di carote aveva pure tirato un morso sul gomito. Ma nulla era servito. Le sue mamme l’avevano abbandonato e Perry gliel’avrebbe fatta pagare. Julian Acton, settimo Marchese di Northdall, lasciò Newmarket con la netta sensazione che il suo campione fosse offeso con lui. E Perry era solo un cavallo, Northdall lo sapeva, ma c’erano delle volte in cui dimostrava una suscettibilità quasi umana. Purtroppo in quel momento non poteva dedicarsi a lui. Troppi problemi, troppe complicazioni, troppe angosce. Persino aver appena vinto il Newmarket's Second Spring meeting – la corsa che più di ogni altra serviva da prova prima del Derby – gli dava una soddisfazione tiepida, sbiadita. Molte cose erano cambiate, da quando aveva iniziato ad allenare Perry. Almeno una per il meglio, le altre non proprio. In autunno la casa dei Vassemer era crollata. Il suo vecchio amico Sir Henry era rimasto sotto le macerie, le sue tre figlie erano state affidate a tre diversi tutori. E ormai Northdall era arrivato a provare dell’affetto per le tre terribili Vassemer – una l’aveva persino sposata – ma il resto della buona società londinese non la vedeva come lui. Ora anche la seconda sorella si era sposata, nientemeno che con un duca dalla reputazione più traballante della sua, e solo quella di mezzo restava, per così dire, a piede libero. Era un sollievo, anche se non si poteva sostenere in buona fede che tutte le ambasce del marchese dipendessero dalle Vassemer. Semplicemente, era come se quelle tre, limitandosi a comparire sulla scena, avessero messo in moto gli eventi. Quella sera, mentre tornava a Londra dopo il Newmarket's Second Spring meeting, senza neppure festeggiare la vittoria, i pensieri che angustiavano Northdall erano, in ordine di importanza: Era preoccupato per Rachel, sua moglie da pochi mesi. Molto, molto preoccupato, perché il bambino che aveva dentro non si stava comportando bene. D’altronde era il figlio di Christopher Mellors, l’uomo più disprezzabile sulla faccia della terra, che altro ci si poteva aspettare da lui? E Northdall sapeva che non era colpa del bambino, sapeva che il piccolo era innocente, ma non riusciva a smettere di provare rancore nei suoi confronti, a causa delle azioni aberranti del padre. Se ne sarebbe fatto carico – aveva giurato di farlo – ma nel suo cuore non c’era spazio per lui. La seconda posizione nella classifica delle preoccupazioni di Northdall era occupata dal suo figlio maggiore, Brian. Non c’era un eufemismo per descrivere quello che aveva fatto: aveva ucciso un uomo. Un uomo disprezzabile e corrotto, ma il crimine restava. Per il momento sembrava che l’avesse fatta franca, ma era davvero così? Dharya, il vecchio amico, compagno d’armi e maggiordomo indiano di Northdall, stava indagando con discrezione. In terza posizione, ma comunque parecchio più in basso in graduatoria, c’era il comportamento erratico di Matthew Brine, il suo trainer. Quell’uomo era sempre stato un isterico, ma nell’ultimo periodo era peggiorato ancora. Per fortuna i suoi cavalli continuavano a vincere e anche di quello si stava occupando Dharya, anche se non era sceso in particolari. Per Northdall andava bene così. Se c’era una persona al mondo di cui si fidasse, quella persona era Dharya. Se Dharya gli avesse chiesto in prestito entrambi i polmoni per un paio di giorni senza fornire spiegazioni, Northdall glieli avrebbe dati. Mentre tutto questo succedeva, la Stagione proseguiva come un carrozzone alla sfilata del carnevale caraibico. Inarrestabile. Adesso Rachel era a riposo e lui era dispensato dalle incombenze sociali, ma molto presto lei avrebbe avuto di nuovo il permesso di uscire e lui l’avrebbe seguita. Come poteva non seguirla? Era preoccupato a morte per lei, quindi non intendeva perderla d’occhio. Ma non voleva che lei se ne accorgesse, quindi doveva far finta di essere interessato ai balli, ai tè e a tutte le altre sciocchezze. Il parto era previsto per gli ultimi giorni di settembre, ben oltre la fine della Stagione, quindi lui doveva solo tenere duro e avere pazienza. E che Dio maledicesse in eterno Christopher Mellors. Anche Laura Nemme aveva dei dispiaceri. La sua Stagione, per ora, era stata un fiasco. Erano anni che sognava il momento in cui avrebbe fatto il proprio debutto a corte, immaginando che sarebbe stata ammirata e contesa da diversi scapoli interessanti. Non solo non era stata contesa, non c’erano neppure molti scapoli interessanti. Qualcuno era privo di un patrimonio anche solo accettabile, qualcuno di ogni traccia di personalità, qualcuno di entrambi, come il Visconte di Beaumont, che tentava di sopperire alla completa mancanza di carisma e denaro con un ridicolo paio di baffi. C’erano poi quelli che la personalità l’avevano, ma non era un granché. Come il Barone Teynham, che era abbastanza ricco, persino belloccio, di buona famiglia, ma era convinto di essere spiritoso senza esserlo davvero. Oltre al senso dell’umorismo raccapricciante – su cui Laura avrebbe senza dubbio soprasseduto – aveva anche una prozia... molto presente, diciamo. E questi erano gli unici due esemplari che avessero accettato di uscire con lei, oltre tutto solo dopo che li aveva convinti sua cugina Fortune. Il Duca di Oxford, altro scapolo in cerca di moglie, si era rifiutato di incontrarla per “incompatibilità estetiche”. Che un uomo alto come uno sgabello e con la faccia di un’aringa sotto sale potesse giudicarla troppo poco avvenente sarebbe stato ridicolo, se non fosse stato anche molto triste. «Non dovresti proprio crucciarti per lui» le aveva detto Fortune, durante un tè tra cugine nella sua sfarzosa magione sulla Piccadilly. Laura era distratta dalla saletta squisita in ogni dettaglio in cui stavano facendo una colazione tardiva, ma a quel punto si era ridestata. «Perché?» Anche Cicely si era fatta attenta. Delle quattro cugine era la più meticolosa, e stava conducendo la propria Stagione un po’ come un generale sul campo di battaglia, un po’ come uno scienziato nel suo laboratorio. Aveva catalogato tutti gli scapoli sul mercato con precisione tassonomica e stava procedendo alla selezione del miglior candidato attraverso un vero e proprio girone a eliminazioni. «Già, perché?» aveva chiesto a sua volta, socchiudendo gli occhi come un cobra che sta decidendo se mordere oppure no. «Be’, per prima cosa è un bigotto» aveva detto Fortune. «Sì, è risaputo» aveva concordato Cicì. «Bigotto, brutto e pieno di sé. Ma è un duca. Ed è molto ricco». Fortune si era mordicchiata il labbro inferiore. «Francis ha lasciato cadere un paio di insinuazioni su degli altri difetti. Difetti di natura personale, per così dire. Non ho chiesto altro». «Proprio a me doveva toccare il fardello di una cugina piena di discrezione» aveva sospirato Cicely, scuotendo la testa. Laura era frustrata quanto lei: niente ti sollevava la giornata come un pettegolezzo scandaloso al punto giusto – ossia molto. Ma era anche vero che, comunque, il Duca di Oxford non era alla portata di nessuna delle presenti, almeno di quelle ancora nubili. Oddio, forse di Vera sì, almeno a giudicare da come si erano sposate le sue due sorelle. Entrambe ben sopra il proprio rango, con esemplari nobilissimi, facoltosi e anche gradevoli alla vista. La più grande aveva sposato il marchese che le era capitato come tutore alla morte del padre. Lord Northdall era pieno di buone qualità e a Laura stava simpatico. Per lei non era mai stato un possibile obbiettivo, in quanto troppo anziano e vedovo, ma per Rachel, che aveva trentatré anni, un uomo di quaranta era perfetto. Peccato che il suo unico interesse noto fossero i cavalli e che persino il loro viaggio di nozze avesse avuto come meta un allevamento. Ma erano difetti veniali. L’altra sorella già maritata si era maritata da poco, anche lei ben al di sopra del proprio rango eccetera. I difetti, nel caso del Duca di Grey, erano un filo più evidenti: era un donnaiolo impenitente disinteressato al suo ruolo e al suo titolo, oltretutto noto giocatore d’azzardo. Quell’ultima cosa difficilmente sarebbe mai diventata un problema, il patrimonio di Grey era sterminato, ma per il resto non c’era nulla da fare. Infine c’era l’incognita di Vera. Lei sosteneva di non volersi sposare e di voler diventare una scrittrice di successo. Per Laura sarebbe stato perfetto. Non solo avrebbe avuto una concorrente in meno nella ricerca di un marito, ma sarebbe pressoché scomparsa dalla sua vita, dato che Laura non leggeva. Il problema era che anche le altre due sorelle sostenevano di non volersi sposare e guarda lì com’era andata a finire. No, sulla terza Vassemer era meglio non farsi illusioni. Cicely avrebbe fatto quello che voleva. Thomasine, la sorella maggiore di Cicely, presumibilmente alla fine avrebbe impalmato il Duca di Foster, che la teneva in attesa da due anni. E Laura? Laura era demotivata e infelice per quella Stagione così deludente. Thomasine Nemme era forse più demotivata e infelice di lei , anche se cercava di non darlo a vedere. Da quasi due anni viveva in uno strano limbo. Il limbo delle giovani che tutti davano per impegnate, senza che fosse stato formalizzato nulla. Se Prescott avesse proposto un lungo fidanzamento, nella loro situazione non ci sarebbe stato nulla di insolito. Anzi, i lunghi fidanzamenti erano spesso ritenuti preferibili, in modo che i due futuri coniugi avessero modo di conoscersi. Ecco, per quanto poco auspicabile fosse, Thomasine avrebbe preferito un lungo fidanzamento seguito da una rottura discreta, a quello stillicidio senza fine. Ormai era lo zimbello di tutti. Prescott compariva, le faceva regali anche impegnativi, si intratteneva con lei per qualche ora, nella più completa rispettabilità, sempre in pubblico e con un nutrito numero di chaperon, e poi svaniva come foschia mattutina. Nel frattempo nessun altro la invitava a un concerto, o a un vernissage, o a passeggio e lei era relegata con sua madre, o a fare da scorta a sua sorella Cicely. Ai balli, nessuno le chiedeva di ballare. Persino le malignità si erano spente, il che era un pessimo segno. Almeno, fino alla fine della Stagione precedente, era stata il bersaglio di frecciatine sulla mancanza di un fidanzamento ufficiale. Le altre ragazze la salutavano con frasi come “Oh, non ci vediamo da qualche settimana, ormai sarai fidanzata, vero?”, pur sapendo che il Conte di Foster non aveva ancora intrapreso quel passo. Ma ora anche le frecciatine erano cessate e tutti, semplicemente, la evitavano per non vederla in imbarazzo. E mentre lei faceva la muffa, altre ragazze, più giovani e agguerrite, debuttavano in società. La concorrenza si faceva peggiore di anno in anno e le tre Vassemer erano il minore dei problemi. La maggiore aveva sposato un marchese che nessuno pensava fosse sul mercato. Buon per lei, non era stata una perdita per nessuno. La più piccola si era presa Grey, che nessuna ragazza sana di mente avrebbe voluto. Anche in quel caso non era stata una perdita per nessuno. Quelle che preoccupavano Thomasine erano un paio di nuove leve pericolosissime. Miss Perkins, per esempio. Era una borghese, figlia di un ricco importatore, e questo spaventava Thomasine. I borghesi erano più decisi, più spietati, più determinati. Quando si mettevano in mente di mescolarsi alla nobiltà, non fallivano nell’intento. E miss Perkins aveva poco gusto, era vero, senz’altro la sua educazione non era rifinita, era troppo paffuta e i suoi abiti puntavano più sul lusso che sull’eleganza... ma se avesse voluto soffiarle Foster se lo sarebbe preso in un attimo. A Thomasine dispiaceva pensare certe cose del suo pretendente. Prescott sembrava così sensibile, così educato. Ma continuava a tentennare e, anche se Thomasine non l’avrebbe mai ammesso in pubblico, quale poteva essere la ragione, se non che sperava ancora di trovare qualcosa di meglio di lei? E non era eccezionalmente ricco, ma non era neppure sul lastrico. Se, per esempio, avesse voluto togliersi il capriccio di impalmare una splendida ragazza come Miss Swinton, la belle sans le sou [1] , chi avrebbe potuto impedirglielo? Miss Swinton era l’altra concorrente “forte” della stagione, sponsorizzata dalla Contessa Marlon-Barrigton, quella vecchia arpia, che ogni anno scovava una graziosa campagnola senza un penny da portare sulla ribalta sociale londinese come un regalino per i suoi amici vedovi. Per rasserenare la loro vecchiaia, certo, ma che cosa sarebbe successo se uno scapolo più giovane avesse deciso di regalarsi una moglie bella, povera, e senza appoggi? Thomasine non si faceva illusioni sulla bontà d’animo dei suoi pari: per molti l’idea di una moglie del tutto dipendente, senza una famiglia in grado di tutelarla, era una bella tentazione. Forse almeno di quello Thomasine avrebbe dovuto essere grata: era figlia di un barone. E suo padre non era un granché – a essere generosi – ma non l’avrebbe data in moglie al primo disgraziato di passaggio. Nella vita bisognava accontentarsi. Neppure Guy Haddock era del tutto felice. A trent’anni, avrebbe voluto sistemarsi e mettere su famiglia. Raccogliere i frutti del duro lavoro che l’aveva portato dov’era. Avere, finalmente, il riconoscimento che sentiva di meritare. Era sempre stato ambizioso, fin da piccolo. Ambizioso e astuto. Si era fatto da solo, quella era la definizione corrente, e di certo lui non l’avrebbe disputata. Si era fatto da solo. Pezzo per pezzo. Partendo dal nulla. Aveva lavorato come un mulo, aveva osato dove nessuno dei suoi pari si azzardava a rischiare, aveva sognato grande e sgobbato giorno e notte, aveva visto più lungo di molti altri. Aveva avuto successo. Aveva scalato una piramide sociale i cui fianchi sembravano unti di grasso per motori. Dalla nascita umile fino all’élite della borghesia londinese. Se solo fosse stato in grado di accontentarsi, nulla avrebbe incrinato la sua felicità. Ma se fosse stato in grado di accontentarsi non sarebbe arrivato fin lì. Era la fame a tenerlo in vita. Immaginare un obbiettivo impossibile, e poi raggiungerlo. E impossibile il suo prossimo obiettivo lo sembrava sul serio. Haddock voleva sposare una ragazza di sangue blu. Non sapeva neanche lui da dove venisse quel desiderio, che fino a pochi anni prima avrebbe ridicolizzato. Fino a pochi anni prima, i borghesi che cercavano di entrare nei circoli dell’aristocrazia gli facevano pena. Poveri illusi, convinti di potersi comprare uno status che di norma era assegnato per nascita. Che stupidaggine. Haddock se ne rendeva conto, eppure lo desiderava lo stesso. Forse era il suo modo per sottrarsi a un’ingiustizia che sentiva di non meritare. Per quanto fosse in gamba come uomo d’affari, per quanti quattrini avesse guadagnato nella vita, per quanto le sue fabbriche andassero a gonfie vele, l’ultimo degli aristocratici spiantati e nullafacenti aveva il diritto di guardarlo dall’alto in basso e di considerarlo inferiore a lui. Haddock non si considerava inferiore a nessuno e avrebbe voluto che anche il resto del mondo si decidesse ad ammetterlo. Purtroppo non era per niente facile. Oh, avrebbe potuto sposare una giovane nobile e spiantata. Le giovani nobili e spiantate, avendo capito le sue ambizioni, gli giravano attorno come zecche pronte ad attaccarsi alla sua pelle e a succhiare. Non era quello che Haddock voleva. Non gli interessava impalmare una tizia sicura di essere migliore di lui per nascita, ma disposta a prenderselo per portare nuova linfa all’economia familiare. Non voleva una moglie disposta a tutto per salvare dal tracollo finanziario i suoi parenti. Non voleva essere il “tutto” del “disposta a tutto”. Come se la scelta fosse tra l’elemosina, la prigione per debiti o Guy Haddock, e Guy Haddock fosse il meno peggio. No, grazie. Haddock voleva una vera vittoria. Voleva che i frutti dei suoi sforzi fossero autentici. Voleva essere accolto come un pari in una famiglia aristocratica. Ma dopo diversi anni di tentativi, iniziava a dubitare che fosse possibile. Persino i Nemme, con cui faceva affari da sempre e che non erano poi così nobili, in fondo lo consideravano un gradino più in basso di loro. Forse avrebbe fatto meglio a rinunciare, prima di avvelenarsi il fegato per qualcosa che non poteva avere. In quel finale di Stagione del 1889 queste non erano certo le uniche lamentele. Brian Acton, Barone di Maltravers e figlio di Northdall, era distrutto per aver tolto la vita a un uomo, si vergognava per aver lasciato che il suo amico Grey quasi si prendesse la colpa delle sue azioni, era pentito di aver pensato ogni male della nuova moglie di suo padre e dispiaciuto di aver deluso le aspettative di quel genitore in fondo non così malvagio. Rachel Acton, née Vassemer, era costretta al riposo da una gravidanza che non aveva mai voluto, soggetta ai capricci di un esserino che le era stato messo in grembo con la forza. Lady Eloise Nemme, madre di Cicely, Thomasine e del giovane Mark, era infelice come sempre per un marito fedifrago e disinteressato, e per una figlia che non riusciva a maritare. Il giovane Mark era vessato dai compiti che il suo istitutore, mr. Argall, non rinunciava mai ad appioppargli, quando lui avrebbe preferito disegnare cappellini da donna. Argall soffriva, in silenzio, le pene d’amore. Stannard Nemme, futuro Visconte di Hadley per parte di madre, non aveva affatto voglia di cercarsi una moglie, ma prima o poi avrebbe dovuto farlo. Matthew Brine, la “mamma di pelo falbo” del cavallo Perry nonché il trainer di Lord Northdall, era infelice perché presto l’amore della sua vita avrebbe dovuto sposarsi, e non con lui. Buona parte dei servitori delle due case Nemme – e in verità di quasi tutte le case di Londra – soffriva per via delle stanze fredde in cui era costretta a dormire e per via del duro lavoro alle dipendenze di lunatici professionisti, per di più ingrati e taccagni. Allargando il campo, nell’intera città non mancavano gli afflitti. Dai poveri che dormivano su una sedia presa a noleggio per la notte nell’East End, alle donne prive di ogni diritto in tutte le case di ogni classe sociale, alle prostitute disposte a vendersi per un bicchiere di gin, ai bambini costretti a lavorare in fabbrica, agli stranieri disprezzati per il colore della pelle, ai matti in catene al Bethlehem Hospital, agli affamati, ai malati, ai dimenticati, ai delusi, su-su fino alla Regina Vittoria, afflitta dalla vecchiaia, dai lutti e dagli eredi indegni, a Londra l’infelicità non mancava per nessuno. [1] Ossia squattrinata.
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