Lei gli sfiorò una guancia. «Non era una valutazione o roba del genere. Ero curiosa. Ti ho detto che ci ho pensato».
E ci aveva pensato. Aveva pensato a come si era sentita ad averlo sopra, o dentro. A leccarlo. A toccarlo. Aveva pensato al suo corpo nudo, mentre lo vedeva parlare alla TV. A quando avevano sfasciato quella camera e poi avevano scopato di nuovo sul letto coperto di schegge. La sua espressione quando veniva. Il suo odore. Il sudore che gli gocciolava dal mento e dal naso. I muscoli fermi delle braccia, i peli sul suo petto.
Aveva pensato a quando le aveva chiesto se era tutto okay e poi glielo aveva chiesto di nuovo.
E ogni volta era stata presa da un languore ridicolo, davvero ridicolo, perché nessuno si prende una cotta per il suo primo ministro, specie se il suo primo ministro è Norman Doyle.
«Mh-mh. E io ti ho detto che ci ho pensato anch’io. Non ho una vita personale molto sfavillante. Per lo più non ho proprio una vita personale. In effetti, credo di non essere una buona scelta sotto nessun punto di vista. Non sono giovane, non sono appassionato, non sono un granché a letto, ho un sacco di impegni, sono egoista... bah. Poi sono anche intelligente, non sono grasso, ho tutti i capelli e alcuni mi definirebbero persino interessante, solo che tu sei una tizia da copertina senza essere idiota, quindi come vedi c’è un problema. Ma, dato che sono anche ambizioso, ci ho pensato, sì».
Hanna rise e scosse la testa. «Non so. È stato un inizio folgorante. Ho avuto dei pensieri inappropriati. Non ti conosco per niente, ma quello che ho visto mi è piaciuto. Il che non significa che io sia d’accordo con la tassa sulla prima casa o con le spese militari».
«D’altronde, la realpolitik è un gusto acquisito» commentò lui. Iniziò a percorrerla pigramente con la mano libera.
«Norman?».
«Sì?».
«Niente, volevo vedere che effetto faceva».
Di nuovo, lei sentì la sua risata attraverso il suo torace, piuttosto che udirla. Doyle si spostò per baciarla sul collo, facendola rabbrividire. «Mh. Hanna Faye. Ha un suono interessante. Principalmente mi attira l’idea che non sia solo il tuo nome, a essere interessante. Non so nemmeno perché mi sia fatto questa idea. Tu non conosci me, ma io non conosco te. Forse non voglio ammettere di essere superficiale e basta».
Hanna lo guardò negli occhi, mentre lui le saliva sopra senza fretta.
«Sono sicura che puoi avere più o meno tutte le belle donne che vuoi. Non è onesto fingere che non sia così» gli disse.
Lui fece uno di quei suoi sorrisi appena accennati. «Ma certo. Sono bravo a convincere le persone. E alcune basta pagarle, suppongo». Le entrò dentro, continuando a guardarla con espressione quasi curiosa, come se volesse osservare la sua reazione. «Non è la mia specialità, Hanna. Inutile perdere tempo. Ogni tanto scopo con qualcuno, ma per lo più non lo faccio e basta. Con te...».
Iniziò a muoversi e non concluse la frase.
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Quando si svegliò lui non c’era più e Hanna provò una leggera fitta di panico. Era nella camera da letto del cancelliere, al numero uno di Svetlands Avenue, e non sapeva che cavolo fare.
Per prima cosa andò in bagno. Era una bella stanza, grande, dotata di ogni confort, molto ordinata. Troppo, per essere davvero la stanza da bagno privata di qualcuno. Quando uscì, tirò le tende e guardò l’orologio. Erano le otto e mezza. Su una sedia c’erano dei vestiti. Un paio di pantaloni da uomo, una camicia, pure quella da uomo, e un maglione. Sopra c’era un biglietto. Se ti servono, puoi usarli. Mi dispiace per le scarpe.
Hanna sorrise e scosse la testa. Si infilò i vestiti che Doyle le aveva lasciato e che, ovviamente, le stavano larghi. Si rimboccò i pantaloni.
Qualcuno bussò alla porta.
«Sì?» disse. Non poteva certo fingere di non esserci.
«Signora Faye?» chiese una voce femminile. «Sono la cameriera, posso entrare?».
Hanna andò ad aprire.
Era una giovane in grembiule e crestina. «Buongiorno, io sono Martha. Dice il cancelliere che forse vorrà fare colazione. Gliela porto qua o preferisce scendere? Devo mandare un vestito in lavanderia? Le serve qualcosa?».
«No, no» sorrise Hanna. «Scendo tra dieci minuti. Al vestito ci penso io, ma mi farebbe comodo un sacchetto. Dov’è che...»
«Al piano terra, sulla sinistra. Deve usare le scale private, in fondo al corridoio. Dice il cancelliere di avvisarlo quando va via, se... ecco, se vuole. Posso, ehm...». La sua espressione si fece imbarazzata. «Sa, ballavo, da ragazza. Sono una sua grande ammiratrice».
Hanna sorrise. Fece un passo indietro, la guardò.
«Le è rimasto il portamento».
Quando la cameriera se ne andò, finì di prepararsi. Era strano. Essere lì, era stranissimo. Quella cameriera mandata come un emissario, i vestiti, il biglietto. Era tutto particolare. D’altronde, che Doyle fosse una persona particolare era risaputo.
Si rimise le sue scomodissime scarpe con il tacco a spillo, si aggiustò i capelli e scese per la colazione. A quel che pareva si trattava di una piccola sala da pranzo. Un’altra cameriera le portò tè, uova, fette biscottate, marmellata e un gran numero di cose che Hanna non pensò nemmeno di mangiare.
Martha le portò il suo vestito in un grande sacchetto di carta e poi la guidò in un’altra ala dell’edificio.
Prima la prese in consegna un valletto e poi quello che si presentò come “Stuart Jarvis, segretario personale”. Alla fine fu fatta entrare in una stanza di rappresentanza e lasciata lì.
Qualche minuto più tardi Doyle entrò da un’altra porta.
«Come sei faticoso» sorrise lei.
Lui indossava uno dei suoi soliti completi austeri. «Lo so. Anche se vorrei provare a prendere un appuntamento con te senza essere il cancelliere». Si chinò per baciarla. «E naturalmente non ho tempo. Date queste premesse, che ne dici di rivederci?».
«Farò avere al tuo segretario i recapiti del mio segretario» rise lei.
«Oh, la situazione è così drammatica, eh? Pensavo di poter avere il tuo numero di cellulare».
Finì che lei gli fece uno squillo.
«Ora devo andare» ammise lui.
Hanna annuì. Anche lei doveva andare, questo era chiaro. Quantomeno, aveva avuto una mattinata interessante.
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La prima telefonata le arrivò verso le cinque del pomeriggio. Nel suo ambiente, chiamare di mattina era considerato scortese. Era Jean Gobert, la sua ex costumista al ballet e, naturalmente, non era tra quelli che avevano partecipato all’inaugurazione, la sera precedente.
«Scusa, ma esci con Doyle?» le chiese in creota, senza giri di parole.
Hanna si mise a ridere. «Ah, anch’io sono felice di sentirti, Jean!».
«Sì, sì. Mi risponderai o devo aspettarmi un uomo dei servizi segreti svetlani nel portone, una di queste sere?».
«Svetlandesi. Si dice svetlandesi. Ti risponderò, ma prima vorrei sapere come cavolo ti è venuto in mente».
Jean sbuffò nella cornetta. «Semplice. Mi hanno detto che ieri sera ve ne siete andati insieme dalla serata inaugurale della Hall. Ebbene sì, è stato notato. Come è stato notato che il vostro austero cancelliere ti ha puntata, all’ingresso, avvicinata, più tardi, e portata via, alla fine. Quindi?».
«Lo conosco da un po’» non si sbilanciò lei.
«Oh, cavolo» rise Jean. «Oh, cavolo. Ma allora è vero! Vai a letto con Doyle à Froid? Ed è davvero così? Froid?».
«Be’, no» borbottò lei.
«No nel senso che non ci vai a letto o no nel senso che non è un ghiacciolo come sembra?».
Hanna si coprì gli occhi con una mano. «La seconda, ma, sai, è, tipo...»
«Riservato!» la interruppe Jean. «Ovvio, ma forse – dico forse – dovevate pensarci prima di andarvene mano nella mano».
«Non ce ne siamo andati mano nella mano» puntualizzò Hanna. «E, sì, è riservato. Non voglio finire sulle riviste o roba del genere».
«Mh-mh. E ti è mai capitato di non finirci?».
« Voglio dire... non ora, no? Magari mai. Che cosa ne so?».
Jean rimase in silenzio per mezzo secondo. «Se non lo sai tu. Be’, io terrò la bocca chiusa».
«Sì, come no» scosse la testa Hanna.
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«Mi ha telefonato un tizio dell’Observer chiedendo un’intervista» esordì Malcom, il suo segretario, un’ora più tardi. «Poi uno del Globe. Poi dal News Plus. Poi ho capito che non si erano tutti improvvisamente convertiti alla musica classica e ho chiamato Greg. Il quale mi ha detto che vai a letto con il primo ministro. È vero?».
«Cristo» borbottò Hanna.
«Okay, è vero» concluse Malcom. «Devo smentire, nicchiare o confermare?».
«Smentisci» disse lei. «Cioè, aspetta» aggiunse, subito dopo. «Coordinati con... com’è che si chiama... Stuart Jarvis».
«Stuart Jarvis. Sarebbe?».
«Il segretario di Norman».
«Wow. Norman, eh? E dove lo trovo il numero di Stuart Jarvis, sulle pagine gialle sotto la P di Primo Fottuto Ministro?».
«Ingegnati» ribatté Hanna, che iniziava a essere scocciata.
Il suo segretario si limitò a sospirare.
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Quella sera ricevette ben due sms da parte di Doyle, uno verso le otto, l’altro verso le undici e mezza. Il primo era semplicemente il numero di cellulare di Stuart Jarvis e Hanna lo girò a Malcom. Il secondo diceva: “e se passo da casa tua?”
Hanna rispose: “controlla che non ci siano pappi”.
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«Ce ne sono tre» furono le prime parole che disse, quando lei gli aprì la porta. «Ma sono disorganizzati e semi-addormentati, sono entrato tranquillamente a piedi passando dal parcheggio sotterraneo».
Si sfilò il cappotto e Hanna lo appoggiò su un divano. Sotto aveva un paio di pantaloni neri e un dolcevita grigio scuro.
«Saresti in incognito?» sorrise lei.
«Già» confermò Doyle. Si guardò intorno. Era un appartamento grande, con i soffitti alti e il mobilio moderno, di design. Era anche abbastanza disordinato, nonostante Hanna non l’avesse ancora riempito del tutto con le sue cose.
«Beviamo qualcosa?» disse lei, precedendolo in cucina. «Sai, pensavo che qualcuno perquisisse preventivamente tutti i posti in cui metti piede».
«Sì, lo faranno, ma un’altra volta. Non ho paura di venire intercettato. Non ho paura di lasciarmi andare a confidenze pericolose per il bene della nazione. Al massimo possono sentire i miei triti complimenti su quanto sei bella stasera. E lo sei».
Hanna si guardò. Non ci aveva pensato, in realtà. Indossava un paio di pantaloni, delle scarpe piatte e un maglione sottile. Aveva i capelli raccolti dietro la nuca. «Grazie. Quindi? Vino? Qualcosa di più forte? Qualcosa di meno forte?».
«Di meno forte, direi. Bevo solo in pubblico».
Lei gli lanciò una lunga occhiata, poi prese dal frigo una bottiglia di acqua tonica. «Ora, questa è un’affermazione interessante».
Doyle sorrise e scrollò le spalle. «Dici? Sono così tanti anni che ho un’immagine pubblica e una vita privata che non ci faccio più caso. Anzi, ho proprio rinunciato a quella cosa della vita privata. Mi comporto sempre come se mi stessero guardando duecento persone».
«Be’, non proprio sempre» obiettò Hanna.
«Sempre. Poi, intendiamoci, è un sollievo che quelle duecento persone non ci siano davvero». Bevve un sorso e posò il bicchiere sul bancone della cucina. «Sono venuto con due diverse proposte, stasera».
«Addirittura. Esponile, quindi» sorrise lei.
Doyle si infilò una mano in tasca. «La prima» disse, mostrandole una chiavetta usb. «E la seconda» aggiunse, mostrandole un preservativo.
Hanna inarcò le sopracciglia. «Nelle tue intenzioni si escludono vicendevolmente?».
«No».
«Perché anche la chiavetta usb è interessante, a suo modo. Ti fa venir voglia di scoprire che cosa ci sia sopra».
«Un porno» rispose lui, lanciandogliela.
Hanna la prese al volo. «Eh?».
«Un video amatoriale, se preferisci» spiegò Doyle. Con le mani in tasca, girellò per la sua cucina, guardandosi distrattamente attorno. «L’unica versione esistente al mondo, a questo punto».
«Su questa chiavetta?» chiese lei. Non capiva.
«Anche se, in realtà, non sono del tutto sicuro che sia porno. Non l’ho guardato. Diciamo che me l’hanno venduto come tale. Questa mattina, verso le undici. Un certo Armin Samet, avvocato. Secondo lui, è un video che Kobe Tarwald ti ha girato a tua insaputa».
«Cosa?» fece Hanna, ora colpita.
Doyle fece un gesto vago nell’aria. «Ho rintracciato il filmato e ho distrutto tutte le copie esistenti. Odio venire ricattato prima dell’ora di pranzo. Poi ho mandato a farsi fottere Armin Samet. Ma ho pensato che distruggerle proprio tutte fosse troppo prevaricante, considerando che non ci conosciamo ancora eccetera, quindi ne ho tenuto una. Quella lì».
Hanna aprì la mano e osservò la chiavetta che aveva sul palmo. «Cristo. Mi dispiace».
Lui scosse la testa. «No, no... è stato un interludio divertente, tra una minuta dei bilanci della difesa e una riunione di gabinetto. Non ti preoccupare. Sapevo che avrebbero provato a ricattarmi e, del tutto onestamente, se pure quel filmato fosse finito in rete non me ne sarebbe fregato nulla, ma, ehi, ci sono già duecento foto hard chissà dove che prima o poi diventeranno pubbliche. Ho pensato che anche quel filmato ti avrebbe resa nervosa. Non è proprio la migliore delle presentazioni, no? Prima di conoscermi la gente poteva guardarti al massimo in tutù o in costume da bagno».
Hanna, con lo sguardo ancora sulla chiavetta, non l’aveva seguito attentamente. «Quindi è... una specie di regalo?».
Alzò gli occhi. Doyle sembrava pensieroso. «Se vuoi metterla così. Puoi anche definirla un’imperdonabile intromissione».
«La sarebbe se tu fossi andato a cercarlo senza nessun tentativo di ricatto di... com’è che si chiama?».
«Armin Samet. Che poi è un avvocato amico di Kobe, temo. Ma hai soltanto la mia parola in merito».
Hanna sbuffò. «Norman, se anche tu avessi passato al pettine il mio passato fotogramma per fotogramma per semplice paranoia... non credo che l’avrei considerato così invadente. Anzi, do per scontato che tu l’abbia fatto. Se non tu, qualche spione di stato. Non mi interessa. Non sono una killer internazionale».
Di nuovo, lui si strinse nelle spalle. «Qualcuno lo farà, ma non per cercare filmini porno. L’antiterrorismo ti controllerà e poi mi allungherà una bella lista di possibili cattivoni che tu conosci. Ricevo liste di questo genere tutto il tempo e per lo più sono carta da cesso. No, sapevo che quello non ti avrebbe infastidita. Questo... non lo sapevo».
Hanna tornò a soppesare la chiavetta. «E ora vorresti vederlo? Non ho idea di quando sia stato girato, se poi è un filmino porno. Ma io e Kobe siamo stati insieme per quasi due anni, credo che le occasioni non siano mancate».
Doyle si accarezzò il mento. «Lo voglio vedere?» chiese. «Bah. Sì, certo. È indispensabile? Se non avessi potuto resistere, l’avrei già visto».
Hanna si chiese se appunto non l’avesse già fatto. Non aveva modo di saperlo, dato che probabilmente era un ottimo bugiardo e non si sarebbe mai tradito. Ma non aveva motivo di mentirle, in quel momento, e comunque non le importava.
«Guardiamolo, allora. Non credo di poterti scandalizzare».
Lui ridacchiò. «Oh, l’hai già fatto di persona, e mi è piaciuto parecchio».
+++
«È la camera da letto dell’appartamento di Kobe a New Zoe. Ci sono stata tre o quattro volte, non di più. E non ricordavo nemmeno di averci fatto... be’, forse sì».
Erano seduti sul divano grande e morbido del suo salotto e Hanna aveva inserito la chiavetta nella tv da 42 pollici.
Per il momento l’inquadratura era vuota. Una camera da letto sui toni dell’azzurro, con un armadio-specchiera bianco. Poco dopo entrò Kobe, alto e atletico, con i corti capelli scuri. Aveva delle spalle da nuotatore, anche se era un ballerino.
Aveva addosso solo un accappatoio bianco. Si fermò accanto al letto e gridò: «Hanna! Dio santo, che cosa stai facendo?».
Anche Hanna entrò nell’inquadratura. Aveva i capelli legati, dei fuseaux, un reggiseno sportivo ed era scalza. «Rispondevo a un’email» disse, mentre Kobe apriva l’accappatoio per mostrarle la mercanzia. «Oh, non avevo capito» sorrise lei.
Lui buttò via l’accappatoio e la prese per una mano. Si sedettero sul letto e lui la aiutò a sfilarsi i vestiti. Mentre lo faceva le infilò dentro un dito, per poi leccarselo. Lei rise.
«Non eravamo più molto interessati l’uno all’altra, in questo periodo» commentò Hanna. «Vorrei sapere perché aveva messo una telecamera in quell’appartamento».
«Si può anche scoprire, se ti interessa» rispose Doyle «ma non credo che sarebbe una sorpresa eccezionale».
«No, probabilmente no».
Hanna si sfilò le scarpe e incrociò le gambe, mentre sullo schermo Kobe le guidava la testa sopra il proprio pene. Inginocchiato sul materasso, con una mano sullo chignon di lei, sembrava quasi che manovrasse un joystick. Hanna succhiava e leccava diligentemente, a quattro zampe.
«Ammetto che è intrigante» mormorò Doyle, appoggiandosi allo schienale. Hanna sbuffò. «Ma possiamo smettere di vederlo quando vuoi, è chiaro» aggiunse lui. La prese per la vita e se la appoggiò a un fianco. Hanna si accoccolò contro il suo corpo.
Sullo schermo, Kobe la stava toccando con le dita, mentre lei era ancora carponi sul letto. Si chinò per leccarla e Hanna si inarcò di più. Lui disse qualcosa che non si capì.
«Perché, poi?» borbottò Hanna. «Non è sicuramente povero. Perché?».
«Forse solo per romperti le palle» rispose Doyle, accarezzandola sul fianco.
«Forse solo per romperle a te» disse lei.
«Confesso che mi sta intrattenendo».
Hanna gli posò una mano sul cavallo dei pantaloni. «Sì, sembri intrattenuto» sorrise. Gli slacciò la cintura.
Sullo schermo, intanto, Kobe si era inginocchiato dietro di lei e la stava penetrando tenendola per le anche. Aveva un ritmo regolare, quasi ipnotico.
Dopo circa cinque minuti uscì e le appoggiò la punta del pene tra le natiche. Hanna voltò la testa e disse qualcosa, che però non si sentì. Lui rise. «Basta dirlo». Poi le entrò dentro di colpo. Hanna gemette forte. «Cristo, Ko!». Lui uscì. Disse qualcosa e lei si voltò a pancia in su. Kobe le sollevò le gambe, appoggiandole le caviglie sulle sue spalle, e la penetrò di nuovo.
In quella posizione, si vedeva perfettamente il suo pene che le entrava dentro.
«Ha un occhio per la cinepresa» commentò Doyle. Hanna lo stava accarezzando tra le gambe, con la mano dentro i suoi pantaloni. Era duro. Era così, così duro. Quasi non ci si credeva, che un politico come Doyle potesse avere un’erezione simile. Anche se ripensandoci, un politico come lui che altro tipo di erezione avrebbe mai potuto avere? In sella da vent’anni, pugno di ferro in guanto di velluto. Potente nell’unico, vero, senso del termine.
Sullo schermo Kobe continuava a farle il culo.
«Quel bastardo. Voleva che si vedesse la penetrazione anale».
Doyle le leccò un orecchio. «Già. Fermati, per favore».
Kobe, sullo schermo, la infilzava senza fermarsi, accarezzandola anche davanti, con le dita prima, penetrandola con medio e indice poi. Si allungò sopra di lei, piegandola in due, per stringerle anche un seno.
Disse qualcosa che fu coperto dai gemiti di lei. Subito dopo urlò, aumentando il ritmo. Ancora qualche secondo e le uscì da dentro, lasciandosi dietro una scia biancastra.
Hanna si appoggiò sui gomiti e lo guardò.
«Tranquilla» disse lui.
«Mi ero dimenticata» borbottò Hanna. «Che sciatteria».
Kobe si allungò verso il comodino e prese qualcosa. Doyle inclinò la testa per seguire l’operazione. «Non mi dire».
«Naturale. Kobe ha sempre creduto nella tecnologia» spiegò Hanna.
Nel filmato, Kobe le infilò un cuscino sotto la schiena e un grosso vibratore, spento, tra le gambe. Nel frattempo la toccava anche con le dita.
Continuò per qualche minuto, poi le chiese di voltarsi di nuovo. Hanna lo fece. Kobe continuò a penetrarla con il vibratore spento, mentre con l’altra mano si accarezzava.
Ancora qualche minuto ed era di nuovo pronto.
Le entrò dietro, continuando a tenere il vibratore premuto dentro la sua v****a. Hanna emise un gemito che era quasi un grido, poi ansimò più forte, toccandosi a sua volta con una mano. Venne subito dopo.
Kobe continuò a penetrarla ancora per un po’, prima che lei se lo scrollasse di dosso.
«Resta così» disse lui.
Si masturbò sul suo sedere, venendo poco dopo.
«Voglio farlo anch’io» ammise Doyle.