Capitolo 2
Il foyer della New Town Hall di Garamantia era illuminato da un migliaio di lanterne sospese. L’effetto era suggestivo. L’apertura della stagione era sempre un momento speciale, qualsiasi fosse il teatro e qualsiasi fosse il tuo ruolo, pensò Hanna.
Fino all’anno precedente, il suo ruolo era stato quello di prima ballerina al prestigioso ballet national di Robel. Ora era qua, nella capital del Regno, di nuovo a casa, o quasi. Non era più la prima ballerina, naturalmente, ma era la direttrice del corpo di ballo, quindi non poteva lamentarsi.
La verità era che le Svetlands non le erano più familiari.
Si era trasferita in città da quattro mesi. Conosceva un sacco di persone e le cose da fare non le mancavano di certo, ma si sentiva come se fosse in terra straniera.
Eppure, era nata lì. Be’, non proprio. Era nata in una cittadina del nord, un posto dove il vento, d’inverno, soffiava dal mare e sembrava volerti strappare via la pelle.
Anche il suo aspetto era quello di una creatura del nord, ne era consapevole. I capelli chiarissimi, quasi argentati, e gli occhi blu scuro. Il suo aspetto l’aveva sempre aiutata, inutile negarlo. Anche la fatica, il lavoro e lo studio, era naturale, ma ballare aveva tutto a che vedere con il corpo e la natura le aveva regalato un corpo adatto. Negli ultimi trent’anni aveva curato quel corpo con tutta l’attenzione che si può dedicare a uno strumento di lavoro, ma ora poteva rilassarsi.
Rilassarsi, non lasciarsi andare, pensò, mentre mangiava una tartina piena di panna.
Salutò un paio di persone, senza smettere di guardarsi attorno. Il foyer era pieno di gente. Il concerto inaugurale era stato applaudito. Andava tutto bene.
Le si avvicinò il direttore.
«Che cosa te ne pare?» le chiese, porgendole un flûte di champagne. «Regge il confronto con Robel?».
«Oh, sì. Certo che sì. Siamo teatri di pari importanza, sai. È meglio che al ballet non se lo dimentichino».
Harris bevve un sorsino. Era un ometto azzimato, curatissimo, con due curiosi baffi attorcigliati e dei modi squisiti. «Sono contento che tu la pensi così. Abbiamo bisogno di qualche idea radicale, sai. Il tuo programma... tu stessa...» lasciò sfumare la frase. «Promette bene. Hai visto? C’è il principe Robert. E c’è il cancelliere. Erano anni che non veniva all’apertura».
«Sì, eh?» mormorò Hanna, distratta.
Naturalmente sapeva che c’era il cancelliere. L’aveva visto. Le aveva persino rivolto un cenno di saluto, mentre entrava. In quel momento stava parlando con un signore piuttosto abbondante, che sembrava molto più anziano di lui anche se doveva avere al massimo cinque anni in più.
Norman Doyle si portava bene, era un fatto. Hanna ricordava in ogni dettaglio come fosse da nudo e il pensiero la imbarazzava. No, la imbarazzava lo stupido sorriso che le spuntava sulle labbra ogni volta in cui lo ricordava. Ovvero un po’ troppo spesso.
«Non gli interessa la lirica, vedi» stava dicendo Harris, in tono mondano. «Né la sinfonica, né il balletto, per quel che ne so. Ma ogni tanto compare, per dimostrare che è un essere umano o qualcosa del genere. Cosa che naturalmente non è» concluse il direttore, con una risata appena accennata. Rise anche Hanna.
«Conosci già il principe?».
Lei annuì. «Tempo fa. Be’, sai, per modo di dire, ma d’altronde... è solo per modo di dire che puoi conoscere un reale, no?».
«Probabile» sorrise Harris, rivolgendo un cenno di saluto a qualcuno. «Oh, lui sì che è un vero appassionato di balletto». Appoggiandole una mano su un gomito, la guidò da quella parte.
Il principe ereditario era un uomo sulla quarantina, l’eleganza nonchalant di chi non può evitare di essere sempre appropriato, i capelli radi e il girovita un po’ appesantito. In quel momento era privo della consorte.
Interruppe la conversazione (un importante industriale, credeva Hanna) e si voltò verso il direttore. «Harris, che meraviglia! Quest’anno vi siete superati».
Il direttore si chinò lievemente. «Sono molto felice di sentirglielo dire, altezza. Conosce già la signorina Faye, credo? La nostra nuova direttrice del corpo di ballo».
Il principe sorrise in modo piacevole. «Certo. Ci siamo incontrati. Ho seguito la sua carriera. È un peccato che abbia deciso di ritirarsi, ma sono certo che la sua presenza sarà preziosa per il teatro e quindi, indirettamente, per il prestigio della nazione». Si interruppe, fece un piccolo sorriso. «Era molto pomposo, vero?».
Hanna sorrise a sua volta. «Era molto gratificante, altezza».
«Ah, bene» finse di sospirare di sollievo lui. «E si sta avvicinando anche la seconda carica della nazione... il che è un bene, perché la prima carica della nazione è molto più prolissa».
Sia Hanna, sia Harris risero educatamente. Se il principe faceva uno scherzo sul re, suo padre, bisognava ridere educatamente.
In realtà, Hanna era quasi raggelata. Doyle si stava davvero avvicinando e lei non aveva idea di come comportarsi. Dato che negli ultimi tre mesi l’aveva visto solo in TV, non sapeva bene in quali rapporti fossero.
«Norman... finalmente hai deciso di interessarti anche agli aspetti più alti dell’esistenza, oltre che alle sterili incombenze del paese?» disse il principe Robert, stringendo informalmente il braccio al primo ministro.
Lui gli rivolse un sorriso sottile. «Era una citazione?».
«Mh? No, non credo. Sono contento di vederti in una situazione mondana. Sembra quasi che tu sia un essere umano». Era già la seconda persona a sottolinearlo. Doveva essere un vecchio scherzo, nel circolo di persone piuttosto ristretto che incontrava Doyle di frequente.
Il cancelliere sbuffò. «Non sono le mie preferite. E partecipo a un sacco di situazioni mondane, solo che sono diverse da quelle a cui partecipa lei, altezza. In genere, gli organizzatori di un evento ritengono che avere un principe e un primo ministro sia accanirsi contro gli altri ospiti. Non la New Town Hall, naturalmente. Loro amano accanirsi. Come vanno le cose, direttore Harris?».
«Molto bene, cancelliere, la ringrazio. Conosce già la nostra nuova...»
«Hanna Faye, ma certo» lo interruppe Doyle, prendendo una mano di Hanna e accennando a un baciamano. Sorrise. «Fatti guardare, Hanna. Sei incantevole. Quel colore ti dona. Quindi? Com’è stato tornare a Garamantia?».
«Non avevo mai abitato qua, veramente. Devo ancora... ambientarmi».
«No? Davvero? Mai? Cielo, allora hai tutta la mia simpatia, specie quando verrà il caldo. Il Dore emana un odore... mh, caratteristico. Spero che tu non abbia preso casa su un lungofiume».
Hanna sospirò. «Sul lungofiume Bishop. Pensavo che mi avrebbe ricordato... be’, la rive d’Orsin».
Doyle inarcò le sopracciglia. «Non dirò più una parola. Ottima scelta».
Lei rise. «Non è necessario, ho capito».
«Questa sera una sorpresa dietro l’altra» intervenne il principe Robert. «Prima il nostro amato cancelliere interviene all’apertura dell’anno concertistico, poi si scopre che è anche in grado di conversare del più e del meno».
Il direttore Harris si limitava a spostare lo sguardo tra i compagni di conversazione, con un sorriso soddisfatto. Pur non essendo il genere di persona che amava avere conoscenze importanti, era sempre soddisfatto di essere al centro di un gruppo ben affiatato. Sembrava gioirne su un piano formale.
Come prescriveva l’etichetta dei ricevimenti, continuarono a parlare ancora per cinque minuti circa, prima di mescolarsi agli altri invitati.
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Hanna si appoggiò alla rientranza di una finestra, cercando di riposarsi piedi e colonna. Era dritta da quasi un’ora su quei tacchi cui non era abituata. Guardò il foyer e si chiese se, ormai, non avrebbe potuto semplicemente andarsene. Aveva presenziato, non poteva negarlo nessuno.
Molti degli invitati erano tornati a casa, ormai restavano solo gli irriducibili, quelli che chiacchieravano e bevevano, in piedi, come se fossero al pub.
Norman Doyle se n’era andato quasi subito, era ovvio.
Perché poi, doveva continuare a pensarci? O meglio, sapeva perfettamente perché, ma non era né saggio, né consigliabile.
Lo vide che usciva a passo veloce da una saletta laterale, guardarsi attorno e poi dirigersi verso di lei. Ora che l’atrio era quasi deserto, i due uomini vestiti di scuro che lo tenevano d’occhio si notavano, ma si fermarono accanto alla porta della saletta.
«Pensavo che te ne fossi andato da un pezzo» disse Hanna, quando lui si appoggiò al marmo della finestra, accanto a lei.
«Sono solo scomparso per un po’. Ho ricevuto una chiamata a cui dovevo rispondere. Pensavo che tu te ne fossi andata».
Hanna si strinse nelle spalle. «Lo stavo per fare. Cioè, mi stavo chiedendo se fosse appropriato. Mi fanno male i piedi».
Doyle spostò lo sguardo sulle sue decolté nere, con il tacco alto.
«Volevo semplicemente dirti che è tutto silenzioso» disse, a voce bassa. E i bassi della sua voce, si rese conto Hanna, sembravano vibrarle sulla pelle. «Niente si muove. Potrebbero anche averci pensato i servizi segreti di qualcun altro, ma non credo».
«Va bene» disse lei.
Lui emise una breve risata. «No che non va bene».
Hanna fece un gesto vago nell’aria. «Quello che intendo è...»
«Lo so» la interruppe lui, posandole una mano sul polso. Hanna spostò il braccio.
Doyle inclinò la testa da un lato e si staccò dal vano della finestra.
«No, non...» iniziò Hanna. Si fermò. Di nuovo lui inclinò la testa da un lato, come se stesse aspettando di avere abbastanza elementi per formulare un’ipotesi più sicura.
«Ho... pensato... a te» mormorò Hanna, senza guardarlo. «Non va bene».
Doyle sorrise in modo quasi impercettibile. «No?».
«Non...» sospirò Hanna, con un gesto impotente nell’aria.
«Il numero uno di Svetlands Avenue è a cinque minuti di macchina» disse lui, indicando l’uscita, dietro di sé, con il pollice.
«Non...»
«Anch’io ho pensato a te» disse lui. Una semplice informazione.
Hanna chiuse gli occhi, per poi riaprirli poco dopo. Aveva inarcato la schiena e raddrizzato le spalle come prima di un jeté. «Se ne accorgeranno».
Il viso serio, quasi ascetico, del cancelliere si piegò in un sorriso lento. «Bene» disse, scrollando le spalle. «Chi se ne frega, no?».
Anche Hanna sorrise. In effetti, su di lui ne dicevano già di tutti i colori.
Si separarono per gli ultimi saluti e si rincontrarono vicino alla porta d’uscita, qualche minuto più tardi.
La testa di Hanna arrivava più o meno all’altezza del suo petto, che, a pensarci bene, era proprio l’altezza giusta.
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Dicevano che un completo sartoriale avesse sulle donne lo stesso effetto della lingerie di pizzo sugli uomini. Hanna non era sicura che fosse vero. Negli ultimi tre mesi le era capitato di vedere Norman Doyle alla televisione, come evitarlo? Era sempre vestito in modo impeccabile, con le camicie bianche inamidate e dei gusti molto classici in fatto di cravatte.
Hanna era in grado di giudicare i suoi abiti. Vedeva che erano di sartoria, notava il modo in cui gli cadevano. A pennello.
A pennello sulle spalle dritte, sulla figura slanciata. Cercava di non pensare a com’era da nudo, ma non ci riusciva. Arrossiva, quando compariva al telegiornale. E aveva come... come dei lampi, delle veloci immagini che le esplodevano dietro gli occhi. La sua bocca socchiusa, ansante, il sudore che gli gocciolava dal mento. I peli scuri sul petto. La pancia piatta e dura, la selva dell’inguine. Immaginava la sua erezione e le sembrava di averlo ancora dentro. Durava pochi istanti, ma le mozzava il fiato in gola.
A volte, quando stava per addormentarsi, vedeva il suo corpo rilassato tra le lenzuola. Le iridi grigie nascoste dalle ciglia, quell’espressione assonnata. Sorniona. Ammirata.
Prima o poi si sarebbe liberata di quei lampi, si era detta. Non erano cose intelligenti da pensare del primo ministro del tuo paese. Uno con cui eri finita a letto – vero – ma solo per un incidente di percorso. I loro mondi erano come galassie distanti, le cui ultime propaggini, chissà come, si erano sovrapposte.
Una volta.
Non sarebbe successo mai più.
Non aveva chiesto al suo agente di organizzare un incontro. Sarebbe morta di vergogna al solo pensiero.
E anche quei pensieri stupidi, da ragazzina alla prima cotta, sarebbero passati. Nessuno prendeva una sbandata per il suo primo ministro. Potevi trovarlo un bell’uomo, non potevi trovarlo sexy. Non era sexy.
Era distaccato. Austero. Persino noioso.
Si era detta che le sarebbe passata presto. Se l’era detto e ripetuto, finché non l’aveva rivisto nel foyer della New Town Hall.
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Aveva le mani magre, dalle dita lunghe, con i tendini che spiccavano sul dorso. Erano belle mani. Una, la destra, era posata su uno dei suoi seni. Il suo braccio le passava dietro al collo. Il suo fianco era contro il suo fianco. Hanna, con gli occhi socchiusi, aveva abbandonato la testa vicino alla sua spalla.
«Quindi, praticamente...» disse «...questa è la versione giusta, no?».
«Credo che dovrai essere un po’ più specifica. È la versione giusta di che cosa?».
«Ognuno ha il suo modo di fare sesso, no? La prima notte eravamo drogati, la seconda manche... be’».
Lui le accarezzò il capezzolo con il pollice fino a farlo indurire. «Ah». Hanna sentì che rideva, anche se non fece nessun suono. «È difficile replicare una performance come quella, senza essere del tutto sballati e senza qualche altro aiuto chimico. In realtà mi vergognerei anche, credo».