Capitolo 1
Era possibile che Doyle fosse l’amante migliore che le fosse mai capitato. Più probabilmente era così drogata che le sarebbe sembrata eccezionale qualsiasi cosa, anche sedersi su una pallina da tennis. Era in fiamme. Ogni minimo contatto si propagava come corrente elettrica sulla sua pelle.
Hanna venne per la terza volta, e tra i suoi pensieri confusi ne emerse uno: si sarebbe ricordata qualcosa, il giorno dopo?
«Pensi che fosse Roipnol?» chiese.
Doyle si passò una mano sulla faccia per asciugarsi un po’ di sudore. Gocciolava. «Non credo». Si rivoltò sulla schiena, con gli occhi al soffitto. «Se ci tieni così tanto a sapere che cos’è, puoi pisciare in un bicchiere».
«Eh?» fece Hanna.
Lui strizzò gli occhi. Anche Hanna vedeva tutto sdoppiato, quindi non si chiese perché l’avesse fatto.
«Dico, puoi far analizzare la tua urina, domani. Ma è meglio se la produci ora. Ho la sensazione che questa roba venga metabolizzata in fretta».
«Che schifo» concluse Hanna.
Doyle si voltò dalla sua parte e le lanciò una specie di sorriso. «Non so tu, ma io sono pronto per il quarto round. Ci doveva essere dentro del Viagra, poco ma sicuro».
Hanna lo guardò per qualche istante. Norman Doyle, cancelliere delle Svetlands. «In TV sembri più alto» gli disse. Si appoggiò su un gomito. Aveva la sensazione che tutto ruotasse e ondeggiasse nello stesso momento. Doyle era pallido, ma a volte le sembrava rossastro.
Aveva solo voglia di scoparselo ancora e ancora e ancora, fino alla fine del tempo. Gli fece segno con la mano di farsi sotto.
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La svegliò la luce del mattino. Nessuno aveva chiuso le tende, ovviamente. Hanna aprì gli occhi al rallentatore. Per prima cosa vide il soffitto della camera. Color champagne, con delle decorazioni di stucco o forse dei trompe l’oeil.
Facendo scendere lo sguardo lungo la parete di fronte al letto, un quadro antico in una cornice barocca e uno scrittoio di noce dal design di inizio secolo. La classica stanza di un hotel di lusso, nulla di insolito da rilevare.
Si stiracchiò.
Stava... bene. Ricordava praticamente tutto. Non aveva mal di testa, né mal di stomaco, né altro. Nessuno strascico.
Guardò alla sua sinistra.
Norman Doyle era sdraiato sulla pancia e stava controllando qualcosa sul cellulare, appoggiato sui gomiti.
«Ciao» disse, vedendo che si era svegliata. «Continua a non esserci campo, né mobile né dati. Io penso che abbiano messo fuori uso un ripetitore. Zona sperduta... bah, al massimo due».
Hanna scese dal letto e andò in bagno. Per un istante pensò di coprirsi, ma non avrebbe avuto molto senso. Poche ore prima, con quell’uomo, aveva fatto di tutto.
Il bagno era grande e luminoso, con una doccia idromassaggio e uno specchio gigantesco. Uno degli asciugamani bianchi dell’albergo era appeso accanto alla doccia, segno che Doyle si era svegliato da un po’ di tempo. L’aria era umida e calda. Sì, confermò Hanna, si era già fatto una doccia.
Si guardò nello specchio, che la rifletteva dalle ginocchia in su. I capelli erano un casino. Aveva dei graffi su una natica e un segno di natura imprecisata su una tetta. Sulla sua coscia destra c’era qualcosa... mh, naturalmente, pensò. Liquidi organici secchi. Meraviglioso.
Si infilò nella doccia. L’acqua era regolata su una temperatura troppo calda.
Dunque, ricapitolò, lasciando che il getto la colpisse sul viso, la sera precedente qualcuno aveva drogato il cibo di tutti e la serata conclusiva della conferenza internazionale sulla fame nel mondo si era trasformata in un’orgia. O, comunque, la stragrande maggioranza dei partecipanti non si era ritirata da sola e si era ritirata ben prima del dessert.
Lei era finita a letto con il primo ministro del suo paese d’origine, che dal vivo era un pochino più basso di quel che sembrava in TV.
Probabilmente qualcuno l’aveva messa accanto a lui apposta. Cioè, la sera precedente si era stupita che il suo posto a tavola fosse accanto a quello del cancelliere. Aveva scherzato, dicendo che forse era per le fotografie. Era decorativa.
Ora, quanto meno, sapeva che non era per le fotografie.
Ricordava ogni cosa della notte appena trascorsa, ma questo non significava che le facesse piacere. Ricordava di averne chiesto ancora, e ancora, come una tossica in astinenza. Di aver perso ogni pudore. Doyle l’aveva fottuta come una bestia.
No, che lui l’avesse fottuta come una bestia era un pensiero auto-assolutorio comprensibile, ma sbagliato. Avevano scopato come animali. Entrambi. Si erano divorati a vicenda, avevano tratto il massimo piacere possibile l’uno dall’altra, senza porsi limiti.
Si sciacquò usando il bagnoschiuma dell’albergo. Non era una sottomarca, il che era già qualcosa.
Per quanto non volesse pensarci, doveva prendere atto che le faceva male tutto, là sotto e là dietro. Sperava che Doyle non avesse qualche malattia. Avrebbe dovuto prendere la pillola del giorno dopo. E, probabilmente, le sarebbe servita anche della pomata per le emorroidi.
Si accucciò sotto al getto dell’acqua, si strinse le ginocchia con le braccia, e pianse.
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Quando uscì dal bagno, lo trovò che si stava annodando la cravatta, davanti allo specchio del corridoio. Aveva un’espressione piuttosto nera, pensò.
Si voltò verso di lei, che si era avvolta attorno al corpo un asciugamano dell’albergo.
«Tutto okay?» le chiese.
Hanna annuì. «Sì» mormorò, distogliendo lo sguardo. Che cazzo di domanda era, poi, quella?
Sentì una mano sulla propria spalla. Si voltò.
«Scusa se mi ripeto: tutto okay?».
Doyle la guardava con espressione seria. Seria e nera, più nera di prima, praticamente nerissima.
Hanna scosse la testa, piano.
«Sono così arrabbiato che ho persino paura a iniziare a spiegarti quanto sono arrabbiato» espanse il concetto lui, sempre serio e sempre nerissimo. «Inoltre» aggiunse, facendo un piccolo gesto circolare con l’indice, «credo che qua, da qualche parte, ci sia una bella videocamera o qualcosa del genere».
Si allontanò di un passo. «E ora spaccherò tutto, finché non la trovo. Se non la trovo... spaccare tutto mi farà sentire comunque meglio. Per caso pensi che spaccare qualcosa possa far sentire meglio anche te?».
Hanna ci pensò per qualche secondo, in silenzio. Dio, sì. Da quando si era svegliata c’era qualcosa che voleva fare, un imperativo che non riusciva a mettere a fuoco. Posò entrambe le mani sullo schienale della sedia dal design finto-antico che era davanti allo scrittoio e strinse. Respirò. Sollevò la sedia e la scagliò contro lo specchio, usandola come una mazza da golf non-regolamentare.
«Così mi piaci» sorrise Doyle.
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Ansimava e sudava. Attorno a loro, la camera d’albergo era sventrata. Avevano trovato una chiavetta USB. Doyle si allargò il nodo della cravatta. Aveva le maniche della camicia arrotolate e i pantaloni, senza bretelle, gli cadevano un po’ sui fianchi. Hanna aveva perso l’asciugamano.
«Cazzo» borbottò lui, aprendo e chiudendo una mano.
Hanna rise.
Lui tornò a guardarla. Inclinò la testa da un lato. «Cazzo. Quanto sei bella».
Hanna rise di nuovo e gli fece segno di farsi sotto. Si ritrovò premuta contro il materasso pieno di schegge, con Doyle sopra che la baciava come se volesse mangiarle la faccia.
Gli strinse i fianchi con le cosce e le spalle con le mani. Forte. Se lo ritrovò di nuovo dentro, che spingeva, spingeva. Lo morse vicino al collo.
Venne quando sentì che lui veniva. Non aprì gli occhi. Si limitò a pensare che il suo peso era rassicurante e anche che per essere un uomo così sottile pesava parecchio. Poi lui scivolò da un lato, lasciandosi dietro solo una mano, posata sullo stomaco di Hanna.
«Dio Cristo» ansimò.
«Già» confermò lei.
Doyle si alzò e andò in bagno. «Scusa» disse. Il modo in cui la buona educazione aveva la meglio su di lui anche in quelle circostanze era quasi ridicolo. Aveva appena tirato fuori l’uccello da dentro di lei, ma prima di uscire dalla stanza si scusava. Hanna sentì il rumore dell’acqua, poi Doyle rientrò, con i pantaloni di nuovo su e i capelli umidi.
«Io credo che dovremmo parlarne ora, prima di collegare quella chiavetta al cellulare» disse. «Perché poi probabilmente mi incazzerò di nuovo».
Hanna sospirò e annuì. «Bagno» spiegò, alzandosi a sua volta.
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«Immagino che volessero andare sul sicuro» disse lui, mentre Hanna si infilava le scarpe. La aiutò con la cerniera del vestito senza bisogno che lei glielo chiedesse.
«Be’, non credo che con la Holafsson avrebbe funzionato altrettanto bene» rispose lei. «Ma non ne sono davvero sicura. Quella roba era potente».
Doyle si sedette sul letto. «Sì, parecchio. E, no, in realtà sarei finito a letto con la Holafsson, se seduta accanto a me ci fosse stata lei. Credo che non volessero foto compromettenti con il ministro degli esteri di un paese straniero, semplicemente. Credo che volessero le foto di me che scopo con una bella donna, perché se fosse stata la Holafsson avrebbe potuto esserci un motivo diplomatico. Con te no. Che cos’è, che fai?». Sospirò e scosse la testa. «Voglio dire: lo so che cosa fai. Prima ballerina al teatro di Robel, no? Étoile internazionale... non ci capisco un cavolo, di queste cose».
Lei sorrise lievemente. «Ero. Facevo. Poi sono invecchiata».
«Ah, giusto. Suppongo che sia una di quelle carriere che finiscono prima dei quaranta. Quanti anni hai, tra l’altro?».
«Trentasei».
Doyle si passò una mano tra i capelli. «Bene, io cinquantuno. Piacere».
«Sembri più vecchio, alla TV» disse lei, in tono pensieroso.
Lui si voltò dalla sua parte, le scoccò un’occhiata divertita e sbuffò. «Sai, non capisco proprio. Oh, ho diverse ipotesi di lavoro, ma sono tutte più o meno senza senso. Che cos’è stato? Un atto terroristico? Riunisci metà dei potenti del mondo e li obblighi a scopare come dei cani in calore. Perché?».
Hanna si strinse nelle spalle. «Per ricattarli?».
«Debole» rispose lui. Sollevò la chiavetta. «Guardiamo che cosa c’è qua dentro?».
«Un attimo».
Lo guardò nel riflesso dello specchio spezzato, mentre cercava di aggiustarsi i capelli. «Credo di poterti fare qualche domanda personale, a questo punto».
Lui fece una smorfia. «Ma certo. Spara».
«Non immagini quali siano? Eppure hai la fama di essere un uomo astuto. Il più astuto. In sella da vent’anni, eh? Bene, la prima domanda è... quanto sano sei?».
Lui le rivolse un sorriso sottile. «Parecchio sano. E tu?».
«Parecchio sana. Per caso sei anche sterile?».
«No, mi dispiace. Non sarai mica un’attivista per la vita?».
«No, no. Prenderò la pillola, non preoccuparti».
«Non sono preoccupato» sorrise lui. «Sono solo incazzato, e non con te. Credo che tu abbia una relazione con qualcuno. Posso incontrarlo e spiegare, se è necessario. Privatamente».
«Avevo» chiarì lei. «Tu sei single. Lo sei davvero?».
«Lavoro quindici ore al giorno. Certo che sono single».
«I giornali non la vedono proprio così».
Lui scosse la testa. «Sono rapporti diplomatici. Non sgradevoli, ma diplomatici. Altre indispensabili confidenze?».
Hanna si voltò. «Direi che basta così. Guardiamo quella chiavetta».
Doyle la prese e la collegò al cellulare. Aspettò che il dispositivo caricasse la cartella. «Sono foto» spiegò. «Più di duecento foto. Zoom automatico. C’è più o meno tutto». Le passò l’apparecchio.
Hanna guardò. Sesso orale, sesso genitale, sesso anale. Un po’ tutte le posizioni inventate dall’uomo. Un bukkake. «Che meraviglia».
«Be’, non è stato male» rispose lui, serissimo.
Hanna sbuffò. «Che fine faranno?».
«Domanda interessante. Copiale, se vuoi. Quell’affarino ha un trasmettitore, quindi non sono “private”. Prima o poi diventeranno pubbliche, tanto vale rassegnarsi subito».
«Non ha senso» obiettò lei. «Non credi che sia un ricatto?».
«Uno strano ricatto, può darsi. Un ricatto stupido, se devo giudicare dagli elementi che ho in mano. Chiunque abbia organizzato questa cosa, dovrebbe sapere che la stragrande maggioranza dei presenti non si lascerà ricattare. Metà delle stanze sarà stata sventrata dalla security di qualcuno».
«C’erano dei giornalisti, ieri sera» disse lei.
«Oh, lascia perdere i giornalisti. Possiamo mantenere la cosa riservata. Vedremo. Non sta a me decidere... o meglio...» Doyle scrollò appena le spalle. «Sì, probabilmente sta a me, decidere, a conti fatti. Sono il capo di stato più importante, diciamo. In ogni caso... vedremo».
Hanna rise sottovoce. «Vuoi dire che potete far passare sotto silenzio una cosa come questa?».
«Probabilmente lo faremo» ammise lui. «Ma questo non significa che puoi dimenticarti di quelle foto. Come ho già detto, salteranno fuori. Quando proveranno a ricattarmi, o a ricattare qualcun altro... salteranno fuori».
«Puoi dire che sono fotomontaggi?».
«Mh. Ma posso dire che sono un tentativo di ricatto. E lo farò, se mi sarà utile».
«Capisco» concluse lei, un po’ abbattuta. «Pensa che ci credevo molto, in questa conferenza».
Lui rise. «Oh, ma abbiamo fatto anche qualche importante dichiarazione, tra un sessantanove e l’altro. No, scusa. È il tuo punto di vista quello giusto. Sei qua come ambasciatrice di buona volontà, no? Su questo specifico argomento, sei più preparata di me, non ho alcun dubbio».
Hanna si strinse nelle spalle. «Ho cercato di fare le cose per bene. Non è solo una mossa pubblicitaria. Credo... credevo di poter aiutare davvero a sensibilizzare i potenti del mondo».
Doyle le rivolse un sorriso sottile. «Mi hai sensibilizzato» chiuse il discorso.
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I giornali dedicarono alla conferenza le prime pagine del giorno seguente. Ci furono servizi televisivi. Si parlò dei lavori, degli interventi, delle relazioni e così via.
Della cena di gala si parlò molto poco. Uscì qualche fotografia della sala del ristorante, ma un tavolo pieno di diplomatici e politici di mezza età non è poi molto interessante.
Vari commentatori notarono che il discorso ufficiale del cancelliere delle Svetlands non era stato particolarmente sentito, ma che in seguito aveva rilasciato delle dichiarazioni alla stampa molto più convincenti.
Nessuno parlò di un grande passo avanti nella lotta alla fame nel mondo, ma si parlò con cauto ottimismo di una altro passo nella giusta direzione.
Una foto di Hanna sul palco, mentre perorava la causa dei più poveri, finì su quasi tutti i giornali. Su qualche sito pubblicarono anche una foto di lei seduta accanto al cancelliere, a cena, ma si trattò di foto ufficiali, su cui nessuno disse una parola.
Hanna dedusse che i grandi del mondo avevano deciso per la linea della riservatezza.