I.
Di buon’ora, la testa ancora volta contro il muro e prima d’aver visto di sotto le tende l’intensità della striscia luminosa, sapevo che tempo faceva. Me l’avevano già detto i primi rumori della strada, giungendomi o ottusi e deviati dall’umidità o vibranti come freccie nell’aria suonante e vuota d’un mattino spazioso, glaciale e puro: il primo ruotare dei tramvai m’aveva già detto se il giorno fosse greve di pioggia o slanciato verso l’azzurro. E forse quegli stessi rumori erano già stati preceduti da qualche più rapida e penetrante emanazione che, insinuandosi nel mio sonno, vi aveva già effusa una tristezza annunciatrice della neve, o vi faceva intonare a qualche piccolo personaggio intermittente tanti piccoli cantici alla gloria del sole, che quelli finivano col creare una sveglia musicale in me ancora indormito e già sorridente e le pupille pronte ad essere abbagliate di luce. Del resto, in questo periodo, la vita esterna m’era tutta echeggiata principalmente dalla mia stanza. Mi consta che Bloch raccontò d’aver sentito, venendo a trovarmi la sera, come un chiacchierio: e poichè mia madre era a Combray e lui non trovava mai anima viva nella stanza, ne aveva concluso che parlassi solo. Quando, molto più tardi, seppe che Albertina abitava allora con me, e vide che l’avevo tenuta nascosta a tutti, disse che capiva finalmente il motivo per cui in quel periodo della mia vita non volevo più uscire di casa. S’ingannava: ma la cosa era scusabilissima, perchè la realtà in se stessa, per quanto necessaria, non è mai completamente prevedibile. Chi apprende sulla vita d’un altro un particolare esatto ne trae subito conseguenze che non lo sono: e vede nel fatto ultimamente scoperto la spiegazione di cose che non sono affatto in relazione con esso.
Se penso ora che la mia amica al nostro ritorno da Balbec era venuta ad abitare a Parigi sotto il mio stesso tetto, che aveva rinunciato all’idea d’una crociera, che aveva la sua camera in fondo al corridoio, a venti passi dalla mia, nel gabinetto dalle tappezzerie di mio padre, e che ogni sera tardissimo, prima di lasciarmi, ella mi dava in bocca la sua lingua come un pane quotidiano, come un nutriente cibo dal carattere quasi sacro che ha ogni carne cui le sofferenze patite a causa di lei abbiano finito per conferire una specie di dolcezza morale, quel che mi torna subito a mente per confronto non è la notte che il capitano de Borodinò mi permise di passare in quartiere, per un favore che non guariva in sostanza se non un’indisposizione passeggera, ma quella in cui mio padre mandò la mamma a dormire nel lettino accanto al mio. La vita, quando debba liberarci ancora una volta da una sofferenza che pareva inevitabile, lo fa in condizioni differenti, opposte talvolta alle prevedute, tanto ch’è quasi un sacrilegio apparente il voler riconoscere quella richiesta nella grazia ottenuta.
Quando Albertina sapeva da Francesca che nel buio della mia camera, chiusi ancora gli scuri, io non dormivo più, non esitava a fare un po’ di chiasso bagnandosi, nel suo stanzino da toletta. Allora sovente, invece d’attardarmi in letto, andavo in un piacevole bagno ch’era accanto al suo. In altri tempi, un direttore di teatro svendeva centinaia di migliaia per costellare d’autentici smeraldi il trono in cui la diva recitasse una parte da imperatrice. I balletti russi ci hanno appreso che semplici giuochi di luce bastano a prodigare, diretti bene, gioielli altrettanto suntuosi e più varii. Eppure, quella decorazione già più immateriale non è così graziosa come quella con cui, alle otto del mattino, il sole sostituisce l’ordinaria cui eravamo avvezzi levandoci a mezzogiorno. Le finestre dei nostri due bagni, perchè non ci si potesse vedere dal di fuori, non erano lisce ma tutte aspre d’una brina artificiale e fuori di moda. D’un tratto, il sole ingialliva quella vitrea mussolina, la dorava, e, scoprendo lentamente in me un altro giovane nascosto ormai da gran tempo sotto le abitudini, m’inebbriava di ricordi come se fossi in piena campagna, innanzi a un fogliame dorato in cui non mancasse neppure la presenza d’un uccello. Albertina fischiettava infatti senza fine l’arietta:
I dolori sono stupidi,
e chi li sente anche di più...
L’amavo troppo per non sorridere allegramente del suo cattivo gusto musicale. L’estate prima, del resto, quella canzone aveva mandato in estasi M.me Bontemps che fu ben presto avvertita che si trattava d’una volgarità, tanto che, invece di chiederla ancora ad Albertina, quando avesse gente, prese a farle cantare: «Una canzone d’addio esce dalle fonti intorbidate».
Questa diventò presto, a sua volta, «una vecchia scocciatura di Massenet, con cui quella ragazza ci rompe i timpani».
Una nube passava, eclissando il sole: e allora vedevo spegnersi e rientrare nel grigiume la pudica e frondosa cortina vitrea.
Le pareti che dividevano le nostre due stanze da toletta (quella, identica, d’Albertina, era un bagno che la mamma, avendone un altro dalla parte opposta dell’appartamento, non aveva mai usato per non disturbarmi) erano così sottili che potevamo parlarci pur lavandosi ognuno dalla sua parte, proseguendo una chiacchierata che interrompeva soltanto il rumore dell’acqua, in quell’intimità che è talvolta concessa in albergo dall’esiguità dei vani e dalla tenuità dei tramezzi ma a Parigi è così rara.
Altre volte me ne restavo in letto, sognando finchè volevo, perchè c’era l’ordine di non entrare mai in camera mia prima che avessi sonato, cosa che, a motivo della postura incomoda della pera col bottone elettrico, al disopra del letto, esigeva un tale sforzo che, sovente, stanco di tentare e contento d’esser solo, me ne ricadevo per qualche minuto quasi assopito. Non già che fossi assolutamente indifferente al soggiorno d’Albertina in casa nostra. La sua separazione dalle amiche risparmiava al mio cuore nuove sofferenze; e lo manteneva in un riposo, in una quasi immobilità che l’avrebbe aiutato a guarire: ma infine la calma che la mia amica mi procurava era piuttosto una tregua delle sofferenze che una gioia. Non già che non mi consentisse di goderne altre numerose, cui il dolore troppo vivo m’aveva chiuso, ma quelle, lungi dal doverle ad Albertina che, del resto, non mi pareva più carina e m’annoiava, e che avevo la sensazione netta di non amare, le gustavo al contrario quando Albertina non era con me. Così, per cominciare la mattinata, non la facevo chiamar subito, massime se faceva bel tempo. Per qualche ora, ben sapendo che ciò mi faceva più contento che Albertina, me ne restavo a tu per tu col piccolo personaggio interiore, inneggiante al sole, cui ho già accennato. Dei personaggi che formano il nostro io, gli essenziali non sono mai i più appariscenti. In me, quando la malattia li avrà gittati a terra l’un dopo l’altro, ce ne resteranno sempre due o tre che avranno la vita più dura di tutti; e sopra tutti un certo filosofo che non è felice se non quando ha scoperto una parte comune tra due opere, tra due sensazioni. Ma mi son chiesto qualche volta se l’ultimissimo non sarebbe per caso quell’ometto molto simile al macacchino che l’ottico di Combray aveva messo in vetrina per indicare il tempo, e toglieva il cappuccio quando c’era sole e lo rimetteva appena piovesse. Il mio ometto io so bene quale egoista sia: io posso pur soffrire d’una crisi di soffocazione che solo l’arrivo della pioggia calmerebbe, lui se ne infischia, e, alle prime gocce di pioggia con tanta impazienza attese, s’indispettisce e abbassa il cappuccio di pessimo umore. In compenso, sono sicuro che alla mia agonia, quando tutti gli altri «me» saranno già morti, se brillerà d’un tratto un raggio di sole mentre io tirerò gli ultimi fiati, il mio barometrico personaggio sarà d’ottimo umore e si toglierà il cappuccio per cantare: «ah, ora si sta proprio bene!».
Suonavo per Francesca, aprivo il «Figaro», vi cercavo e non vi trovavo l’articolo, o quasi, che avevo mandato in redazione e che non era, un po’ ritoccata, se non una qualche pagina ritrovata di fresco, scritta in altri tempi nella carrozza del dottor Percepied, guardando i campanili di Martinville. Poi leggevo la lettera della mamma. Lei trovava strano, sconveniente, che una ragazza abitasse sola con me. Il primo giorno, al momento di lasciare Balbec, quando m’aveva visto così in mal punto e non aveva osato lasciarmi solo, mia madre era stata forse felice nel sentire che Albertina veniva con noi e che, accanto ai nostri bauli (gli stessi vicino ai quali avevo passato piangendo la notte all’Albergo di Balbec) erano stati issati quelli d’Albertina, stretti e neri, che m’eran sembrati casse da morto e di cui ero incerto se dovessero portarmi in casa la vita o la morte. Ma non me lo ero domandato, felice com’ero di condurre meco Albertina, in quel radioso mattino dopo lo spavento di dover rimanere a Balbec. Ma se mia madre in principio non era stata ostile al progetto ed aveva anzi parlato con gentilezza alla mia amica, come una mamma il cui figlio sia stato gravemente ferito e che sia grata alla giovane amante che lo cura con devozione, era divenuta contraria poi, quando il progetto s’era troppo completamente attuato ed il soggiorno della ragazza s’era prolungato in casa nostra, e, quel ch’è peggio, assenti i miei genitori. Non potrei tuttavia dire che quest’ostilità mia madre me la manifestasse mai. Come in altri tempi, quando aveva cessato di rimproverarmi la nervosità e la pigrizia, si faceva adesso uno scrupolo – che non indovinai allora o non volli indovinare – di rischiare, col fare riserve sulla ragazza con cui le avevo detto esser deciso a fidanzarmi, d’attristarmi la vita, di rendermi più tardi meno devoto per mia moglie, di seminare forse, per quando lei non ci fosse più, rimorsi d’averla rattristata sposando Albertina. La mamma preferiva aver l’aria d’approvare una scelta da cui aveva la certezza di non potermi più far recedere. Ma tutti quelli che l’han vista in quell’epoca, m’hanno assicurato che al dolore d’aver perduto sua madre s’aggiungeva un’aria di perenne preoccupazione.
Questa tensione dello spirito, questa discussione interiore, cagionava alla mamma un gran caldo alle tempie: e lei apriva sempre le finestre per rinfrescarsi. Ma non arrivava mai ad una decisione, per la paura di «influenzarmi» in un cattivo senso o di turbare quel che lei chiamava la mia felicità. E non poteva neppure risolversi ad impedirmi di tenere provvisoriamente Albertina in casa. Non voleva mostrarsi più severa della signora Bontemps che la cosa riguardava prima d’ogni altro e che non se ne dava per intesa, con non poca sorpresa di mia madre. In ogni modo lei si doleva d’essere stata obbligata a lasciarci soli tutt’e due e di dover partire proprio in quel momento per Combray, dove c’era caso che dovesse restare, e restò infatti, molti mesi duranti i quali la zia avrebbe potuto avere bisogno di lei giorno e notte. Tutto là le era reso facile, in grazia alla bontà, alla devozione di Legradin che, senza esitare innanzi ad alcun fastidio, differì di settimana in settimana il ritorno a Parigi, lui che non conosceva la zia che superficialmente: dapprima soltanto perchè era stata un’amica della sua mamma, poi perchè sentì che la malata condannata teneva alle cure della mia e non poteva fare a meno di lei. Lo snobismo è una grave malattia dell’anima ma localizzata, che non la guasta per intiero.
Io ero, al contrario, felicissimo del rimanere di mia madre a Combray, senza del quale avrei temuto (non potendo dire ad Albertina di nasconderla) che scoprisse la sua amicizia per la signorina Vinteuil. Sarebbe stato quello per mia madre un insormontabile ostacolo non soltanto ad un matrimonio, di cui del resto ella m’aveva chiesto di non parlare ancora definitivamente alla mia amica e di cui l’idea era a me stesso sempre più intollerabile, ma anche a che lei potesse rimanere in casa. Eccettuato un motivo così grave e che lei ignorava, la mamma, per il doppio effetto, da un lato, dell’imitazione edificante e liberatrice di mia nonna, un’ammiratrice di George Sand, che faceva consistere la virtù nella nobiltà del cuore; e, dall’altro, della mia influenza corruttrice, era indulgente per donne sulla cui condotta si sarebbe mostrata severa un tempo ed anche adesso, se fossero state tra le sue amiche borghesi di Parigi o di Combray, ma di cui io le vantassi la grande anima e cui lei perdonasse molto perchè m’amavano assai. Malgrado tutto, e a parte la questione stessa della convenienza, credo che Albertina non avrebbe sopportato la mia mamma che aveva preso da Combray, dalla zia Leonia e da tutte le sue parenti, abitudini d’ordine, di cui la mia amica non aveva la menoma nozione.