UN IDILLIO SILENZIOSO-3

1234 Words
«Siete sotto la mia protezione», disse senza fiato. La risposta della ragazza fu un piccolo sospiro e si alzò. Anche lui si alzò, ed entrambi stettero in piedi a osservare il misterioso bosco bianco. «Vedete», disse Jon «È proprio la collinetta. Ecco lì il sentiero che porta al fossato dove si è fatto il picnic. Ora ci sarà facile trovare la strada». Lei fece un suono ch’egli non fu in grado di interpretare, poi andarono insieme ai cavalli, li slegarono, montarono in sella. Cavalcarono fianco a fianco. «Avremo qualcosa da ricordare» disse Jon. «Sì, non lo dimenticherò mai». Non parlarono più, se non per consultarsi sul cammino da seguire, ma questo divenne in breve ovvio e tirarono avanti al trotto fino al campo di polo vicino all’albergo. «Voi entrate a rassicurare vostro fratello. Io lascio i cavalli in scuderia e vi raggiungo». Quando poi Jon entrò nella sala dell’albergo trovò che Francis Wilmot, ancora in tenuta da cavaliere, era solo. Aveva una faccia curiosa, non propriamente ostile, ma certo non amichevole. «Anne è andata in camera» disse. «Mi sembra che non abbiate uno spiccato senso dell’orientamento. Mi sono preso uno spavento». «Mi dispiace moltissimo» rispose Jon con umiltà. «Avevo dimenticato che i cavalli erano nuovi del luogo». «Bene!», fece Francis Wilmot e si strinse nelle spalle. Jon lo guardò dritto negli occhi. «Non penserete che l’abbia fatto apposta! perché avete l’aria di pensarlo...» Francis Wilmot si strinse nelle spalle un’altra volta. «Scusate» disse Jon «ma voi sembrate dimenticare che vostra sorella è una gentildonna, e che non ci si comporta da mascalzoni con una gentildonna». Francis Wilmot non rispose. Andò a una finestra e si mise a guardar fuori. Jon si sentì in collera. Sedette sul bracciolo di una poltrona; era molto stanco. E restò a fissare il pavimento con le ciglia aggrottate. Dannato tipo! Aveva fatto una scenata ad Anne? Se l’aveva fatto... dietro di lui una voce fece: «Non volevo dir nulla di simile... Mi dispiace... È solo che mi sono spaventato. Stringiamoci la mano». Jon tese d’impulso la sua, e Francis gliela strinse guardandolo dritto negli occhi. «Dovete essere molto stanco» disse Francis. «Andiamo in camera mia... Ho una bottiglia, ne ho già dato un sorso ad Anne». Andarono. Jon si lasciò cadere sull’unica sedia, Francis Wilmot sul letto. «Anne mi ha detto che vi ha invitato a venire da noi domani. Spero che verrete». «Ne sarei felice». «Benissimo!». Bevvero, chiacchierarono un po’, fumarono. «Buona notte» fece poi Jon d’un tratto. «Se non me ne vado mi addormento qui». Si strinsero di nuovo la mano, e Jon caracollò fino alla sua stanza. Si addormentò subito. L’indomani tutti e tre presero il treno e, attraverso Columbia e Charleston, arrivarono dai Wilmot. Era un posto sull’ansa di un fiume rosso, con tutt’attorno campi di cotone, in terreno piuttosto paludoso dove crescevano possenti querce malinconiche, addobbate di muschio della Florida. Intorno si vedevano ancora in piedi gli antichi alloggi degli schiavi, usati ormai soltanto come canili; la casa a due piani aveva scale di legno che salivano da ambo i lati dell’ampio portico sommerso di glicine e che necessitavano di una mano di vernice; e le stanze si aprivano l’una dentro all’altra, con antichi ritratti di defunti Wilmot e De Frevilles alle pareti: i neri andavano in giro mormorando il loro dolce linguaggio cantilenato. Jon fu più felice di quanto non fosse mai stato dal giorno in cui, tre anni e mezzo prima, aveva messo piede nel Nuovo Mondo. La mattina andava in giro con i cani al sole o provava a scrivere poesie, giacché i due Wilmot erano occupati. Dopo pranzo partiva per una passeggiata a cavallo con entrambi o solo con Anne. La sera imparava da lei a suonare l’ukulele davanti al fuoco del camino al tramonto, o si lasciava istruire da Francis sulla coltivazione del cotone. Il momento di animosità avuto con lui quella sera a Camden non aveva fatto che render migliori i loro rapporti. Tra Anne e Jon non c’erano molte parole. Sembravano aver ripreso il silenzio di quando erano stati nell’oscurità della foresta ai piedi dell’antica collinetta indiana. Ma lui la guardava continuamente; e in verità cercava di afferrare il grave sguardo ammaliatore dei suoi occhi scuri. E più passava il tempo più la sentiva diversa da tutte le altre ragazze che aveva conosciuto; più viva, taciturna, e con molta più “sostanza”. Passavano i giorni nel calore del sole, nell’odore notturno dei fumo di legna, e la vacanza volgeva alla fine. Egli sapeva adesso suonare l’ukulele, e accompagnandosi con esso cantava con lei gli spiritual dei neri, e romanze di Rose-Marie e d’altre opere immortali. Venne l’ultimo giorno e Jon si senti smarrito. L’indomani di buon’ora sarebbe partito per tornare alle sue pesche di Southern Pines. Quel pomeriggio, mentre cavalcava con lei per l’ultima volta, il silenzio era quasi innaturale e lei quasi non lo guardò. Dopo la cavalcata Jon salì a cambiarsi d’abito col panico nel cuore. Sapeva ora che avrebbe voluto portarsi via Anne con sé, e pensava ch’essa non avrebbe voluto seguirlo. Come avrebbe sentito la mancanza del suo sguardo! E che sete, che sete aveva di baciarla! Andò di sotto di cattivo umore, e si mise a sedere in una sedia a sdraio davanti al fuoco, tirando le orecchie di uno spaniel e guardando la stanza che diventava buia. Forse Anne non sarebbe neanche venuta a cantare un’ultima romanza. E non ci sarebbe stato altro che un pranzo e una serata a tris. Non avrebbe neppure avuto l’occasione di dirle che l’amava e di sentire che lei non lo amava. E pensò, infelice: “È tutta colpa mia... Sono un idiota silenzioso. Mi sono lasciato scappare tutte le occasioni...”. L’oscurità continuò a invadere la stanza, e alla fine non restò che il fuoco dal camino e lo spaniel addormentato. Anche Jon chiuse gli occhi. Gli sembrava di poter aspettare meglio così... Aspettare il peggio. E quando li riaperse vide che lei gli stava davanti con gli ukulele in mano. «Volete suonare, Jon?» «Sì» rispose Jon. «Suoniamo. È l’ultima volta». E prese il suo ukulele. Lei si mise a sedere sul tappeto davanti al fuoco, cominciò ad accordare il proprio strumento. Jon si lasciò cadere accanto allo spaniel. E lo spaniel si alzò, si allontanò. «Che cosa cantiamo?» «Io no, Anne... Vorrei solo che cantaste voi. Io vi accompagnerò». Anne non lo guardava. Non voleva guardarlo! Era tutto finito! Che stupido era stato! Anne cantò. Cantò il lamentoso richiamo di Rose-Marie, il richiamo attraverso le montagne. Jon pizzicava le corde dello strumento, e la musica gli pizzicava il cuore. Finita la romanza Anne la ricominciò, e girò gli occhi... Buon Dio! Li posò su di lui, lo guardava... E lui bisognava non le lasciasse vedere di essersene accorto. Era troppo, troppo dolce quel lungo sguardo di sopra all’ukulele... Tra lui e lei non c’erano che gli ukulele. Lui lasciò cadere quello strumento terribile... Poi, spostandosi velocemente sul pavimento, passò il braccio intorno alla vita di lei. Senza una parola essa gli si appoggiò allora col capo contro la spalla, come la sera che ai piedi del terrapieno aspettavano il sorgere della luna. Ed egli si chinò sui suoi capelli. Odoravano di fieno, come quella sera... E, proprio come lei si era girata alla luce della luna, voltò il viso verso quello di lui. Ma stavolta Jon la baciò sulle labbra.
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