Il forestieroIl giovanotto che verso la fine di settembre del 1924 scese da un taxi in South Square, Westminster, aveva così poco l’aria di un americano, che il conducente esitò alquanto prima di azzardarsi a raddoppiare il prezzo della sua corsa. E il giovanotto non esitò affatto a rifiutarsi.
«Non sapete leggere, forse!», disse, con tutta calma. «Eccovi i vostri quattro scellini».
E volse le spalle, fissando lo sguardo sulla casa davanti alla quale era sceso. Controllò l’esattezza del numero scolpito in bronzo sulla porta con una lettera che aveva in mano, e suonò il campanello.
Mentre attendeva, udì un orologio suonar le ore nel gran silenzio dell’aria. Finito il quarto colpo, la porta si socchiuse, e un uomo spinse fuori la testa pressoché calva.
«Desidera, signore?»
Il giovanotto si tolse il cappello, mostrando una gran massa di capelli nerissimi.
«Abita qui la signora Michael Mont?» chiese.
«Sì, signore».
«Volete portarle il mio biglietto da visita e questa lettera?»
«Va bene, signor Francis Wilmot» disse il cameriere, leggendo il biglietto. «Vuol attendere qui nel salottino?»
Appena entrato, Francis Wilmot ebbe la sensazione di qualche cosa che gli si avventasse alle gambe e lo mordesse, sia pure leggermente.
«Dandie!» minacciò l’uomo calvo. «Abbia pazienza, signore! Quel cane è un vero diavolo con la gente che non conosce. Una volta, ha morso al polpaccio una signorina».
Francis Wilmot guardò in terra, e vide un cagnolino non più alto di nove pollici e largo altrettanto, che lo guardava con occhi lucentissimi, mostrando i denti bianchi come neve e acuti come spilli.
«Ha in custodia il bimbo, signore» disse l’uomo, indicando una specie di nido in terra vicino al caminetto senza fuoco; «e quando è di servizio s’avventa alla gente. Appena è in grado però di riconoscere l’odore dei pantaloni, tutto va bene. Comunque, non toccherei mai il bambino, io. La signora Mont era qui appena un minuto fa. Le porterò il biglietto, signore!»
Francis Wilmot si sedette su di uno sgabello, e attese; il cane si sdraiò in terra fra lui e il bambino.
Il giovanotto si guardò intorno. La stanza era pitturata in color oro pallido, e il soffitto in color argento. Un clavicembalo stava in un angolo. Le pareti erano decorate con quadri di fiori e di paesaggi, e di varie riproduzioni d’una signora ingioiellata al collo e ai polsi. Le cortine alle finestre erano pure in oro e argento. In terra era steso un soffice tappeto di stoffa argentata, e il mobilio pure era laccato in oro.
Il giovanotto ebbe un improvviso attacco di nostalgia. Gli sembrava d’esser già di ritorno nel salotto d’una vecchia casa della Carolina del Sud, e di guardare in alto l’effigie di Francis Wilmot, il suo grande avo, con l’alto colletto e il cappotto rosso: Francis Wilmot, maggiore nella guerra di Indipendenza, al quale dicevano ch’egli si assomigliasse tanto; negli occhi neri, nel naso e nelle labbra di un disegno finissimo, e nei capelli neri ondeggianti sulle tempie.
Gli pareva di guardar fuori dalla finestra i neri che lavoravano nei campi, sotto un sole ben diverso da quello ch’egli aveva trovato al di qua dell’Atlantico; si vedeva in giro col suo cane, ai margini della palude, nelle alte erbe della Florida; pensava al patrimonio dei Wilmot, rovinato dalla Guerra Civile e tuttavia ancora imponente, e almanaccava se fosse meglio continuare a gestirlo faticosamente in proprio, oppure venderlo a qualche yankee del Nord che lo avrebbe spinto alla più alta valorizzazione. Doveva esservi un gran vuoto, laggiù, da quando Anne aveva sposato quel giovane inglese, Jon Forsyte, e se n’era andata verso il Nord, ai Southern Pines; e Francis pensava alla sorella perduta, nera di colorito e di capelli, e piena di vita.
Sì; questo salottino, così perfetto come non ne aveva ancor visti, gli risvegliava la nostalgia di casa; l’unica cosa fuori posto era quel cagnolino appisolato là sul pavimento.
«È il più bel salottino in cui mi sia mai trovato!» si lasciò sfuggire dalle labbra, con un sospiro.
«Che delizioso complimento ho avuto la fortuna di sorprendere!»
Una giovane signora dai capelli castani, le labbra vermiglie sorridenti nel volto leggermente roseo in cui spiccavano due occhi tagliati a mandorla e ombreggiati da lunghe ciglia nere, stava sulla soglia. Si avanzò, e gli tese la mano.
Francis Wilmot s’inchinò gravemente, e disse:
«La signora Michael Mont?»
«E così, Jon ha sposato sua sorella. È graziosa?»
«Sì».
«Molto?»
«Molto».
«Spero che il bimbo le abbia fatto compagnia».
«È bellissimo».
«Sì, è vero. Ho sentito che Dandie l’ha morso».
«No; non è arrivato alla carne».
«Non si preoccupi. È sano. Si sieda e mi racconti di sua sorella e di Jon. È un matrimonio d’amore e di convinzione, quindi?»
Francis Wilmot sedette.
«Sì, lo è di certo. Jon è un uomo leale, e Anne...»
«Sono contenta. Jon mi scrive che è felicissimo. Ma lei deve venire ad abitar qui con noi. Godrà della massima libertà, come se fosse all’albergo».
«La ringrazio vivamente!» disse il giovanotto, sorridendo. «Non sono mai venuto al di qua dell’Atlantico. La guerra è finita troppo presto!»
La giovane donna sollevò il bimbo in braccio.
«Questo non morde, vede. Guardi: ha solo due dentini».
«Come si chiama?»
«Kit, perché Christopher è troppo lungo. Non abbiamo litigato per il nome, mio marito e io. Michael, mio marito, sarà qui fra poco. È al Parlamento. C’è la questione dell’Irlanda, come saprà di certo. Siamo arrivati appena ieri dall’Italia. Quanto è bello, quel paese! Deve andare a visitarlo».
«Perdoni, signora. Quell’orologio che suona le ore così clamorosamente è forse l’orologio del Parlamento?»
«Sì. Proprio quello. Lo chiamano il Big Ben. Michael dice che il Parlamento è la più grande remora del Progresso che sia mai stata inventata. Quest’anno, poi, è interessante, col nostro primo Governo laburista. Ma non le sembra commovente questa guardia che fa il cane al bimbo?»
«Di che razza è, il cane?»
«Un dande di Dinmont. Avevamo un pechinese, ma n’è sorta una tragedia. Ce l’aveva con i gatti, e un giorno è stato quasi accecato in una zuffa...»
Il giovanotto, vedendo gli occhi della signora farsi lucidi, cercò di mostrare tutta la sua commiserazione.
«Ho dovuto cambiare tutta la decorazione del salottino, vede, perché me lo ricordava troppo. Era di stile cinese, prima».
«Questo cagnolino non ha certo paura dei gatti!»
«Per fortuna, è stato allevato insieme con dei gattini. Lo abbiamo preso, perché siamo stati colpiti dalle sue zampette. Sono così storte, che quasi non può correre. Dandie, fa’ vedere le zampette!»
Il cane ringhiò di rimando.
«Ha un brutto carattere, vede. Ma mi dica, ora: che fa Jon? È sempre un inglese?»
Il giovanotto sentiva che questa era la prima cosa veramente pensata che la signora avesse detto.
«Sì, lo è; ma è un caro ragazzo!»
«E sua madre? Era molto bella, una volta».
«E lo è ancora».
«Dovrebbe esserlo. Un po’ grigia, ormai, non è vero?»
«Sì; non sembra che sia molto simpatica a lei!»
«Mah! Spero che non sia gelosa di sua sorella».
«Credo che lei sia forse un po’ ingiusta».
«Può essere, infatti, ch’io lo sia».
La giovane signora sedeva, ora, col bimbo in braccio e con aria pensosa. E il giovanotto, intuendo che ella pensava a cose oltre la sua portata, si levò in piedi.
«Quando scriverà a Jon» disse lei subitamente, «gli dirà ch’io sono ben lieta e che gli auguro ogni sorta di bene. Io non gli scriverò, per ora. Posso chiamarla Francis, semplicemente?»
Francis Wilmot s’inchinò.
«Mi farà un vivo piacere, signora» disse.
«Va bene; ma lei deve chiamarmi Fleur, così, senz’altro. Siamo quasi parenti, ormai».
Il giovanotto sorrise.
«Fleur! Che magnifico nome!»
«La sua stanza sarà pronta, per quando ritorna. E avrà il suo camerino da bagno».
«La ringrazio vivamente» diss’egli, baciandole la mano. «Sentivo davvero una certa nostalgia della casa».
Uscendo, guardò indietro. La giovane signora aveva rimesso il bimbo nella culla, e vagava altrove con uno sguardo pensoso.