DUE

1670 Words
DUEAveva atteso che Silvia si destasse. Poi avevano fatto colazione, quasi senza dirsi nulla. Quando scese in strada, la città si muoveva lenta, con l’indolenza mattutina tipica dei luoghi di villeggiatura. Nel ridente capoluogo apuano, però, era un po’ un volersela raccontare, giacché a Massa l’attività turistica era quasi tutta in mano agli albergatori, ristoratori e balneari ammucchiati nella stretta striscia di costa, mentre al resto del territorio comunale, vale a dire allo stesso centro cittadino e in special modo ai paesini appollaiati sulle Alpi Apuane, di tale attività non rimanevano che i miseri avanzi. Era una storia vecchia, d’altronde. Da almeno un quarantennio, ad ogni nuova elezione amministrativa, il politico di turno sbandierava un progetto per la rinascita del centro storico e lo sviluppo della montagna massese: idee nuove, rivoluzionarie! Idee ogni volta strombazzate entusiasticamente dinanzi allo scetticismo generale: uno scetticismo antico, crudo e, almeno in questo caso, assai ben motivato. In realtà, come sempre accadeva e come tutti sapevano, tali idee mirabolanti non si rivelavano che delle trite ideuzze da campagna elettorale, destinate a durare la vita di una farfalla, svolazzando un poco qua e là sulle pagine dei quotidiani locali. Poi tutto seguitava come sempre, e chi aveva il potere economico e faceva un sacco di soldi continuava a fare il bello e il cattivo tempo e a fare sempre più soldi, che tanto le chiacchiere dei politici erano appunto chiacchiere. Proprio così, pensava Nardini mentre saliva sul suo pandino. Proprio così. I giochi sono stabiliti da tempo e non c’è verso di cambiarne le regole, che sono pressappoco queste: il turismo deve rimanere di un unico genere, quello balneare. Di un concreto connubio maremonti qui non se ne vuol sentir parlare. Il perché è chiaro: interessi e ignoranza, ecco la ragione. E poi la montagna non si tocca. Eh no, quella se la pappano i signori del marmo. A fette se la pappano. Gnam gnam! Fette enormi. Gnam gnam! E bisogna vederli, codesti signori industriali, con quanto impegno cercano di sottrarsi l’un l’altro il boccone più ricco. Ingordi come monelli davanti a una gigantesca torta di panna. Quando, durante una cena con gli amici, affrontava la questione e ci si accalorava, c’era sempre qualcuno che gli rispondeva che quella era un po’ la situazione generale di tutto quanto il territorio apuo-versiliese. Era vero, ammetteva allora Nardini. Era vero. Ma non era una buona ragione per rallegrarsene, e il detto mal comune mezzo gaudio questa volta non stava davvero in piedi. Mal comune merda per tutti, era semmai il caso di dire. Doveva smetterla di pensare a queste cose, comunque. Ci si incazzava troppo. E i suoi disturbi gastrici non avevano certo bisogno d’essere incentivati. Basta, pensiamo alla salute che è meglio, si disse, e si accese il primo mezzo sigaro della giornata. Ecco uno dei rari aspetti positivi dell’estate, pensò Nardini, mentre ammezzava il suo toscano: poter fumare in auto senza che l’abitacolo si trasformi in una succursale di Auschwitz. La voce affumicata di Paolo Conte lo distolse dalle sue elucubrazioni. Aveva messo una nuova suoneria al suo telefonino da quando aveva cambiato luogo di lavoro. Quella di prima gli ricordava troppe cose, troppi momenti negativi. Ora c’era la canzone L’Orchestrina, dal sapore vagamente rétro, un po’ d’altri tempi, pensò subito Nardini, che non aveva perso il ticchio di trovare ad ogni espressione straniera il suo corrispettivo italiano. Non sapeva dire perché avesse scelto proprio quella musica. Ce n’erano di più belle nel repertorio di Conte. Nondimeno quella l’aveva attratto particolarmente, senza mai stufarlo. Chissà, forse era per il ritmo, o per quell’immagine amletica della stella Aldebaran che ride, ride e fa: to be, to be to be, to be or not to be, e lo fa con quella musichina da carica di cavalleria... Cazzo, Conte, che ganzo... – Oh, ci sei? – gridò quasi una voce dall’altra parte del telefono. Era il collega Remo Michelotti, pubblicista da una vita, un tipo sveglio, conosciuto nella zona quale autore di canzonette, due o tre delle quali avevano vinto il Miccio Canterino, il festival canoro di Querceta che affianca il più noto Palio dei Micci, ossia dei ciuchi. Poco dopo il suo arrivo, Nardini lo aveva nominato suo vice: non tanto per le sue qualità professionali, che non erano comunque male, quanto perché questi, soffrendo d’insonnia, alle otto di mattina era già in redazione e lui poteva prendersela comoda. Un lusso. – Buongiorno, mio industre sottoposto. Già in piedi? – esordì Nardini. – Ci vai da te o vuoi che ti ci mandi io? – rispose l’altro. Nardini rise. Michelotti era un buontempone e lui ci si divertiva un sacco. – Scommetto che hai già fatto il giro di nera. – Certamente, chef! Vuoi sapere in anteprima cosa offre il menù di questa torrida giornata di merda? – Snocciola. – Per cominciare abbiamo un incidente sull’Aurelia, stanotte alle due, altezza Montignoso. Un frontale tra due macchine. Tre feriti. Uno dei due conducenti era ubriaco zuppo. È grave. Prognosi riservata. Se schianta prima di stasera ci facciamo l’apertura del tigì. – Michelotti fai schifo. – Di secondo propongo una rissa mista a Lido di Camaiore, davanti alla discoteca Ambassador. Otto persone coinvolte: quattro rumeni, due extra dal Marocco e due indigeni. Quattro arresti. Un accoltellato, ma non muore. Gli altri se la sono data a gambe. – I locali di dove sono? – Fanno parte di quelli che se la sono filata. Ma sembra fossero uno del Lido e un viareggino. Comunque i dettagli te li dico dopo. – Vabbe’. Altro? – Di contorno la solita retata di trans nel viale interno tra i Ronchi e Poveromo e questa chicca: tre finocchi beccati a inchiappettarsi in un bagno di Torre del Lago. – Tre? – Ciuuf ciuuf! – rispose Michelotti, mimando il fischio del treno – Quello che faceva la locomotiva ha dato in escandescenze ed è stato denunciato per resistenza a pubblico ufficiale. Oltre al resto, naturalmente. – Naturalmente. – Ah, dimenticavo: poi ce n’è una nuova del nostro Cynar. Anche se non è roba di nera è ganza lo stesso. Potremmo farci un pezzo di colore. – Una nuova di chi, scusa? “Cynar”, al secolo Gualtiero Giannecchini, cinquantunenne di Forte dei Marmi ma residente a Vittoria Apuana, quel nomignolo se l’era guadagnato sul campo una trentina di anni prima con un’impresa che aveva fatto sbellicare dalle risate l’intera riviera. Era sempre stato un mezzo matto, Gualtiero, lo sapevano tutti, ma quella sera d’estate, con in corpo qualche birra in più, l’aveva sparata grossa più del solito: avrebbe fatto come l’attore Ernesto Calindri nella pubblicità del famoso amaro contro il logorio della vita moderna. E gli amici a incalzarlo e a provocarlo e a darsi di gomito, pregustando lo spettacolo. E lui, già mezzo accalorato, lì a fare il pottaione, come si dice da quelle parti; a smargiassare insomma che avrebbe fatto proprio come Calindri: si sarebbe cioè seduto al tavolino con tanto di tovaglina e bottiglia di Cynar, bello tranquillo a leggersi il suo bravo giornale in mezzo alla strada, mentre le auto gli sarebbero circolate intorno. Proprio come Calindri, sputato. Lo avrebbe fatto eccome, perché lui era uno che non si tirava mai indietro, era vero o no che lui non si tirava mai indietro? E gli amici a dirgli sì, va be’, lascia perdere Gualtiero. E lui, a quel punto, completamente invalvolato, a berciare tra un moccolo e l’altro che se loro ‘un ci credevino allora erin tutti dei bischeri, altro che! E ci potevin scommettere su anche dei bei dindini, che tanto li avrebbe vinti lui appena messa su la cosa, uno dei prossimi giorni e anzi, to’, l’indomani stesso. Sissignori, all’ora di punta e all’incrocio di viale della Repubblica e via Spinetti, sissignori. E l’indomani, da non credere, era davvero lì, in mezzo al traffico, a sfogliarsi, per un buon quarto d’ora o forse più, la sua “Gazzetta”, con la stessa faccia di Ernesto Calindri, serena e indifferente al logorio della vita moderna, mentre il logorio ce l’avevano gli automobilisti, che strombazzavano a più non posso e gli smadonnavano addosso nei vari idiomi. La sua spacconata, neanche a dirlo, finì sui giornali locali. Lui finì invece davanti ai carabinieri. Se la cavò comunque con una mezza lavata di capo e una multa che pagò con parte delle vincite della scommessa. E da allora Cynar divenne Cynar per tutti. Era il suo trofeo, quel soprannome. La targa del suo quarto d’ora di celebrità. Un nomignolo che lui indossava come un titolo nobiliare. E una volta che da queste parti ti guadagni un soprannome, poi ti rimane stampato addosso a vita come la marchiatura d’un vitello. E questo, occorre precisare, non riguarda solo te, ma anche i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, amen. Ora c’era questa nuova storia che circolava al Forte, aveva detto Michelotti, cioè del russo che avrebbe sfasciato lo scooter di Cynar e, per evitar fastidi, lo avrebbe risarcito di alcune migliaia di euro. – È certa? – chiese Nardini. – Sembra di sì. La storiella sembrava buona. Anzi, a pensarci bene poteva essere il pretesto per un’inchiesta come Dio comanda sulla presenza dei Russi in Versilia, e tutto quello che ne era conseguito, si disse Nardini. Perché no? Un lavoro serio, approfondito. Poteva scapparci persino uno speciale del tigì. E se fosse venuto un buon lavoro, chissà... magari avrebbe potuto girarlo a qualche testata televisiva più importante. E magari... Nardini non correre!, gli disse una vocina interna che assomigliava tanto a quella del Grillo parlante. Rammenta che i sognatori, in questo mondaccio, alla fine le buscano sempre! Era vero, e lui lo sapeva bene. Gli amici glielo avevano detto un sacco di volte, e anche Silvia, che lui era affetto da sindrome di Don Chisciotte. Era tutto vero. Eppure adesso, alla guida di quella specie di fornace in cui si era trasformata nel frattempo la sua vecchia Fiat, lui sorrideva felice.
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