UNO

1849 Words
UNO… La vita liquida è, insomma, una vita precaria, vissuta in condizioni di continua incertezza. Le preoccupazioni più acute e ostinate che l’affliggono nascono dal timore di esser colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo di avvenimenti che si muovono velocemente, di rimanere indietro, di non accorgersi delle “date di scadenza”, di appesantirsi con il possesso di qualcosa che non è più desiderabile, di perdere il momento in cui occorre voltare pagina prima di superare il punto di non ritorno. La vita liquida è una successione di nuovi inizi: ma è proprio per ciò che le fini rapide e indolori, senza cui nuovi inizi sarebbero impensabili, tendono a rappresentare i momenti di massima contestazione e a procurare i mal di testa più insopportabili. Tra le arti del vivere liquido-moderno e le abilità che esse richiedono... Nardini posò il libro sul comodino. Non c’è dubbio, pensò, questo Bauman ha capito un sacco di cose. Le prime luci di un’alba sudata e scialba gocciolavano dalle commessure della serranda di camera. Proviamo a sonnecchiare un po’, si disse, dopo un lungo sbadiglio. Aveva passato la notte in bianco, soffocato da un caldo umido e insopportabile che adesso sembrava appena appena più tollerabile. L’estate è una stagione volgare, pensò, mentre si rigirava nel letto. Silvia era più fortunata di lui: se la dormiva tranquillamente, con il suo solito, delicato ronzio. Eppure sarebbe arrivato il giorno in cui quel suono quasi impercettibile, quasi musicale, si sarebbe trasformato in un esplicito russare. Fu un pensiero che gli indusse un senso di malinconia. Mio Dio!, esclamò tra sé, mio Dio, anche lei, invecchierà anche lei, pensò mentre il suo sguardo viaggiava tra i dolci declivi di quel corpo splendido. Avevano fatto all’amore, qualche ora prima. Lo avevano fatto in un bagno di sudore, tra le lenzuola umide. Lo avevano fatto senza alcuna precauzione, nella speranza che qualcosa potesse succedere. Da alcuni mesi andava avanti così, e tuttavia Silvia non rimaneva incinta. Avevano entrambi fatto le dovute analisi e controanalisi del loro grado di fertilità e, perbacco, era tutto a posto, eccome se lo era. Eppure, strano a dirsi... Strano: ecco la parola che spesso ricorreva quando affrontavano la questione. Strano. Già. Ma lui sapeva bene, così come era quasi certo lo sapesse anche lei, che quell’aggettivo era in verità la punta dell’iceberg. Il grosso stava sotto il filo del non detto, nel rimescolio di umori e sensazioni: nel senso incerto di frustrazione, nel sordo e sottile moto di rabbia che talvolta affiorava alla superficie per essere subito rigettato in basso, giù giù, in qualche anfratto dell’inconscio. Strano. Non si poteva dire altro. Erano due corpi ancora giovani e sani e fatti per procreare. E dunque? Strano, appunto. Inoltre c’era un altro aspetto a turbarlo ogni volta che ragionava sulla faccenda. Il fatto era che... Insomma, voleva pur ammetterlo almeno a se stesso? Il fatto era che, a lui, il desiderio di un figlio stava a poco a poco passando. Non sapeva dir bene il perché, ma questa, a voler essere del tutto sinceri, era la nuda verità. Proprio così: quella di un figlio era un’idea che lentamente tramontava. Ecco, quest’ultimo termine è quanto meno azzeccato, pensò, perché colora il pensiero di una luce crepuscolare. E già che eravamo in vena di ammissioni, si disse Nardini, arrivati a questo punto bisognava pur porsela una buona volta la domanda delle domande, e cioè: era ancora innamorato di Silvia? Sì, lo era ancora, davvero, proclamò con fermezza a se medesimo. E che cosa te ne dà la certezza?, gli chiese qualcosa o qualcuno nascosto in qualche parte oscura della sua mente. O bella, perché lo sento, rispose lui. Lo vedo: da come facciamo all’amore, da come... Ma via, basta! È inutile lambiccarsi il cervello adesso! sbottò tra sé, infastidito, inquieto. Provò a calmarsi, cercando di non pensare a nulla. Si stiracchiò un poco sul letto, e poi posò lo sguardo su Silvia, che seguitava a emettere il suo lieve ronzio. E in quel preciso momento ebbe per lei un sentimento di infinita tenerezza, e restò a guardarla, per lunghi istanti, così, mentre dormiva. E poi pensò che era bella e lo sarebbe stata ancora per lungo tempo. Che cosa starà sognando, si domandò. Ormai di riaddormentarsi non se ne parlava proprio. Tutto quel ragionare gliene aveva fatto passar la voglia o la capacità. Decise di alzarsi. Fuori, la città era già inondata di luce. Sotto la doccia, mentre lottava con il tappo del bagnoschiuma, ripensò al libro che stava leggendo. Glielo aveva passato il suo amico Balleri, dopo che questi se ne era servito per il suo ultimo esame all’università. Diavolo, quand’è che discute la tesi?, cercò di rammentare. Quel libro, a dire il vero, era rimasto intatto sul suo comodino per parecchio tempo, ma ora che ne aveva iniziata la lettura era deciso ad arrivarci in fondo. Davvero interessante, pensò. Questo Bauman, accidenti, fa un quadro spietato della nostra società, ma è impossibile dargli torto, si disse. Una società sfuggente, senza punti di riferimento, inafferrabile come la saponetta che, adesso, gli stava continuamente scivolando di mano. Ecco: una società scivolosa in cui era facile finire con il culo a terra. E lui, di capitomboli del genere ne aveva fatti parecchi. Poteva dirsi un esperto, anzi. Già, perché in questa cosiddetta vita liquida lui si sentiva il più liquido degli uomini. Meglio ancora: il primo Homo liquefactus della storia. Silvia lo tacciava di pessimismo, ma secondo lui era una critica ingiustificata. I fatti d’altronde, sosteneva, erano belli spaparanzati al sole a dargli ragione. Gli pareva tutto così evidente che non capiva come lei... Alle corte: aveva superato l’esame da giornalista professionista, e allora? Questo aveva forse migliorato la sua condizione di lavoro? Nemmeno per sogno. Anzi, al contrario il raggiungimento dell’agognato traguardo aveva accresciuto, per un certo verso, la sua intima frustrazione. Diciotto mesi d’inferno erano stati quelli trascorsi nella redazione di “Fatti e misfatti”, il quotidiano del capoluogo apuano che lo aveva assunto come praticante. Il ricordo di quei giorni gli bruciava ancora. È difficile dimenticare un’umiliazione. Perché proprio di quello si trattava. Altri, magari, al suo posto, avrebbe fatto spallucce. Chissenefrega in fondo se c’è da ingoiare un boccone amaro pur di far carriera; e non sarà certo la prima volta né l’ultima che le cose vanno in questo modo, a questo mondo, soprattutto in questo Paese. Vero. Verissimo. Ma lui non era il tipo da ammettere un simile compromesso, e il fatto di averlo accettato per debolezza, o più ancora per timore, gli aveva generato un senso di vergogna che nessun espediente auto-assolutorio avrebbe mai potuto cancellare. Uno sporco compromesso, proprio questo gli aveva permesso di diventare giornalista. Un lercio patto con il suo editore: tacere su una brutta storia di rifiuti chimici, o persino peggio, con in mezzo anche un morto ammazzato. Lui era riuscito ad arrivare in fondo alla vicenda, ma il suo editore, il cavalier Enrico Vandelli, lo aveva fermato. Anche se estraneo ai fatti, la divulgazione di essi lo avrebbe seriamente danneggiato. Era un imprenditore di successo, gli aveva detto, e doveva badare in primo luogo ai suoi interessi. Inoltre in città contava qualcosa, e stava accarezzando l’idea di mettersi in politica. Il silenzio, sarebbe dunque valso a Nardini il contratto di praticante giornalista a tutti gli effetti. Diversamente, gli aveva domandato maliziosamente l’editore, aveva altri treni su cui poter salire? No, sulla soglia dei quarant’anni non aveva altri treni su cui salire, non ne aveva proprio, e quel diavolo d’uomo lo sapeva bene. L’occasione per lasciare la redazione del giornale, in cui si sentiva libero come una mummia dentro al proprio sarcofago, arrivò al momento giusto. Un suo vecchio amico, trovati gli agganci buoni, era stato assunto nella redazione fiorentina de “la Repubblica”, lasciando libero il posto di direttore responsabile del telegiornale, del notiziario radio e dei servizi sul web di un’emittente locale versiliese, la Maremonti Radiotivù di Forte dei Marmi. In realtà, la corretta ubicazione dell’emittente era in una più modesta località denominata Querceta, tristo paesello poco più a monte di Forte, ma per ragioni di prestigio la proprietà insisteva affinché venisse identificata con il rinomato centro balneare. I buoni auspici dell’amico favorirono la sua assunzione. Era un incarico di mezza tacca, ma era pur sempre un lavoro, e, con questi chiari di luna, non si poteva certo avere la puzza sotto il naso. L’emittente radiotelevisiva versiliese era di proprietà dei fratelli Alfiero e Bruno Civitali di Pietrasanta: gente venuta su dal nulla. Il primo, che era anche il più anziano, aveva avuto la brillante idea di aprire, nei primi anni Sessanta, un supermercato d’ortofrutta quando, da quelle parti, non sapevano neppure che cosa fosse un supermercato. Senza concorrenza, almeno per un decennio, lavorando come un bue dalla mattina alla sera, aveva fatto i soldi a palate e aveva potuto ingrandirsi: prima un mercato all’ingrosso di frutta e verdura, poi una fattoria, poi case al mare e in collina da affittare ai turisti danarosi incantati dalle bellezze e dal mito della Versilia. Bruno, il secondo fratello, di professione viveva alle spalle di Alfiero. Si considerava l’artista di famiglia. Con i soldi di questi aveva dapprima aperto una galleria d’arte al Lido di Camaiore, ma siccome erano più le uscite delle entrate, sotto suggerimento di Alfiero trasformò il locale in un bazar. Lì, gli affari andarono un po’ meglio. Fare il mercante, nondimeno, non gli piaceva proprio: così cedette l’attività al fratello maggiore (che, detto per inciso, la trasformò in pochi anni nel più notevole bazar della costa) per lanciarsi nel mondo delle tivù private. Anzi, volle fare le cose in grande: televisione più emittente radio. Chiese un grosso prestito al fratello, che acconsentì di buon grado (visto che una radiotivù locale avrebbe fatto piacere ai suoi amici politici), ma a due condizioni: diventare socio di maggioranza dell’impresa, e piazzare il proprio figlio Fabrizio, un gaglioffo peggio dello zio, con un incarico pseudo-manageriale all’interno dell’azienda: tanto per toglierselo dai piedi, insomma. A fornire a Nardini il quadro dettagliato dei vizi e delle virtù della famiglia Civitali era stato il suo amico ed ex direttore, che lo aveva anche rassicurato sulla questione pagamenti: lo stipendio non era certo un granché, ma veniva regolarmente retribuito; e gli aveva anche detto che il vecchio Alfiero, il vero capo di tutta la baracca, era un mezzo trappolone, un popolano furbo, ma in fondo di buon cuore, specialmente se gli rimanevi simpatico. Tutt’altra specie, era evidente, rispetto a quella del suo precedente datore di lavoro, il raffinato imprenditore Enrico cavalier Vandelli. Nardini ricordava bene lo sguardo sarcastico che questi gli aveva piantato in faccia il giorno in cui aveva accolto le sue dimissioni, evidentemente giudicate il gesto di un fesso. E ricordava come, alla fine, lo aveva salutato da dietro la monumentale scrivania di rovere, senza nemmeno un minimo accenno ad alzarsi, e gli aveva appiccicato alle spalle la sua sentenza, quando lui era già sulla porta. – Lei è un moralista. – Può darsi – gli aveva risposto Nardini senza voltarsi.
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