PROLOGO

1754 Words
PROLOGOFa caldo. Troppo, lamentano tutti. Il sole ha picchiato duro per tutta la giornata. Neppure la brezza marina, che sul far della sera arriva puntuale a rinfrescare il corpo e l’animo del villeggiante, nulla può contro l’inesorabile calura. Anzi, essa stessa giunge sui volti silvani e i vestimenti leggeri degli adusti vacanzieri come un respiro caldo, insinuante; porta con sé l’odore umido del mare che si fonde con i profumi del pino e della tamerice, del ginepro e del mirto, del ligustro e del biancospino: effluvi di natura che, dopo il tramonto, in quella minuta, ricca e scintillante plaga di Versilia, si mescidano con le fragranze chimiche di costosi deodoranti, di dispendiose acque di colonia e di preziosi profumi; si mescolano agli olezzi di gel, di crema rassodante e di belletto; si confondono con l’odore dei corpi sudati e appiccicosi e con l’afrore di qualche cameriere trafelato. È questo il bouquet ineffabile che, nelle notti estive, aleggia sovrano sul lungomare, sulle viuzze, sulle strade e le piazzette di Forte dei Marmi, mentre la fiumana di una variopinta umanità scorre lenta e svagata da una parte all’altra del centro abitato, secondo un percorso stabilito, per così dire, da un consolidato cerimoniale mondano. Lungo questo percorso, seduto a un tavolino all’aperto del Caffè Roma, tra lo scampanellio delle biciclette, il rombo di un motore, le urla di qualche giovinastro e, soprattutto, il costante mormorio della moltitudine, un piccolo gruppo di amici cercava di portare avanti una discussione che, almeno all’apparenza, sembrava coinvolgerli parecchio. Anche quella sera, come ogni sera d’estate d’altronde, si erano ritrovati al solito tavolo per prendere un po’ di fresco e tirare a far tardi. Lo facevano da quando erano ragazzi: ma allora quella era la postazione strategica per lanciarsi all’arrembaggio della ricca fauna femminile, forestiera e no; adesso, invece, che avevano tutti superato la cinquantina, quel medesimo posto era più che altro il luogo della memoria, il confessionale dei bei tempi andati, il regno della smargiassata, dove ogni ricordo, piccolo o grande che fosse, si coloriva di leggenda e di nostalgia. Non ci è dato sapere se quel gruppetto d’amici, tanto accalorati nelle loro chiacchiere, fosse a conoscenza del fatto che a due passi da loro, tra gli anni Venti e i Sessanta del secolo scorso, sotto il quarto platano, alcuni mostri sacri della letteratura spendevano un po’ del loro tempo prezioso a chiacchierare del più e del meno e, soprattutto, per spettegolare come lavandaie sui colleghi. Certo è che quel luogo storico e, per certi aspetti, sacro alle patrie lettere, non sembrava intimidire affatto la presente combriccola, impegnata in un dialogo sui massimi sistemi del mondo, il cui argomento principale erano le novelle imprese di tal Venanzio Giannarelli, un caposcarico sulla sessantina al quale, a un certo punto, era girata bene grazie alla creazione di una piccola azienda che produceva imballaggi in legno per i marmi, giusto nel momento in cui, intorno alla metà degli anni Settanta, il settore lapideo stava vivendo un vero e proprio boom economico. Aveva avuto fiuto, insomma, quella lenza di un Venanzio. E adesso che era pieno di quattrini e i figli erano già grandi, aveva piantato la moglie e se la spassava con una certa Arina o Irina, non è qui il caso di sottilizzare, visto che il nome non può certo dirsi l’elemento di maggior interesse della fanciulla. La sera prima, il Giannarelli era stato visto passeggiare avanti e indietro sul pontile, abbrancato al suo trofeo biondo platinato, di un metro e ottanta senza tacchi, come neanche un polpo allo scoglio durante una mareggiata. – Vi dico io che quella lì gli porta via anche le mutande! – diceva adesso uno della combriccola. – Secondo me finisce che lui schianta prima – sentenziava ridacchiando un altro. – Eh, però, gente, che bella morte, dico io! – sospirava un terzo con aria trasognata – Ma l’avete vista che po’ di gambe ci ha la bimba? Da arrampicarcisi come sull’albero della cuccagna! – E sai che premio, arrivati in cima! – ghignava il primo. Qualcuno rise grasso, mentre un altro del gruppo, fattosi d’improvviso serio, attirò l’attenzione del compagno vicino battendogli qualche pacca sulla schiena. – Oh, Gualtiero, guarda un po’ là: ma non è il tuo scooterino, quello? La compagnia ammutolì di botto. E fu allora che Gualtiero vide. A poche decine di metri vide, Gualtiero, il suo rosso, vecchio, Scarabeo 125, azzannato da un grosso Suv grigio metallizzato, col muso cattivo di un cane da combattimento: un molosso a quattro ruote da svariate decine di migliaia di euro. Vide che, nel tentativo di ottenere un parcheggio quasi impossibile, poiché lo spazio a disposizione era risicatissimo, il fuoristrada aveva cozzato contro il suo povero mezzo, che era rovinato a terra con un sordo rumore di ferraglia. E vide che il Suv continuava a manovrare prepotente, avanti e indietro, dando ringhiosi colpi d’acceleratore; e s’accaniva, s’accaniva l’infame sul suo adorato motorino. Gualtiero sbiancò a bella prima, impietrito. Poi, ripresosi, si lanciò verso il luogo dell’impatto, sfoderando una serie di cosiddette locuzioni interiettive, che a un orecchio non allenato sarebbero potute sembrare delle abominevoli bestemmie. Gli amici ovviamente, che già pregustavano il divertimento fuori programma, gli facevano da scorta. Il Suv aveva terminato di parcheggiare proprio nel momento in cui Gualtiero aveva dato corso al suo monologo di che cazzo fai, chi cazzo sei, rivolto al proprietario dell’auto. Si era già creato un bel capannello di gente per assistere, curioso, alla scena; il che sembrava indispettire particolarmente il conducente del Suv, finalmente uscito dall’auto con fare deciso, sicuro di sbrigare la questione in quattro e quattr’otto. Era un uomo sui quarant’anni che non doveva superare il metro e settanta, ma piuttosto ben piazzato e atletico. Incurante del monologo di Gualtiero, che continuava paonazzo con i suoi che cazzo hai combinato, chi cazzo credi di essere, l’uomo diede uno sguardo sdegnoso allo scooter a terra, forse per valutarne il valore. Poi, con l’espressione di chi è pronto a schiaffeggiarti con una mazzetta di fogli da cinquecento, incominciò a ciancicare qualcosa in una specie di italiano. Tutti compresero che era un russo, uno ricco. Parlava a bassa voce, una voce algida, incolore; la voce di chi è allenato a risolvere le cose a sangue freddo. Mentre biascicava mezze frasi in italiano, l’uomo aveva estratto dalla tasca sinistra dei pantaloni un grosso portafoglio di pelle di coccodrillo, che l’occhio esperto di alcune signore presenti identificò subito in un costoso Gucci. Tale mossa ebbe l’effetto immediato di calmare un poco l’animoso vaniloquio di Gualtiero, che cessò del tutto quando, finalmente, si compresero le intenzioni del russo, il quale, senza adombrare alcuna scusa per l’accaduto, fece intendere di aver fretta e di non gradire impicci legali; perciò avrebbe più volentieri risolto all’istante la questione. Avrebbe insomma risarcito subito il danno. Niet, niet polizia, diceva l’uomo, fendendo l’aria con la mano in segno di diniego. Niet polizia, ja paga questo, diceva, e indicava la motoretta mezza fracassata a terra. Adesso viene il bello, pensavano i presenti. Vediamo quanto glielo paga questo rottame. Perché un rottame, lo Scarabeo del Gualtiero, lo era per davvero, checché ne dicesse il proprietario. E il russo aprì infine il portafoglio, e dieci, venti colli s’allungarono; venti, quaranta occhi cercarono d’intrufolarvisi per valutare, soppesare, conteggiare l’entità che vi era riposta. E il russo trasse una piccola mazzetta di banconote da una più consistente che imbottiva il portafoglio e, roba da non credere, principiò a contare; e contavano anche tutti gli altri, lì intorno, con gli occhi spalancati: uno due tre... Le banconote da cinquecento euro scivolavano da una mano all’altra come carte da gioco... cinque sei sette... Ma quand’è che si ferma?, pensavano tutti. E lo pensava anche Gualtiero, basito, che guardava quel russo come si guarda una slot machine impazzita piuttosto che un essere umano. Quando arrivò alla bella somma di cinquemila euro, il russo piegò la mazzetta e la pose nelle mani tremolanti di Gualtiero. Poi gli assestò una vigorosa pacca sulla spalla a significare che la faccenda poteva dirsi chiusa. Lo spettacolo era pressoché finito, e la piccola folla di curiosi iniziò a disperdersi, commentando con vivacità ciò cui avevano assistito. Adesso il russo stava rivolgendosi nel suo idioma a qualcuno all’interno del Suv. Solo in quel preciso istante i pochi rimasti s’accorsero della bellissima ragazza dentro il lucido, scintillante macchinone. Era rimasta lì, nell’auto, indifferente a quanto succedeva fuori; tanto che, nella concitazione della scena, era passata del tutto inosservata. E ce ne voleva per non accorgersi di lei, dei suoi capelli rossi, fiammeggianti, raccolti perfettamente dietro la nuca; di quei due smeraldi incastonati al posto degli occhi... Mio Dio! esclamò il gruppetto di amici del Caffè Roma in un unico pensiero. Solo Gualtiero non reagiva a questa seconda emozione, ancora impietrito dall’effetto della prima. Ad un cenno del russo, la ragazza scese dall’auto con il passo sinuoso di una tigre siberiana. Sfolgorante da mozzare il fiato dentro quel minuscolo, guizzante abitino, verde come i suoi occhi. Nessuno, tra la combriccola di amici, osò accennare a un motto di spirito o a un commento colorito: a riprova che davanti a una donna bellissima i maschi si zittiscono, tramortiti. Gli sguardi, però, i loro sguardi andavano spalmandosi a più strati, come una crema nutriente, sulla pelle ambrata di lei. Ed ecco che il russo le si avvicinava e posava leggermente la mano sull’attaccatura di quei glutei metafisici, si direbbe a volerne indirizzare l’andatura, e intanto le sussurrava qualcosa all’orecchio. E questo la fece sorridere e quindi ridere. E intanto i due si allontanavano a passo spedito, tra la folla, incontro a una notte che per loro sarebbe stata certamente lunga, ricca e spumeggiante. Gualtiero aveva ancora in mano la mazzetta di soldi e rivolto agli amici, con stampato in faccia un sorrisino ebete, esclamava: – Eh, è andata così, gente, che vi devo dire! È andata così, oh! – È andata che te, Gualtiero, ci hai più culo che anima! – fu la risposta di uno. – Almeno, cazzo, offrici da bere! – aggiunse un altro. – No no, ragazzi. Vado a casa. La bevuta la facciamo domani sera! – rispose con un’aria affatto stranita. Raccolse il suo scooterino da terra, attirando ancora una volta l’attenzione di qualche passante. Vi salì sopra e provò ad avviarlo. Dopo alcuni tentativi e qualche moccolo, il vecchio, rosso, Scarabeo 125, sfiatando e grugnendo, finalmente andò in moto. Era parecchio malridotto; tuttavia, per un’ultima volta, il suo padrone a casa sarebbe riuscito a portarcelo.
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