“Ah!” concordò e, prima di mettersi in bocca l’ultimo boccone di dolce, verificò. “Ma c’è solo questa di scuola?”
“La Domus Horarum è l’unico Lyceum, ossia scuola media superiore, per i Lumen che vivono a LumenBritania.”
Sgranò gli occhi sorpreso e la docente subito chiarì. “I territori Lumen presenti in ogni Paese Opaco costituiscono una Circoscrizione, detta anche Comprensorio, ossia una nazione di Lumenalia a tutti gli effetti. Pertanto, già molti secoli fa, venne stabilito di denominare le diverse aree, mutuando il nome del Paese ospitante. La stessa cosa per le città più importanti che sono inserite nel tessuto urbano dei principali centri del Paese come, ad esempio, LumenLondon.”
“Intende dire che esistono LumenManchester, LumenGlasgow o, che so, LumenParis e così via?”
“Sì, chiamiamo così le nostre città che si articolano in quelle Opache. Certamente, ci sono molti luoghi e cittadine che appartengono solo a LumenBritania. In quel caso hanno un loro nome specifico, come Keep-Baile o altri villaggi del Keep, che – come ti ho accennato – è il distretto dove ci troviamo.”
Dopo un piccolo sorso, la donna riprese la spiegazione interrotta. “I ragazzi fino ai dodici anni frequentano scuole locali, decisamente più piccole, disseminate nella Circoscrizione britannica, così come lo sono gli Istituti Superiori e di specializzazione dove i Bagatti, i diplomati del quinto anno, completano la loro istruzione.”
“Lei mi vuole dire che, adesso, c’è solo un massimo di seicento ragazzi e ragazze Lumen, tra i dodici e diciassette anni, in tutto il Regno Unito?” si sbigottì.
Lo sguardo dell’insegnante si velò. Prese un respiro profondo e, dopo qualche istante, ammise. “Ebbene sì.”
“Ma allora siete ... siete in ... pochi ...”
Lei non disse nulla, ma la sua espressione si rabbuiò e lui si sentì in colpa. Non pensava che una domanda tanto generica potesse essere dolorosa per quella donna che, atteggiamento rigido a parte, non mostrava di essergli avversa.
Si schiarì la voce e osservò, come a scusarsi. “Be’ sì ... Chissà perché mi ero fatto l’idea che ... che foste in ... parecchi. Ma ... certo, è ovvio che invece ...”
“Le perdite sono state pesanti ... ovunque, ma qui da noi ... sono state ...”
La sua voce era distaccata, lo sguardo assente. Lui sentì un brivido gelido percorrergli la schiena quando sussurrò, in modo appena percettibile. “... immani.”
Ares era senza fiato. La Magistra si stava sicuramente riferendo al Dominio del Despota e capì che doveva essere stata una strage. Col respiro corto per l’emozione, deglutì e si ravviò i lunghi ciuffi neri che subito ricaddero sulla fronte.
“Lei ... lei, Professoressa ... ha ... ha conosciuto i ... i miei genitori?”
Leona Douglass lo fissò a lungo in silenzio e poi, alzandosi da tavola, comunicò in modo controllato. “Non è consentito a nessuno di noi parlarti di … loro.”
Rimase raggelato dov’era e lei aggiunse, in tono comprensivo. “Solo il Mentor Maximus Danaus Yolhair può dirti ciò che vuoi sapere.”
Lui si rabbuiò e, alzandosi lentamente, mormorò. “Già. Chissà quando ...”
La docente gli mise una mano sulla spalla e, fissandolo negli occhi che da grigio brillante si erano incupiti, affermò. “Ascolta, Milton. Danaus Yolhair sa sempre quello che fa. È sicuramente per il tuo bene, se ha deciso di aspettare tempi più consoni per raccontarti della tua famiglia.”
Ares abbassò la testa, emise un lungo sospiro e poi assentì adagio.
“Vieni. È ora di cominciare.”
Leona si diresse alla porta e lui esitò a seguirla. Era sua abitudine lavarsi i denti finito di mangiare, ma si sentiva imbarazzato a chiederle di riaccompagnarlo alla sua camera. Dopo un istante si mosse anche lui: per una volta ne avrebbe fatto a meno.
A un paio di passi dall’ingresso, la Magistra si fermò e si voltò, dicendogli con fare disinvolto. “Non so tu, ma se non ti dispiace vorrei rinfrescarmi un po’ ... prima.”
Con mosse veloci, afferrando la lunga catenina d’oro che portava al collo, e che era seminascosta tra le pieghe della veste che indossava, prese l’elaborato medaglione che vi era appeso e, sussurrando qualche parola a lui ignota, lo puntò verso il camino che si aprì nel mezzo rivelando due stanze da bagno attigue. Entrambe avevano le pareti rivestite di marmo, candido quello di destra e nero assoluto l’altro, dove spiccava in primo piano un grande lavabo bianco sovrastato da una mensola di cristallo dove notò, oltre ad altri articoli da toeletta, alcuni spazzolini da denti sigillati in bustine trasparenti.
“Prego, fai pure con comodo ...” lo rassicurò, invitandolo a entrare nella stanza di sinistra, dirigendosi in quella attigua, mentre la guardava attonito.
“Non preoccuparti. Fra poco non ci farai più caso. Chi prima finisce, aspetta fuori.” aggiunse con un mezzo sorriso, chiudendo la porta.
Dopo pochi minuti, Ares la raggiunse nel porticato inondato di sole. Non era mai stato nelle Highlands ed era vero che quell’estate faceva caldo, tuttavia gli sembrava che la giornata fosse particolarmente soleggiata e brillante per la regione. Non ebbe il tempo di fare alcuna osservazione che la Douglass si incamminò speditamente, facendogli cenno di seguirla.
“Facevi qualche attività fisica? Praticavi sport?”
“Be’ sì. Da qualche anno, alle Esperidi andavo a cavallo e tiravo con l’arco.“
”Per l’equitazione non credo si possa fare qualcosa, ma se ti aggrada potrai esercitarti con l’arco.” concesse in tono sbrigativo, mentre a passo rapido lo precedeva nel lungo corridoio. “Da domani. Per distrarti un po’ tra uno studio e l’altro.” precisò, voltando appena la testa indietro.
“Ecco, siamo arrivati.” annunciò fermandosi davanti a un portone di legno nero, dopo un cammino tortuoso che lui non sarebbe mai riuscito a ripercorrere.
La professoressa puntò il medaglione in direzione dei battenti a riquadri, scolpiti con disegni geometrici, che si spalancarono su un locale immerso nell’oscurità.
Non appena entrarono, il portoncino si richiuse alle loro spalle, lasciandoli per un istante nel buio più completo. La udì mormorare alcune frasi e subito si accese al centro della stanza un grande arco di luce bianchissima.
“Prima di iniziare, è necessario espletare alcune formalità.” dichiarò la Douglass con aria solenne. “Passa sotto quell’arcata, per favore.” Notando la sua esitazione, lo rassicurò. “Non temere, non ti succederà niente.”
Lui prese un profondo respiro e si avviò verso il centro della stanza, quindi si accinse a passare attraverso l’arco. Contrariamente a quanto si aspettava, non lo valicò subito. Passo dopo passo, la volta luminosa persisteva sopra la sua testa, seguendo il suo percorso. Avvertì un profondo benessere dentro di sé, come se quell’intenso chiarore avesse il potere di dissolvere ogni suo cruccio. Avrebbe voluto che non finisse mai, ma a un tratto la luce da bianca diventò colorata: verde, viola, rossa, arancione e gialla. Guardò in alto. Dall’arco che lo sovrastava di alcuni metri stavano scendendo miriadi di pagliuzze dorate, che diventavano man mano sempre più grandi e variopinte. Nell’aria, dove si era diffuso un profumo caldo e intenso, udiva note gioiose. A poco più di un metro dalla sua testa, le scaglie luccicanti si aggregarono per colore. Quelle verdi formarono foglie di diverse fogge e dimensioni, e le altre diventarono frutti: pesche, albicocche, ciliege, susine e altri ancora. Allungò il braccio in alto. Nonostante l’aspetto brillante e traslucido, la loro consistenza li faceva sembrare veri, ma non appena toccò una prugna, le sue dita ebbero appena il tempo di avvertire una superficie setosa che subito il succoso frutto si scompose in larghi fiocchi violacei, che toccarono lievi il pavimento con la delicatezza della neve. Affascinato da quello spettacolo, tentò di nuovo e ancora, non appena li sfiorò, frutti e foglie si dissolsero tra le sue dita. Si limitò allora a seguirne la dolce discesa verso terra, ma la loro sorte non fu diversa e, in breve, il pavimento di nera ardesia si ricoprì di un copioso strato di larghi lustrini multicolori.
“Congratulazioni, Milton. Sei entrato a far parte della gloriosa Familia Aestas, della quale mi pregio essere la Rector da molto tempo.” gli comunicò la docente con un sorriso, mentre l’arco scompariva e l’ambiente veniva morbidamente illuminato da diverse luci alle pareti, protette da dischi di alabastro.
Ares non sapeva cosa dire: si sentiva scombussolato da tutte quelle novità e anche leggermente irritato. Yolhair lo aveva sì invitato a seguire ciò che aveva definito semplicisticamente lezioni di recupero e che invece a lui sembrava pura follia, ma gli aveva anche detto che poteva andarsene quando voleva. Perché allora avevano voluto attribuirlo a una Familia, se poi non sarebbe rimasto? Perché era quella la sua intenzione: andarsene al più presto. Quel giorno stesso, se solo avesse potuto. Già, cosa l’aveva trattenuto dal dirlo subito al Praesidens?
“Vieni.”
La voce soddisfatta della Magistra lo distolse dai suoi pensieri, ma non ebbe alcun effetto sul suo umore. Si sentiva intrappolato in una specie di strano sogno surreale dal quale voleva svegliarsi senza indugio. Lui non apparteneva a quella combriccola di gente bizzarra. Raggiunse senza entusiasmo la Rector, che si era fermata accanto a un lungo tavolo ricoperto da un drappo di velluto blu scurissimo. Sul ripiano, tra le pieghe seriche, erano collocati diversi oggetti, tutti molto belli. Anelli, medaglioni, coltelli e piccoli bastoni. Tutti in tre esemplari.
“Dovrai scegliere uno di questi articoli. È estremamente importante che tu decida con calma, perché il tuo preferito ti accompagnerà per tutta la vita.”
Sentì dire dalla voce seria di lei, mentre osservava con interesse quanto era esposto.
“Ti lascio da solo, adesso. Prenditi tutto il tempo necessario. Tornerò quando avrai finito.”
Leona stava allontanandosi e lui si voltò in fretta. “No, aspetti. Perché devo sceglierne uno?”
La Rector si fermò, ma rimase in silenzio.
“Come faccio a decidere senza sapere cosa sono questi ... queste cose? A cosa mi possono servire ... E perché uno?”
La Douglass articolò, mentre lo fissava. “Nulla deve influenzare il tuo giudizio.”
“Ma come ...”
“Tranquillizzati. Farai la scelta giusta. Lo so.” affermò determinata, prima di voltarsi. Quindi si avviò verso la porta e, entrando in un cono d’ombra, scomparve dal suo campo visivo.
“No, per favore! Un momento!” pregò, ma la donna era svanita nel nulla. “Accidenti!” sbottò, sbuffando poi.
Camminò per parecchio avanti e indietro, imprecando a denti stretti contro tutto e tutti, dicendosi che avrebbe preferito di gran lunga trovarsi in un istituto correzionale, piuttosto che in quella gabbia di matti. Dopo tutto avrebbe saputo cosa aspettarsi, ma lì ... Quel posto, quelle persone ... Tutte quelle cose strane ... magiche. Già, la magia. Per lui era solo l’equivalente di uno spettacolo dove il mistero avvolgeva gesti e azioni rendendole incomprensibili, facendole sembrare magiche. Allora la magia era quello? Non capire perché certe cose accadessero ... così, in quel modo?! Suppellettili che prendevano vita e addirittura parlavano, pareti che svelavano i loro segreti grazie a parole arcane, cose che apparivano dal nulla e che al nulla tornavano. Non era impaurito, semmai indispettito che nessuno si curasse del suo sconcerto, tanto da prendersi la briga di spiegargli. Eppure tutto quello che aveva visto, dal momento in cui era entrato nello studio di Yolhair, lo affascinava. Era ammaliato dalla bellezza di quel luogo, il più bello che avesse mai visto, ma soprattutto dall’atmosfera che vi si respirava. E, in fondo, le persone che aveva conosciuto non erano poi così male. «Questa non è una punizione: è un’opportunità che ti viene offerta.» Le parole che il Praesidens gli aveva detto qualche ora prima riecheggiarono nella sua testa, come se lui fosse lì per davvero. Istintivamente, si guardò attorno, ma non c’era nessuno. In quel salone c’era solo lui.
Con animo un po’ più benevolo, anche se ancora fortemente scettico e per certi versi sospettoso, si avvicinò al tavolo e guardò gli oggetti che vi erano collocati. Erano tutti di raffinata fattura, il ché gli fece pensare che fossero preziosi o, forse, rari. Sfiorò con i polpastrelli le pieghe del velluto, ricevendo una sensazione piacevole e prendendo man mano familiarità. Aveva quasi paura a toccarli o addirittura a prenderli in mano, quasi fossero pezzi d’arte esposti in un museo. Si limitò quindi a osservarli sistematicamente, uno a uno, dal primo alla sua sinistra: un coltello dalla forma tozza. Accanto a questo, c’erano altri due pugnali più allungati. I tre pezzi erano realizzati in materiali differenti, così come erano diversi i decori dei manici e delle custodie. Il primo era di corno bruno, intarsiato con motivi geometrici in madreperla scura, col fodero di cuoio nero lavorato a rilievo. Il secondo, dall’impugnatura in metallo brunito sagomata a testa d’aquila, aveva una guaina arabescata, mentre il terzo, al manico di ebano elegantemente scolpito opponeva un fodero d’argento lucente con motivi floreali in oro fino. Ares li toccò leggermente uno dopo l’altro e quindi prese il primo. Estrasse lentamente la lama triangolare d’acciaio, forte e affilatissima da ambo i lati, che subito rinfoderò adagio, riponendo con cura l’arma dove era prima. Prese quindi il secondo pugnale, non senza qualche timore. Lama e impugnatura si fondevano in uno splendido pezzo unico. Ne saggiò peso e affilatura. Non aveva mai visto niente di simile, ma subito ebbe una sensazione di forza, quasi di potere. Cosa che non accadde col terzo, che era magnifico dal punto di vista estetico, ma non gli diceva niente.