Il Bagatto-2

2216 Words
Abbozzò un sorriso. Non gli sarebbe mancato. Piegò le labbra amareggiato. Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. Anzi. Dopo quell’episodio, non ne aveva più voluto sapere di genitori adottivi, ma la primavera di quell’anno Byron, che non aveva mai perso la speranza di trovargli una famiglia, lo aveva persuaso a fare un altro tentativo. I Waters erano a conoscenza delle sue difficoltà e le comprendevano. Avevano assicurato al Direttore che gli avrebbero dato tutto l’affetto e il sostegno di cui aveva bisogno. Dopo le prime settimane di diffidenza, l’atteggiamento di Ares si era ammorbidito e, in capo a un paio di mesi, sembrava che i suoi problemi fossero ormai un lontano ricordo. Invece era accaduto di nuovo. E non si era trattato di cose che cambiavano di posto o d’aspetto, vetri rotti, oggetti distrutti o spariti, animali scomparsi. Quella volta le cose erano andate in modo decisamente più drammatico. La signora Waters era caduta dalle scale e si era scoperto che un gradino era stato certamente manomesso. Inspiegabilmente, tutti gli indizi conducevano a lui. Ares, ancora una volta e con crescente veemenza, aveva protestato la propria innocenza. Che motivo avrebbe avuto a fare del male a una persona che, più di chiunque altro, gli aveva dimostrato di comprenderlo? Le prove però erano schiaccianti. Era tornato alle Esperidi ferito e arrabbiato, ma quella volta Byron – che era stato con lui sempre tanto paziente, sempre così comprensivo e fiducioso – lo aveva accolto con la rassegnazione negli occhi e il dispiacere dipinto in volto. Non c’era più nulla che il Direttore e il personale potessero fare per lui. Sentì qualcosa di umido scorrergli sulle guance. Rapidamente si passò le dita sugli occhi chiusi, tenendo poi le mani aperte sul viso. Non si ricordava di aver mai pianto e non lo avrebbe certo fatto adesso. Non sapeva dove lo stessero portando. Byron era stato piuttosto evasivo, ma non ci voleva un genio per intuire che, senz’altro, si trattava di qualche istituto per ragazzi difficili o, per meglio dire, disadattati. Il responsabile delle Esperidi lo aveva comunque rassicurato: non si trattava di un riformatorio. Ares aveva trovato quella precisazione del tutto fuori luogo e offensiva. Lui non aveva mai fatto niente di male in vita sua. Nessuno lo aveva accusato in modo esplicito di niente e se qualcuno era convinto, che quanto successo fosse davvero colpa sua, doveva provarlo e, soprattutto, doveva essere giudicato colpevole. Lui era innocente, ma sembrava che a nessuno importasse provarlo. Neanche a Perseus Byron. “Siamo arrivati, Signorino.” ripeté per la terza volta l’autista compassato, tenendo aperta la portiera. Ares sussultò, aprì gli occhi a fatica e respirò velocemente. Sbatté le palpebre più volte, guardandosi attorno. Era buio pesto. Allungò le braccia e mosse le gambe intorpidite. Gli sembrava di aver dormito per un’eternità e si sentiva spossato. Uscì lentamente dalla vettura e seguì l’autista che, dopo aver richiuso lo sportello, gli fece strada. Si erano fermati proprio davanti a un anonimo portoncino di legno scuro. L’uomo suonò il campanello d’ottone e subito la porta si aprì di scatto. L’atrio era piccolo e rischiarato quel tanto che bastava per intravvedere una scala e una donna che si avvicinava. Lei e l’autista si salutarono con un cenno del capo. Quindi l’uomo se ne andò, dopo avergli rivolto un breve commiato toccandosi la visiera. “Mi segua.” lo invitò la donna, entrando nell’ascensore di lato alla scala. La luce nell’angusta cabina era fioca e la donna gli dava le spalle, ma lui pensò che dovesse essere in là negli anni per l’acconciatura raccolta piuttosto antiquata e il vestito nero lungo fino alle caviglie. Quando l’ascensore si fermò, la seguì lungo uno stretto corridoio disadorno e semibuio fino a una porta di legno, dipinta di bianco come le pareti, che la donna aprì con una chiave. “Questi sono i suoi alloggi.” spiegò con voce neutra, mostrandogli nella penombra una cameretta con letto e armadio, dove già si trovava la sua valigia, il bagno e un piccolo soggiorno, con un tavolo apparecchiato. “Domattina verrà svegliato alle otto e trenta. Dovrà essere pronto e aver già fatto colazione per le nove. Qualcuno verrà a prenderla per portarla dal ... Direttore. Buonanotte.” La donna se ne andò, chiudendo la porta a chiave, prima che lui potesse chiederle niente. Si guardò attorno, passandosi una mano tra i folti capelli corvini. Cercò invano gli interruttori, accorgendosi poi che non c’erano lampadari, né applique: solo diverse lampade dislocate ovunque, che si affrettò ad accendere tutte. Le pareti delle stanze erano bianche, senza alcun ornamento, l’arredamento confortevole, ma impersonale. Sbirciò sotto le cupole che coprivano i piatti dai quali si sprigionò un profumino invitante. Mentre era in piedi, assaggiò distrattamente una patata al forno. Non aveva fame, ma trovò il primo boccone gustoso, e quindi provò l’arrosto. Le pietanze erano calde e saporite. Quasi senza accorgersene, terminò tutto velocemente e con soddisfazione. Ora che era sazio, si sentiva un po’ più ben disposto e considerò che quel luogo era meno peggio di quanto fosse logico attendersi. Se poteva addirittura disporre di un alloggio personale, non doveva essere tanto brutto stare lì. Andò in camera, aprì la valigia e ripose la sua roba nell’armadio, lasciando sul letto il pigiama. Prese la busta dove teneva il necessario per la sua toeletta personale e andò in bagno. Una delle regole basilari alle Esperidi era la cura della propria persona e dell’igiene. Fin da piccolo aveva imparato a tenere in ordine il proprio abbigliamento, a farsi la doccia tutte le mattine e a lavarsi sempre i denti dopo aver mangiato. Prima di spegnere la luce sul comodino, buttò un occhio al suo orologio: undici e cinquanta. Era stato il viaggio più lungo che avesse mai fatto. Aveva lasciato l’Istituto a fine mattina e, nonostante il sonno fatto in auto, si sentiva stanco. Rimase un po’ a occhi aperti, nell’oscurità totale. Nonostante fosse quasi luna piena, dai pesanti tendoni che mascheravano le finestre non filtrava neppure un pallido raggio di luce. Chiuse gli occhi e pensò. Mezzanotte. Il primo agosto duemilauno era trascorso. Con una stretta al cuore, si rese conto che non aveva mai passato un compleanno così. Da quando Perseus Byron era a capo delle Esperidi, il compleanno di ogni giovane veniva festeggiato in modo semplice, ma sempre piacevole. Invece dei normali dolci, veniva preparata una grande torta con candeline, spente a fine pranzo dal festeggiato che riceveva anche un dono, al quale provvedeva il Direttore in persona. Alla festicciola partecipavano tutti e, visto che di solito il numero degli ospiti era di rado inferiore alla quarantina, erano poche le settimane prive di uno speciale dolce di compleanno da condividere. Assieme alla sua ultima torta, l’anno precedente, Ares aveva ricevuto un arco nuovo che desiderava da tempo. Quella mattina, Byron e il personale lo avevano salutato molto frettolosamente e se ne erano andati prima che una berlina nera di grossa cilindrata si fermasse davanti all’ingresso principale. Così, per qualche minuto, lui si era ritrovato da solo, con la valigia a terra accanto a sé. Non era mai successo. Nessuna delle numerose volte che era andato via di lì. Sentì gli occhi inumidirsi di nuovo e si passò energicamente le nocche sugli occhi. Ricacciò nello stomaco il groppo che gli era salito in gola. Non era il momento di lasciarsi andare a inutili rimpianti. Aveva cose più importanti delle quali preoccuparsi. Chi avrebbe incontrato l’indomani? Con chi avrebbe avuto a che fare d’ora in poi? Che tipo di persone poteva aspettarsi? E loro, cosa avrebbero preteso da lui? Sarebbe stato ancora una fonte di delusione per tutti? Fece rapidamente spallucce. Non gli importava proprio niente di gente che non conosceva. Si girò su un fianco, mentre sul suo viso scendeva il dispiacere. Il cuore gli doleva come mai prima di allora. La vita che conosceva era finita e davanti a lui c’era solo oscurità. Pochi minuti dopo le nove, Ares era davanti a una bella porta a due battenti di quercia lucida e ornata di fregi sinuosi. La donna che l’aveva accolto il giorno prima era andata a prenderlo alle nove in punto. Avevano preso il piccolo ascensore che era salito di diversi piani e poi, dopo avergli mostrato la porta in fondo al corridoio stando nella cabina, la donna aveva chiuso la porta scorrevole di metallo. Rimasto solo, si era avvicinato ansioso alla sua meta. Prima di bussare si era sistemato la divisa delle Esperidi che indossava: stringendo il nodo della cravatta scura, spolverando le spalle della giacca blu navy da inesistenti pelucchi, controllando la piega dei pantaloni grigio fumo. Si era ravviato più volte i capelli lisci, sfilati e lunghi davanti, tanto indisciplinati che ricadevano sempre sulla fronte spaziosa, ombreggiando le sopracciglia folte che davano profondità al suo sguardo: una lama d’acciaio che mutava sfumatura con la luce e, soprattutto, con l’umore. Aveva preso un profondo respiro, schiarendosi la gola mentre si accingeva a bussare per poi ripetere l’intero rito preparatorio più volte. Alla fine, dopo un respiro più lungo degli altri, le sue nocche urtarono contro la porta senza quasi rendersene conto. “Avanti.” concesse una voce maschile dall’interno, mentre la porta si apriva da sola. Venne investito da un’ondata di calda luminosità. Istintivamente, strinse gli occhi e li schermò con la mano tesa. La differenza di chiarore rispetto a dove era stato fino a quel momento era notevole. Buio il corridoio che aveva percorso, così come i suoi alloggi: per quanti sforzi avesse fatto, non era riuscito ad aprire i tendoni. Si era quindi lavato, vestito e aveva fatto colazione alla scarsa luce delle lampade. “Vieni, Ares.” lo invitò la voce. “Non ti dispiace se ti chiamo Ares, vero?” Scosse la testa, tenendo la mano sugli occhi. Non vedeva praticamente niente. “Vieni, vieni. Accomodati pure lì.” ripeté la voce in tono incoraggiante. Ares mosse qualche passo incerto davanti a sé, senza sapere dove stesse andando. “Ah, già.” disse la voce e subito nella stanza la luce si attenuò abbastanza da permettergli di abbassare la mano e vedere dove fosse. Si aspettava un normale ufficio, invece quel posto era simile a un grande appartamento alquanto articolato. Si trovava in un largo ingresso, dal soffitto non molto alto, sul quale si aprivano tre vani a destra e due, più ampi, a sinistra. Anticamera e stanze erano ben illuminate, anche se prive di finestre e di luci visibili. Buttando un’occhiata veloce a ogni locale dai muri curvilinei, intravvide librerie zeppe di volumi di ogni dimensione, scaffalature ricolme di oggetti, un comodo salotto con divani e poltrone, e infine, nell’ultima stanza a sinistra, un tavolo ovale molto grande attorniato da almeno una dozzina di sedie imbottite. Tra un vano e l’altro, le pareti erano rivestite da un alto zoccolo di boiserie in ciliegio, dalle garbate modanature, al di sopra del quale erano appesi numerosi specchi di svariate dimensioni e dalle elaborate cornici, molte delle quali dorate. Avanzò timidamente verso il fondo dell’anticamera che terminava con una breve scala. Davanti a lui vedeva una lunga vetrata di fronte alla quale era collocata una pregevole scrivania. Un uomo anziano vestito di blu scuro, in piedi dietro di essa, lo invitava ad avvicinarsi col braccio teso. Ares scese i pochi gradini che si allargavano a mezzaluna e, titubante, si mosse nel vasto ambiente verso il superbo scrittoio, sedendosi nella poltroncina centrale. Subito il suo sguardo fu catturato dalla bellezza di quel salone semicircolare grandiosamente illuminato. La sequenza ininterrotta di portefinestre a piombo, riccamente decorata a motivi floreali, proseguiva per tutto il soffitto formando, nella parte centrale, una bellissima cupola ombreggiata dal sole grazie ai vetri colorati raffiguranti tralci di vite e grappoli d’uva. La parete alle sue spalle ospitava un magnifico camino di grandi dimensioni, di fronte al quale trovavano posto un confortevole divano e diverse ampie poltrone. Voltandosi alla sua sinistra, ammirò una scala a chiocciola in rovere che si sviluppava morbidamente verso l’alto, dove indovinava l’esistenza di un altro piano, di sicuro sovrastante il vestibolo. Balaustra e ringhiera erano quanto di più raffinato avesse mai visto. Quel grandissimo locale, come il resto dell’ambiente, era pavimentato a parquet con legni di vari colori, dal cupo bruno al tenue ocra, che formavano elaborati disegni. Dappertutto dominavano tonalità pastello dal tenue beige al cannella marcato, fino al mattone più deciso. Oltre alla scrivania c’erano diverse suppellettili. Un secrétaire di squisita fattura, eleganti stipi e cassettiere, tavolini di ogni grandezza, molti dei quali erano sormontati da abat-jour, piante e fiori. E inoltre lampade a stelo, un gigantesco mappamondo antico, uno appena più piccolo di vetro opalino colorato e due sfere armillari, di cui una sembrava particolarmente complessa. In fondo alla sua destra, accanto alla vetrata, c’era una chaise-longue di cuoio nero e metallo, appoggiata su un raffinato tappeto persiano dai toni blu e rosa. Tutto l’arredamento era in perfetta sintonia con l’ambiente, dove spiccavano ornamenti di linea dinamica e ondulata, fregi dalle curvature piene di slancio a formare fiori e foglie, piume, onde e conchiglie in un sapiente connubio di materiali diversi. Ares sapeva che non era educato soffermarsi a guardare in giro, ma quel luogo era stupendo e così in contrasto con ciò che aveva visto fino a quel momento, che ne era rimasto sorpreso e incantato.
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