Il Bagatto-1

2107 Words
Il Bagatto “È tutto chiaro?” Ares girò la testa di lato, lo sguardo rivolto al pavimento. Solo un guizzo della mascella contratta rivelò il suo stato d’animo. “Bene, allora. Puoi ...” “Bene un corno!” sbottò Ares a denti stretti, alzandosi d’impeto e facendo vacillare la poltroncina su cui era seduto. Perseus Byron se lo aspettava. Era impossibile che accettasse supinamente quella decisione. “È ... È per quello che ... che sono?” Byron annuì e Ares emise un lungo sospiro rassegnato. Guardò a lungo fuori dalla finestra alle spalle del Direttore. “E quando dovrei essere là?” si informò con voce incolore, lo sguardo perso nel nulla. “Mercoledì.” rispose piatto il responsabile dell’Istituto delle Esperidi, chiarendo dopo qualche istante, lievemente incerto. “Prossimo.” “COSAA?!” gridò l’altro, voltandosi di scatto. “Ma è il primo di agosto!! È il mio compleanno!” precisò contrariato. Gli tornò davanti e, appoggiate con forza le mani sulla scrivania, si protese verso l’uomo, interrogandolo risentito. “Si può sapere che male ho fatto per meritarmi ... questo?!” Byron sostenne il suo sguardo fulminante per qualche lungo istante. Si tolse quindi gli occhiali, li appoggiò adagio sul piano di mogano e si passò una mano sugli occhi, poi entrambe sul viso largo e roseo, come se volesse lavarlo nuovamente. Ares restò immobile a fissarlo, respirando adagio. “Non è una punizione, come pensi tu.” dissentì, dopo un lungo sospiro ed essersi rimesso gli occhiali dalla montatura scura. “Ma allora, perché?!” indagò il ragazzo con voce tagliente, immobile dov’era. “Non posso ...” “E ti pareva!” esplose. Allontanatosi subito, si mise a camminare nervosamente avanti e indietro, le mani serrate a pugno ficcate con forza nelle tasche. Perseus Byron si alzò a fatica dall’ampia poltrona, che occupava da ben oltre un decennio e mosse qualche passo verso di lui con quei piedini troppo piccoli per la sua mole. Il responsabile dell’Istituto era un uomo di media statura, decisamente corpulento, la cui zazzera spettinata sale e pepe lo faceva apparire più vecchio di quello che era. Gli ispidi baffi trasandati e la sua incuria nel vestire davano l’impressione che fosse un tipo superficiale e mediocre. I giovani delle Esperidi lo chiamavano Tricheco. Era noto a tutti, anche fuori, ma lui faceva finta di non saperlo. Era arrivato all’Istituto cinquantacinque anni prima e, in pratica, aveva trascorso lì tutta la sua vita. Nessuno più di lui poteva sapere i diversi stati d’animo di chi era ospitato lì. Dopo i primi anni d’infanzia, quando aveva cominciato a capire cosa significasse avere, e soprattutto non avere, una famiglia, aveva fatto di tutto per piacere a chi poteva portarlo via. Ai primi anni spensierati, spesi a giocare e basta, erano seguiti gli interrogativi, che si facevano sempre più pressanti man mano che diversi suoi compagni, coetanei e non, se ne andavano per non tornare più. E questo accadeva dopo brevi, quasi furtive, visite fatte da coppie di ogni età. Gli era stato infine detto che lui era orfano, che lì lo erano tutti, e che gli adulti che venivano in visita, e che poi si portavano via i suoi compagni di giochi, erano genitori, persone che avrebbero dato ai suoi amici una famiglia. Quando aveva saputo cos’era una famiglia, Perseus aveva pensato che fosse il paradiso e si era convinto che, se voleva andarci anche lui, doveva fare di tutto per piacere a quelle persone. Ce l’aveva messa tutta per essere più studioso e ubbidiente del solito, sforzandosi anche di riuscire simpatico, con risultati alquanto insoddisfacenti. Alla fine si era persuaso che, così grasso e goffo com’era, non poteva piacere a nessuno, che non sarebbe mai andato in paradiso. Gli anni della sua adolescenza erano stati particolarmente penosi e, se non fosse stato per Talia Gaskell, l’allora Direttrice dell’Istituto, sarebbe andata ancora peggio. Con affettuosa pazienza e dedizione, Talia gli aveva fatto capire, che avere una famiglia non era la sola cosa importante alla quale dovesse aspirare nella sua vita. Poco per volta, Perseus aveva superato il dolore ed era cresciuto con l’obiettivo di aiutare tutti i bambini che approdavano alle Esperidi a farsi una vita serena e, magari, felice. Al termine degli studi, seguiti in prevalenza all’interno dell’Istituto, era diventato assistente del Responsabile Didattico, quindi insegnante di lettere, Capo del Corpo Docente, Segretario di Direzione, Vicedirettore e, infine, Direttore delle Esperidi. In più di trent’anni di lavoro, grazie a instancabile impegno e inesauribile positività, aveva aiutato moltissimi bambini a diventare adulti soddisfatti e responsabili. La maggior parte di loro aveva trovato genitori amorevoli. Altri, pur senza una famiglia propria, avevano trovato come lui la strada giusta da seguire. Tutti loro, indistintamente, gli erano grati e si ricordavano sempre di lui a Natale: nessuno mancava mai di esprimergli affetto e riconoscenza. Non si era mai sposato, benché la vita gliene avesse dato l’occasione. Per Perseus Byron era quell’Istituto la sua famiglia, la sua sola famiglia. Considerava coloro che vi lavoravano, anche loro tutti orfani, come parenti e gli ospiti, come chiamava i bambini di ogni età che arrivavano lì, come suoi figli. Una famiglia così grande e così gratificante non se l’era mai immaginata neanche quando, da piccolo, sognava di essere in paradiso. Perseus Byron poteva dirsi pienamente soddisfatto, e a ragione, del suo operato e della sua vita. Se non ci fosse stato lui. Ares Milton era sempre stato la sua spina nel fianco. Lo considerava un fallimento personale: un’unica pecca che a lui, appassionato com’era del suo lavoro, impediva di essere davvero contento di tutto quello che aveva fatto e faceva. Era appena stato nominato Direttore, quando venne affidato alle cure dell’Istituto un maschietto di circa due anni che venne censito, secondo la norma, Ares Milton. Una regola imposta dalla Fondazione, che finanziava da sempre le Esperidi, era che agli orfani, di cui si ignoravano le generalità, venisse dato un nome mitologico e il cognome di uno scrittore inglese. Nessuno ne sapeva con esattezza la ragione, ma era ormai convinzione consolidata che fosse per volontà specifica della nobildonna, defunta da tempo immemorabile, appassionata di mitologia greca e letteratura inglese, che aveva lasciato tutta la sua immensa fortuna alla Fondazione Era. La data di nascita dell’Istituto delle Esperidi, noto più semplicemente come Le Esperidi, era sconosciuta. Secondo parecchi esisteva da diversi secoli, mentre per molti altri sfiorava il millennio Accoglieva da sempre orfani, di ambedue i genitori e senza parenti prossimi, di ogni età, e aveva sede in una delle tante proprietà della Fondazione: nel Wiltshire, distretto di Salisbury. Nonostante l’indiscutibile valore umanitario, la sua attività era così discreta da passare pressoché inosservata, tanto che per l’opinione pubblica era una semplice associazione culturale e gli abitanti della zona, dove si trovavano edificio e tenuta, consideravano quella grandissima costruzione di stile elisabettiano, completamente immersa in un vasto parco, nient’altro che una delle numerose nobili magioni, disseminate in tutto il Regno Unito, forse ormai proprietà di qualche facoltosa società giapponese. “È per il meglio, Ares. Vedrai, che ti troverai bene.” lo rincuorò Byron in tono poco convinto, mettendogli una mano sulla spalla. Ares si fermò e, senza voltarsi, osservò a mezza voce amareggiato. “Già ... Come sempre.” Poi si avviò alla porta, senza rivolgere uno sguardo al Direttore, che rimase in mezzo alla stanza, le braccia inerti abbandonate lungo i fianchi. L’auto scivolava silenziosa sull’autostrada. Si erano appena fermati a mangiare qualcosa in un’area di servizio vicina a Birmingham e ora proseguivano sulla M6 verso nord. Stanco di vedere il paesaggio circostante, Ares rovesciò indietro il capo sull’ampio poggiatesta e chiuse gli occhi. Si sentiva stanco, anche se era solo l’una. La verità era che si sentiva svuotato e inutile. Era il giorno del suo quindicesimo compleanno e gli sembrava che la sua vita fosse già al termine, senza aver combinato nulla di buono. Tutto quanto era accaduto fino a quel momento era stato solo fonte di delusione. Lui era quella fonte. Una delusione per chiunque, anche per sé stesso. Delusi erano i suoi insegnanti che gli riconoscevano, tutti, di essere dotato nelle rispettive materie, ma che non gli davano più della sufficienza per la sua scarsa applicazione. Negli anni, a varie riprese, in molti avevano cercato di stimolarlo, motivandolo in diversi modi ai quali lui rispondeva sempre nella stessa maniera. Non vedeva perché dovesse perdere tempo a imparare più di quanto fosse necessario. La realtà era che lui imparava con una velocità sorprendente: gli bastava ascoltare la lezione e leggere una sola volta i testi di studio per sapere il necessario. Ed era proprio questo che non tolleravano i suoi docenti che, considerando le sue straordinarie capacità, non volevano accontentarsi, ma per lui non ne valeva proprio la pena. E poi con quei continui cambiamenti, c’era poco da applicarsi. Deluse andavano sempre le speranze dei potenziali genitori che lo avevano avuto in affido e che, sbigottiti, lo riportavano alle Esperidi. Dopo i primi tentativi, si era convinto di avere una ragione in più per non impegnarsi più di tanto: a che pro darsi da fare per farsi apprezzare da qualcuno che non avrebbe più rivisto? Deluso era Perseus Byron. Ares emise un lungo sospiro. A quella già nutrita schiera si era aggiunto anche lui. Lui, che aveva sempre trovato modo di confortarlo. Lui, che lo aveva sempre difeso. Anche se non voleva ammetterlo, l’espressione rassegnata del Direttore, che aveva visto per la prima volta pochi giorni prima, gli provocava un sordo dolore continuo. “Se solo avessi dato retta a Tricheco!” pensò, in un tumulto di amarezza, rimpianto e rabbia. Byron le aveva tentate tutte per convincerlo a metterci maggiore impegno. Appena un po’ di più, sarebbe stato abbastanza per far tutti contenti. Eppure, nonostante quanto voleva far credere, Ares ci aveva provato. Sempre. Ogni volta che veniva dato in affido a una nuova coppia, faceva tutto il possibile perché le cose filassero lisce e invece succedeva sempre qualcosa che lo faceva tornare alle Esperidi. Non gli importava molto che insegnanti e personale dell’Istituto fossero ormai convinti che lui fosse strano, ma con i possibili genitori adottivi la cosa era diversa. All’inizio, pensava che il fatto che quelle persone, che prima l’avevano scelto e voluto, lo riportassero indietro non dipendesse da lui. Poi, si era man mano reso conto di non essere del tutto estraneo a certi fatti e allora si riprometteva, che la volta successiva sarebbe stato più buono. Nonostante i suoi sforzi, la sua permanenza nelle famiglie non superava mai i sei mesi, cosicché non solo non aveva trovato una casa, ma neppure era riuscito a farsi degli amici. Il suo carattere, da aperto e solare, si era via via incupito. Era diventato taciturno e ombroso, e se ne stava spesso da solo, rifiutando gli approcci dei suoi coetanei più disponibili e volenterosi, anche perché fortemente motivati da Byron, che gli proponevano di giocare con loro, o comunque stare assieme. Suoi unici svaghi alle Esperidi erano andare a cavallo e tirare con l’arco. Aveva imparato entrambe le cose quando aveva undici anni da una coppia, che sembrava essere proprio quella giusta. Lei, Maggie, era insegnante di equitazione e lui, George Fraser, manager della City, era un arciere provetto. Sembrava che tutto andasse per il meglio, fino a quando un mattino George non trovò tutti i suoi archi da competizione in pezzi e Maggie le porte della scuderia spalancate e i cavalli spariti. Nessuno dei due lo aveva apertamente accusato, ma nella tenuta c’erano solo loro tre e la sera prima avevano avuto una discussione. Ares aveva giurato e spergiurato di non c’entrare niente con quanto accaduto, ma le circostanze gli erano tutte sfavorevoli. I Fraser erano pronti a perdonarlo, se avesse confessato. Del tutto innocente, si era chiuso in un mutismo totale che aveva rafforzato la loro convinzione. L’inevitabile epilogo era stato il suo ritorno alle Esperidi. Di tutti gli incidenti capitati fino ad allora, quello era il peggiore. Era stato un colpo durissimo, che solo l’affetto di Perseus Byron era riuscito a mitigare. Con pazienza, il Direttore lo aveva anche convinto a proseguire in quelle attività che gli erano piaciute tanto. Al suo ritorno, Ares non voleva nemmeno più sentirle nominare, ma un giorno aveva trovato nella sua stanza un arco e un semplice biglietto. «La scuderia sai dov’è e sai che lì ti aspettano buoni amici.» Non aveva accolto subito l’invito, ma quando l’aveva fatto era stato un bene. L’arco alleggeriva i suoi costanti crucci e il rapporto con i cavalli mitigava la perenne solitudine. Tuttavia, anche se gli piacevano molto, non si era mai concesso di averne uno preferito.
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