CAPITOLO II-2

1957 Words
«Una volta ho conosciuto uno che aveva navigato su quel fiume che dice lui», osservò il maggiore dei figli parlando a bassa voce come chi non si fida di quel che sa e stima prudente assumere un cauto atteggiamento in presenza di qualcuno che ha visto tanto; «a sentir lui, doveva essere un fiume considerevole e abbastanza profondo, per essere navigabile da un capo all’altro». «È un corso d’acqua ampio e profondo, e sulle sue rive sorgono molte imponenti città», rispose il trapper; «e pure non è che un ruscello in paragone alle acque del fiume senza fine!» «Non so che farmene di un fiume che si può percorrere tutto quanto», esclamò il brutto compagno dell’emigrante: «un vero fiume deve essere attraversato, non scorrazzato da un capo all’altro come un orso in una battuta di contea8». «Vi siete spinto molto in là verso il sole calante, amico?», intervenne l’emigrante, quasi desideroso di tenere il suo rozzo compagno fuori della conversazione; «mi sembra di essermi imbattuto in una bella estensione di terreno brullo, qui». «Potreste viaggiare per settimane e vedere sempre lo stesso spettacolo. Io penso che il Signore abbia posto questa sterile cintura di praterie dietro gli Stati per mettere gli uomini in guardia contro la loro follia! Sì. Settimane, se non mesi, potete viaggiare in questi prati aperti nei quali non v’è dimora o rifugio né per l’uomo né per le bestie! Perfino gli animali selvatici viaggiano per miglia e miglia per trovarsi una tana; eppure il vento di rado soffia da Oriente senza che mi sembri di avere nelle orecchie il rumore delle asce e lo scroscio degli alberi abbattuti». Mentre il vecchio parlava con quella gravità e dignità che la vecchiaia imprime in genere anche a sentimenti meno commossi, i suoi ascoltatori stavano profondamente intenti e silenziosi come tombe. Fu ancora il vecchio cacciatore che riprese il discorso poco dopo, rivolgendo una domanda in quella maniera indiretta che è tanto in uso fra gli abitanti delle frontiere. «Non vi è stata cosa facile guadare i corsi d’acqua e aprirvi una strada così a fondo nelle praterie, amico, con carri e cavalli e mandrie di animali cornuti?» «Ho seguito la riva sinistra del fiume principale», rispose l’emigrante, «finché non mi sono accorto che il corso risaliva troppo a nord; e allora l’abbiamo traversato con le zattere senza troppi inconvenienti. Le donne hanno perduto un po’ di lana della tosatura dell’anno scorso, e le ragazze hanno una mucca di meno nella latteria, ma del resto ce la siamo cavata benone attraversando un torrente ogni due o tre giorni». «Immagino che continuerete verso Occidente finché arriverete a una terra più conveniente da colonizzare». «Finché non avrò ragione di fermarmi o di tornare indietro», rispose asciutto l’emigrante, alzandosi frattanto e tagliando corto al dialogo. Il suo esempio fu seguito dal trapper e da tutto il resto della compagnia; poi, senza tanti riguardi per la presenza dell’ospite, i viaggiatori procedettero a compiere le sistemazioni per la notte. Avevano già formato parecchie capannucce con rami d’albero, coperte di rozza manifattura paesana e pelli di bufalo, messe insieme senz’altro scopo che quello di offrire un riparo temporaneo. In quei rifugi si infilarono le figlie e la loro madre, e, come è più che naturale, piombarono ben presto nel sonno più profondo. Gli uomini però, prima di concedersi il riposo, avevano ancora piccoli compiti da eseguire: come completare le opere di difesa, nascondere accuratamente i fuochi, riempire le mangiatoie degli animali, e fissare le guardie che dovevano proteggere la compagnia nelle ore della notte. Il primo fu effettuato portando i tronchi di alcuni alberi negli intervalli lasciati dai carri e nello spazio aperto tra i veicoli, formando, come si sarebbe detto in linguaggio militare, un recinto di cavalli di frisia su tre lati della posizione. Entro questi ristretti limiti erano ormai raccolti tutti gli uomini e tutti gli animali; questi ultimi troppo contenti di riposare le membra stanche per dar fastidio ai loro poco più intelligenti compagni. Due dei giovanotti presero i fucili, e dopo aver rinnovato l’innesco ed esaminato la pietra focaia con la massima cura, se ne andarono l’uno a destra l’altro a sinistra dell’accampamento dove si appostarono all’ombra del bosco in modo da poter sorvegliare una parte della prateria. Il trapper se ne andò in giro qua e là, rifiutando di dividere la paglia dell’emigrante finché la sistemazione fu ultimata; quindi, senza nessuna cerimonia di congedo, si ritirò lentamente. Era la prima guardia della notte; e la luce pallida, tremula e ingannevole della luna nuova scherzava con le infinite ondulazioni della prateria, toccando le sommità di argentei splendori e lasciando delle zone intermedie nell’ombra profonda. Avvezzo a simili scene di solitudine, il vecchio, lasciato l’accampamento, si immerse solitario nel deserto come un ardito vascello che lascia il porto per entrare nel campo senza strada dell’oceano. Sembrò dapprima che errasse senza scopo o piuttosto senza apparente consapevolezza, dove lo portavano i passi. Finalmente, giunto in cima a una delle ondulazioni, sostò, e per la prima volta dopo aver lasciato la comitiva che gli aveva suscitato in mente tanti pensieri e tanti ricordi, sembrò consapevole della presente situazione. Gettato a terra il calcio del fucile, si appoggiò alla canna e tornò a immergersi per parecchi minuti in una profonda meditazione, mentre il cane andava ad accucciarglisi ai piedi. Un profondo, minaccioso brontolio del fedele animale lo scosse dalle sue meditazioni. «Ebbene che c’è, amico mio?», disse rivolgendosi al suo compagno come a un essere di intelligenza pari alla sua e parlando con voce piena d’affetto. «Che c’è, bestiola? Ah, Hector: che c’è da fiutare, adesso? È inutile, è inutile. Perfino i cerbiatti ci scherzano davanti senza preoccuparsi di due vecchi segugi malandati come noi due. Hanno il dono dell’istinto, Hector; e si sono accorti quanto poco siamo da temere!» Il cane alzò la testa e rispose alle parole del padrone con un guaito lungo e lamentoso che continuò anche dopo che ebbe affondato la testa nell’erba, quasi tenendo una comunicazione intelligente con colui che sapeva interpretare così bene il suo discorso senza parole. «Ma questo è un vero e proprio avvertimento, Hector!», continuò il trapper, abbassando prudentemente la voce e guardandosi intorno con cautela. «Che c’è, bestiola? Parla più chiaro, amico, che c’è?» Il segugio, tuttavia, aveva già posato il naso a terra e taceva come se sonnecchiasse. Ma gli acuti sguardi del suo padrone intravidero ben presto una figura lontana che nella incerta luce sembrava fluttuare sulla stessa elevazione su cui si trovava lui. In breve le proporzioni divennero più distinte, e si delineò una snella figura femminile, esitante se avanzare o no. Benché gli occhi del cane si vedessero ora brillare ai raggi della luna aprendosi e chiudendosi pigramente, la bestia non dette altro segno di inquietudine. «Avvicinatevi: siamo amici», disse il trapper associandosi al suo compagno per antica abitudine, e, forse, per la forza del segreto legame che li univa: «siamo amici vostri; non vi faremo del male». Incoraggiata dal tono cordiale di quella voce e forse anche spinta innanzi dalla gravità del suo scopo, la donna si avvicinò fino a giungergli a fianco. Allora il vecchio si accorse che la visitatrice era la giovinetta che il lettore ha già conosciuto sotto il nome di “Ellen Wade”. «Credevo che ve ne foste andato», mormorò lei guardandosi intorno timida e ansiosa. «Dicevano che ve ne eravate andato; e che non vi avremmo visto più. Non credevo che foste voi!» «Gli uomini non sono comuni in questi campi deserti», replicò il vecchio, «ma io spero umilmente di non avere ancora perduto l’aspetto della mia specie anche se sono stato per tanto tempo in consorteria con le belve del deserto». «Oh, sapevo che si trattava di un uomo, e mi pareva di avere udito anche il guaito del vostro cane», rispose la ragazza, in fretta, quasi desiderosa di spiegare, non sapeva nemmeno lei che cosa, e poi trattenendosi quasi paurosa di aver già detto troppo. «Non ho visto cani fra il bestiame di tuo padre», osservò il trapper. «Mio padre!», esclamò la ragazza risentita. «Io non ho padre. Stavo per dire, non ho nemmeno un amico». Il vecchio le rivolse uno sguardo pieno di gentilezza e d’interesse, anche più conciliante dell’ordinaria espressione onesta e benevola che si leggeva sul suo viso segnato dalle intemperie. «Perché allora ti avventuri in un luogo dove solo i forti dovrebbero venire?», chiese. «Non sai che quando hai attraversato il Grande Fiume, ti sei lasciata dietro un amico sempre obbligato a proteggere le creature giovani e deboli come te?» «Di chi parlate?» «Della legge: che è male averla, eppure qualche volta penso che sia peggio esserne del tutto privi. L’età e le poche forze mi hanno portato a questa debolezza, forse… sì… sì, la legge ci vuole per provvedere a coloro che non hanno le doti della forza o della saggezza. Spero, fanciulla, che se non hai un padre avrai almeno un fratello». La giovinetta sentì il tacito rimprovero contenuto in quella velata domanda, e per un momento rimase in silenzio, imbarazzata. Ma lanciato uno sguardo al mite e grave volto del suo compagno che continuava a fissarla con interesse, rispose fermamente, così da non lasciar dubbio che aveva ben capito il significato delle sue parole: «Per amor di Dio! Nessuno di coloro che avete veduto è un mio fratello, né qualcosa di più vicino e di più caro per me! Ma ditemi, vivete proprio così solo in questa regione deserta, buon vecchio? Non c’è davvero nessuno di qui oltre a voi?» «Ci sono centinaia, anzi, migliaia di legali proprietari del paese che errano per le pianure; ma pochi quelli del nostro colore». «E non avete incontrato nessun altro bianco che noi?», lo interruppe la ragazza impaziente di aspettare le lente spiegazioni della vecchiaia e della ponderazione. «Da molti giorni no… Zitto, Hector, zitto», aggiunse in risposta a un basso e appena udibile ringhio del segugio. «Questo cane sente guai nel vento! Gli orsi neri delle montagne qualche volta si fanno strada fin qui e anche più giù. Questa bestiola non si preoccuperebbe di una selvaggina innocua… Io non sono più pronto e infallibile col fucile come una volta, ma ho abbattuto i più feroci animali della prateria, a mio tempo; perciò non hai di che temere, fanciulla». La ragazza alzò gli occhi con quel particolare modo tutto femminile, con uno sguardo cioè che comincia con l’esaminare la terra e finisce col notare tutto quello che è nel potere della visione umana, ma sembrava piuttosto spazientita che allarmata. Un breve latrato del cane, tuttavia, spinse verso un’altra direzione gli sguardi di entrambi, e il vero oggetto del secondo ammonimento divenne vagamente visibile. 5 Hommany, pietanza composta specialmente di grano o granturco macinato (N.d.T.). 6 Non sembra necessario dire che questa parola americana indica chi prende la sua cacciagione con le trappole. È uso generale nei paesi di frontiera. Il castoro, animale troppo astuto perché sia facile ucciderlo, è preso più sovente con questo mezzo che con altro. 7 La parola “bagaglio” nel gergo degli Stati Occidentali d’America, è “bottino”. Il termine potrebbe facilmente ingannare sul carattere del popolo che, nonostante L’uso scherzoso di una parola così espressiva, è, come sempre gli abitanti delle nuove colonie, onesto ed ospitale. L’idea di ladrocinio connessa a “bottino” è propria specialmente di regioni più civili. 8 Vi è l’abitudine nei Paesi Nuovi di riunire gli uomini di un grande distretto, talvolta di un’intera contea, per sterminare gli animali feroci. Essi si distribuiscono in un circolo di parecchie miglia di estensione e a poco a poco si avvicinano uccidendo tutto quello che si trovano davanti. Si allude qui a questa usanza, nella quale l’orso cacciato è respinto dall’uno all’altro dei cacciatori.
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