1.

3277 Words
1. Quando l’attacco dei nevariani ci colpì, stavo giocando a palla con le mie sorelle. Il nostro bel giardino venne squarciato dai lampi di magia, il muro venne abbattuto e i soldati sciamarono dappertutto, come cavallette corazzate e rabbiose. Venni presa e trascinata via. Persi immediatamente di vista le mie sorelle e forse fu un bene. Almeno non vidi l’agonia di Teha e Mira. Passai di mano in mano, letteralmente. Il soldato di turno mi afferrava per un polso, per un braccio, per la vita e mi gettava più in là, nelle mani di un altro soldato. La mia fortuna fu che nessuno di loro in quel momento aveva abbastanza tempo per stuprarmi e uccidermi. Si limitarono a spintonarmi con le loro mani sporche di polvere e di sangue, a sbatacchiarmi contro le loro armature e a strapparmi il sottile vestito mentre mi trascinavano qua e là. Eravamo state prese completamente di sorpresa, ma non eravamo state le uniche. L’intera città non si era accorta di nulla finché non era stato troppo tardi e i getti di magia stavano già solcando il cielo. Ovunque venivo portata sentivo grida di terrore e di morte, di paura e disgusto. Sentivo le suppliche delle donne, gli strilli acuti dei bambini, le maledizioni degli uomini. Dappertutto era violenza e distruzione. Alla fine venni spinta dentro un cortile fangoso. Era aperto su un lato, circondato da edifici semi-demoliti dall’attacco. Capii che i nevariani avevano intenzione di utilizzarlo come punto di raccolta per quelli che sarebbero diventati gli schiavi strappati alla mia città. Dato che al contrario di molti miei concittadini il nevariano lo parlavo benissimo, iniziai a protestare energicamente: «Quali sono le vostre intenzioni? Non era sufficiente un vile attacco a sorpresa? Nessuno potrà impedirvi di razziare la nostra città, ma vi chiedo di aver rispetto per i suoi abitanti, che nulla hanno a che vedere con la vostra guerra!». Un soldato mi prese e mi tirò rudemente più in là. Mi strattonò così forte da sollevarmi da terra. «Non mi toccare!» strillai. «Sono una nobile, non hai nessun diritto di- A quel punto mi tappò la bocca con una mano, spingendomi contro quel che restava di un muro di pietra. «Fai provare a quella nobile un po’ di nerchia nevariana, Bargh!» latrò qualcuno, ridendo. Il soldato che mi aveva tappato la bocca usò l’altra mano per finire di strappare il mio vestito sottile, da casa, denudandomi il seno. Gli morsi le dita, anche se erano sporche e ributtanti. Lui mi colpì all’addome e mi scaraventò a terra. Guaendo di dolore, provai a rannicchiarmi. Avevo paura, ma su tutto prevaleva ancora la rabbia. Mentre tentavo di strisciare più in là, tuttavia, iniziai a capire che sarei stata violentata in mezzo al cortile, davanti agli occhi di chiunque volesse guardare, e poi sarei stata messa in catene. Se fossi sopravvissuta, ovviamente, cosa di cui dubitavo. «Bargh, la tua compagnia mi serve nel quadrante sud-est. Muovi le chiappe!» ordinò una voce secca, proprio mentre stavo per mettermi a singhiozzare di paura. Sollevai lo sguardo e vidi il bruto che mi aveva buttata a terra rivolgere un cenno d’assenso piuttosto rispettoso a un altro individuo. Si trattava di un uomo alto coperto da un’armatura a placche nera e bronzo, il viso in parte celato da un elmo degli stessi colori, con un cimiero a forma di becco di falco. Doveva essere uno dei comandanti, forse addirittura uno di quei Signori della Guerra che stavano incendiando le pianure con la loro inarrestabile avanzata. Cercai di retrocedere strisciando con il sedere sul terreno fangoso, sperando che nessuno facesse più caso a me. Non ebbi fortuna. L’orrido Bargh si era allontanato a passo veloce, seguito da alcuni dei soldati, ma altri, evidentemente di una diversa compagnia, erano rimasti lì e non intendevano lasciarmi in pace. Ma fu il comandante il primo a prendermi. Mi raddrizzò tirandomi su per un braccio e fece scorrere gli occhi chiari sul mio corpo. Gli occhi erano più o meno l’unica cosa che si vedesse del suo, insieme alla bocca dalle labbra sottili e al mento coperto da un velo di barba scura. «Romal! Portala nel mio carro, mi ci divertirò stanotte» ordinò, spingendomi nella mani di un altro uomo ancora. «No! Non hai diritto di...» provai a protestare, ma il comandante si era già voltato e il suo attendente non mi prestava nessuna attenzione. +++ Le mani mi vennero legate dietro alla schiena e venni caricata di traverso sulla groppa di un cavallo. Romal, il soldato a cui ero stata affidata, mi appoggiò tranquillamente una mano sulle natiche, tenendomi ferma così. Gridai, strepitai e minacciai, senza ottenere assolutamente niente. L’andatura ondeggiante del cavallo, inoltre, mi rese sempre più difficile parlare, perché a ogni passo mi schiacciava lo stomaco. Attraversammo così buona parte della città, procedendo dal centro verso nord, da dove era arrivato l’attacco. Le truppe nevariane continuavano a sciamare in direzione opposta alla nostra, a cavallo o su piccoli carri da guerra corazzati. La maggior parte dei soldati indossava una protezione per il torace a placche di ottone e un semplice elmo dello stesso materiale, ma ogni tanto incrociavamo un comandante dall’armatura più elaborata. Se ai gradi corrispondeva una corazza più elaborata, ragionai, il mio rapitore doveva essere davvero un signore della guerra come avevo immaginato. Subito fuori dalle mura cittadine, a nord, incontrammo le retrovie dell’esercito nevariano. C’erano tende, carri su carri di vettovaglie, quella che sembrava un’infermeria da campo, delle cucine... Romal, lì, mi portò ancora oltre, verso un grosso carro chiuso. Era un mezzo di trasporto impressionante. I fianchi erano corazzati e l’assale era sorretto da sei paia di grosse ruote di legno pieno. Doveva essere piuttosto pesante, motivo per cui era concepito per venire tirato da tre coppie di cavalli da guerra, che in quel momento non erano aggiogati e brucavano poco distante. Fuori dal carro erano di guardia due soli soldati, che sembravano scomparire accanto alla massa scura di quel titanico mezzo di trasporto. Calcolai che misurasse almeno otto metri in lunghezza, forse di più, e tre in larghezza. Romal mi prese e mi scaricò senza tante cerimonie. Riuscii a restare in piedi per miracolo. «Dobbiamo lavarla» disse ai due uomini di guardia. «Lord Epsos vuole giacere con lei, stanotte, cerchiamo di ripulirla un po’». «Ma io non voglio giacere con lui, ci avete pensato?» strillai, mentre mi tiravano verso una fila di alberi. Ero ormai stata strattonata così tante volte da avere le braccia coperte di lividi. Romal mi lanciò un’occhiata indifferente. «A Nevar ci sono donne che pagherebbero per questo privilegio, ma non temere... se non vuoi sono sicuro che Lord Epsos ti restituirà a Bargh e ai suoi uomini». «Per me non c’è nessuna differenza» affermai, anche se non era la completa verità. Dovendo proprio scegliere tra i due mali, il proprietario di quel gigantesco carro sembrava quello minore. Almeno sembrava dare una certa importanza alla pulizia. Era un pregio ben misero, paragonato al fatto che faceva parte di quanti avevano trucidato la mia gente e sembrava avere l’intenzione di usarmi come una meretrice. O come una schiava, che poi, supponevo, era ciò che ormai ero. In quel momento, tuttavia, avevo altre cose di cui occuparmi. Romal e uno dei soldati mi avevano portata dietro al filare degli alberi, dove c’era un altro carro, scoperto, con allineati dentro diversi orci. Romal finì di strapparmi la veste, lasciandomi addosso solo la sottile cavigliera d’oro che era stato il mio unico ornamento, quella mattina. Avevo le braccia legate dietro alla schiena, così non ebbi nessuna possibilità di coprirmi, nemmeno con le mani. «È giovane e flessuosa» commentò il soldato. «Il nostro signore ha scelto bene». Romal grugnì, ma non rispose. «Prendi un secchio» ordinò, invece. Pochi minuti più tardi capii qual era il loro concetto di “bagno”. Mi presero semplicemente a secchiate d’acqua. Acqua fredda, fino a infradiciarmi completamente. Poi Romal in persona mi strigliò tutta con una spugna intrisa di sapone, soffermandosi ben più del necessario sui miei seni, sul mio sedere e sul mio sesso. Mi sarei messa a piangere per il freddo, il disgusto e l’impotenza, ma non volevo dargli la soddisfazione. Mi asciugò anche e mi pettinò sbrigativamente i capelli, strappandomene diverse ciocche mentre lo faceva. Alla fine venni sollevata così com’ero, nuda e ancora umida, e portata dentro al carro, dove mi vennero legate anche le caviglie e i miei polsi vennero assicurati a un anello, in modo che non potessi muovermi. Mi lasciarono lì. +++ L’interno del carro era impressionante quanto l’esterno. Su un lato c’era un letto, stretto ma dal materasso molto comodo. Lo sapevo perché era lì che mi avevano buttata e, date le corde che mi intrappolavano, non potevo fare altro che restarci, distesa su un fianco. Oltre al letto, su quel lato c’era un tavolo fissato a una parete, due sedie e una piccola dispensa fornita di vari generi alimentari e di una fila di giare di vino. Sull’altro lato c’erano diverse cassapanche e una panoplia per le armi chiusa da una grata istoriata. L’angolo in fondo era chiuso e immaginai che fosse una piccola ritirata personale. Sul lato anteriore c’era una feritoia bassa e sottile, mentre sulle fiancate c’erano dei piccoli oblò di vetro. Il letto su cui ero stata scaricata era coperto di morbide pellicce e drappi di lana, persino esagerati per il clima mite delle mie zone. Dato che non potevo fare assolutamente nulla tranne aspettare, aspettai. Provai a dormire, ma ovviamente era impossibile. Cercai quindi, febbrilmente, di mettere a punto una strategia. Potevo cercare di compiacere questo Lord Epsos. Non avevo idea di come fare, dato che nella mia famiglia l’argomento “come intrattenere un uomo” non era esattamente quello che gli istitutori insegnavano alle giovani allieve. Nella mia famiglia, come in tutte le famiglie nobili, le ragazze venivano tenute all’oscuro pressoché di tutto, protette dal mondo esterno finché non fossero state affidate all’uomo che sarebbe diventato il loro sposo. Solo dopo il fidanzamento una servitrice anziana ed esperta dava loro i rudimenti che le avrebbero aiutate a sopravvivere al matrimonio. Ora, si dava il caso che la mia sorella maggiore, Mira, si fosse fidanzata da un paio di settimane e avesse pensato bene di raccontare anche a me e a Teha quello che le era stato rivelato. Questo non mi rendeva istruita in merito di uomini, se capite quello che intendo, mi rendeva piuttosto un’ignorante con anche diversi preconcetti sul groppone. Per quel che credevo di sapere, in pratica, per compiacere questo Lord Epsos tutto quello che dovevo fare era aprire le cosce e lasciare che si servisse senza lamentarmi troppo. Non che avessi davvero intenzione di farlo, se avevo anche una sola possibilità di cavarmela in un altro modo. Iniziai a pensare a come avrei potuto sopraffarlo, per poi fuggire. Ammetto che non sembrava così fattibile, anche perché per quel poco che avevo visto di lui Epsos era alto, con le spalle larghe, di certo più forte di me, che invece ero piccola e sottile... Le mie elocubrazioni furono interrotte dallo sportello sul retro che si apriva. Un attimo dopo salì a bordo Lord Epsos stesso. Il carro si inclinò sotto al suo peso, non scherzo. O meglio, come capii poco dopo, sotto al peso della sua corazza. Epsos si richiuse lo sportello alle spalle e si sfilò l’elmo, posandolo sul tavolo. «Ah, giusto» disse, lanciandomi un’occhiata stanca. «Mi ero dimenticato di te. Potevano darti almeno un mantello». Si sfilò il suo e lo mollò su una sedia, poi si sedette pesantemente sul lettino. Cercai di ritrarmi meglio che potevo. Alla luce incerta che proveniva dalle aperture vedevo per la prima volta i suoi lineamenti. Il suo era un viso nobile, non c’erano dubbi in merito, con i tratti regolari, affilati, il naso lungo e dritto, le sopracciglia scure ad ala di gabbiano, gli occhi chiarissimi e le labbra troppo sottili. Al di là di questo, il suo viso era stanco e la sua pelle abbronzata era un po’ sudata, la barba era troppo cresciuta e i capelli scuri erano appiccicati alla testa per via dell’elmo. Quelli se li scompigliò quasi subito, rivelando un taglio corto e ciocche un po’ ondulate. «Che c’è?» fece lui, vedendo che lo guardavo. «N-niente» balbettai. Epsos socchiuse gli occhi. «Giusto, parli la mia lingua. Una nobile, sì, ti ho sentito mentre lo gridavi. Hai un nome?». «M-Melita Sharrane, f-figlia del duca Berin di Sharrane». Epsos mi rivolse un’occhiata valutativa. «Primogenita?». «N-no». «Be’» concluse lui, slacciandosi gli schinieri, «è già qualcosa». Si rialzò per liberarsi del resto dell’armatura: spallacci, bracciali, cubitiere, cosciali, corazza e imbottiture. Quando ebbe finito, al di sotto restò un uomo alto, snello, chiaramente in gran forma, con addosso una camicia bianca, dei calzoni grigi e degli stivali di pelle nera. Un uomo di poco più di trent’anni, intriso di sudore e dall’odore penetrante. Feci una piccola smorfia involontaria, poi chiusi gli occhi, sperando che non l’avesse notato. Lui mi prese alla sprovvista: rise. «Certo che puzzo... vorrei vedere te, chiusa in quell’affare per ore e ore!». Si sfilò anche la camicia, mostrandomi la cosa più vicina a un uomo nudo che mi fosse mai capitato di vedere, e buttandola in un angolo. Poi scese di nuovo dal carro, lasciandomi nelle pupille una specie di impronta bruciante del suo torace guizzante di muscoli. Quando rientrò... indovinate? Già, ero ancora stesa sul letto, nuda e legata come un salame. Lui doveva essersi lavato, perché non aveva più quell’odore orrendo. Mi lanciò uno sguardo spassionato, poi, evidentemente non ancora soddisfatto, accese una lanterna. Dato che non potevo coprirmi io chiusi gli occhi per non vederlo che mi guardava. Li riaprii quando sentii che si muoveva. Lo vidi infilarsi un’altra camicia, pulita. Quando l’ebbe fatto prese un pugnale e tornò a sedersi sul letto. «Ti libero mani e piedi» disse. «Non fare niente di stupido, per favore». Annuii. Fino a pochi minuti prima avevo pensato a ogni genere di piano, ma a quel punto dovevo confrontarmi con la realtà, e la realtà era che non sarei mai riuscita a sopraffarlo. Quindi dovevo cercare di sopravvivere almeno fino a quando non si fosse addormentato, prima di provare a sgusciare via. Mi liberò le mani e i piedi, per poi appoggiare il coltello sul tavolo, fuori dalla mia portata. Mi massaggiai i polsi, poi cercai di coprirmi con una delle pellicce. Epsos inclinò la testa da una parte, guardandomi ancora. Alla fine si strinse nelle spalle, si alzò, aprì di nuovo una cassapanca e mi lanciò una camicia e un paio di brache. «Forza, vestiti, se ci tieni tanto» sbuffò. Mi affrettai a farlo. Forse, alla fine, avrebbe provato a chiedere un riscatto o qualcosa del genere. Forse era sua intenzione tenermi prigioniera e basta... «Sei sposata, Lady Melita?» mi chiese. Scossi la testa. La sua apparente gentilezza mi dava qualche speranza. «No, mh? Mai stata con un uomo?». Scossi di nuovo la testa. Forse tenermi prigioniera e basta non era sua intenzione, alla fin fine. Mi rivolse un mezzo sorriso. «Be’, farò piano» confermò i miei peggiori sospetti. +++ A quel punto avevo paura. Mi chiesi se non avrei dovuto tentare qualcosa di disperato. Colpirlo e correre verso il portello, cercare di farmi del male da sola... ma non ero abbastanza coraggiosa per nessuna delle due. «P-per favore, no» riuscii solo a balbettare. Epsos si allungò sul letto, le mani intrecciate dietro alla nuca. Era proprio chiarissimo che non aveva alcun timore che io cercassi di attaccarlo. «No, eh?» disse, con un sorriso un po’ amaro. Si strinse nelle spalle. «Lo capisci che non sei più una rampolla di buona famiglia? Sei una schiava. La mia schiava, per il momento, ma visto che non servi a niente, nella migliore delle ipotesi dovrai essere venduta. Dopo di che la tua virtù se la prenderà qualcun altro, perché soddisfare il suo padrone è il lavoro di uno schiavo». «Per favore...» sospirai io, di nuovo. Ma non riuscii a proseguire. «Per favore che cosa?» fece lui, infatti. Scossi la testa. «So che è sciocco, ma... lasciami libera». Epsos mi guardò dal basso in su (io ero in piedi accanto al letto) e per un attimo mi sembrò quasi dispiaciuto. «No, non ti lascerò libera. Non avrebbe nessun senso». «Sì, lo so» ammisi. Se anche mi avesse lasciata andare, sarei stata ripresa poco dopo da qualcun altro e non sarebbe cambiato nulla. «Stai dicendo che non ho alternative, giusto? Bene, allora prendimi, ma non fare piano. Almeno non essere ipocrita. Fammi male, così non ci saranno ambiguità». Lui sorrise, apparentemente divertito. «Dai, vieni qua. Siediti. Mangiamo qualcosa, va bene?». «Non ho fame» borbottai. Neppure mi prendeva sul serio. «Be’, io sì. Perché non mi porti un po’ di pane e formaggio dalla dispensa? E una coppa. E una giara di vino». Feci come voleva. Presi tutto e lo posai su un vassoio, poi sul letto davanti a lui. «Il coltello» disse lui. Lo presi da sopra al tavolo e glielo passai, porgendoglielo per l’impugnatura. Lui inarcò un sopracciglio. Lo prese e iniziò a tagliare il pane. «Pensi di non saperlo usare? O vuoi farmi credere che non lo faresti?». «Tutte e due» risposi io, senza preoccuparmi di mentire. «Siediti. Qua, accanto a me. Smettila di fare tanto la sostenuta. Sai qual è l’unica differenza tra te e il resto dei tuoi concittadini?». «Quale, sentiamo?». «Sei ancora viva». Nella sua voce avevo sentito una nota dura che fino a quel momento era stata assente, così mi sedetti come diceva lui, più o meno all’altezza dei suoi fianchi. Lord Epsos mangiucchiò un po’ di pane, si riempì il calice e me lo porse. «Bevi. Sbronzati, se vuoi». Sospirai. «Non mi prendi sul serio, vero, Lord Epsos?». Bevvi un sorso. «Grazie, ma preferisco restare sobria». Bevve a sua volta. «Mh-mh. Sei decisa, quindi. Vuoi renderlo sgradevole a tutti i costi. Bene, prendo atto della tua volontà. In questo caso spogliati di nuovo». Mandò giù un pezzo di formaggio, ora un po’ di cattivo umore. «Il mio nome è Wymar, in ogni caso. Potrebbe servirti». «P-perché?» balbettai io. In effetti lo preferivo quando almeno fingeva di essere gentile. «Ho detto spogliati» ribadì lui. Sospirai e obbedii. Il coltello era ancora sul vassoio e forse avrei potuto riuscire a prenderlo e piantarmelo nel cuore, ma... volevo vivere. Forse avrei cambiato presto idea, ma volevo ancora vivere. Quando fui di nuovo nuda mi risedetti accanto a lui. Avevo la pelle d’oca e i capezzoli completamente ritratti. Wymar appoggiò il vassoio sul tavolo e si sollevò appena per slacciarsi la camicia. «Sfilami i calzoni» ordinò. Le mani mi tremavano forte, quando cercai di slacciargli la cintura, così forte che quasi non ci riuscii. Mi resi conto di avere le guance bagnate di lacrime. Non mi ero accorta di piangere. Mi feci forza e presi i suoi calzoni per la parte inferiore, tirandoglieli giù. Subito dopo vidi le sue gambe snelle e muscolose e... be’, quello. “Quello” assomigliava a una salsiccia, solo con un’estremità che si perdeva in una selva di riccioli scuri. Pensai che non sembrava così temibile. «Vieni qua. Vediamo se riesco a trovare l’ispirazione» disse lui. Mi tirò verso il basso e io opposi un po’ di resistenza. Non troppa, perché sapevo che non aveva senso, ma neppure nulla, perché proprio non ce la facevo. Wymar mi tirò su di sé e mi circondò la vita con un braccio. A quel punto piangevo senza ritegno. Il suo corpo, attaccato al mio, mi riempiva di terrore. «Per Galter, smettila» disse lui. «N-non voglio...» singhiozzai. «Ti giuro che l’ho capito. Déi santissimi, sei senza un grammo di buon senso. Bene... ascoltami. Voltati. Forza, faccia al materasso. Probabilmente dovrei darti un calcio nel sedere e basta». Ero troppo agghiacciata per obbedire, così fu lui a voltarmi. Nascosi la faccia in una pelliccia bianca e morbida, un po’ rassicurata. Finché ero a pancia in giù non poteva arrivare, come dire, lì, giusto? Un istante dopo dovetti ammettere per l’ennesima volta di essere un’idiota. Wymar mi prese per i fianchi e mi tirò su il sedere. Mi trovai improvvisamente esposta. Cercai di divincolarmi, ma lui mi bloccò facilmente. Mi sputò addosso. Quello proprio non me l’aspettavo. Voglio dire... perché esprimermi così il suo disprezzo? Ma lo fece. Mi sputò lì, sul sedere e di nuovo lì, anche se forse la seconda volta sbagliò mira e basta. Io continuavo a singhiozzare, contratta e terrorizzata. Nei minuti seguenti provai il dolore più intenso della mia vita, l’umiliazione più forte, il massimo della degradazione. Durò poco e quando Wymar si decise a togliermi quel bastone rovente dall’interno scoprii di essere tutta appiccicata e sporca, ma non eccessivamente insanguinata. Wymar mi piombò accanto e coprì tutti e due con le pellicce e i teli di lana, senza una parola. Non lo guardai in faccia, quella sera. La sera in cui mi salvò la vita.
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