Lana annaspò. Dopo tutto il casino con gli ADA non pensava che Floriano le fosse ancora dietro.
«Potrebbe mettersi a piovere!» esclamò, a voce alta. Le sue parole risuonarono tra i vicoli e sulle facciate delle case.
L’uomo aprì il portone e le fece segno di entrare. Era buio come una tomba. Mentre Lana stava pensando che non voleva entrare in un posto in cui non vedeva niente, l’altro accese l’interruttore della luce. Lana sospirò e iniziò a salire le strette scale di cemento armato. Sperava solo che il killer, lì, non volesse farle qualcosa di strano.
Si fermò accanto a lui, davanti a un’altra porta, e riformulò: sperava che il killer, lì, l’avrebbe lasciata viva, dopo aver finito con lei.
L’uomo aprì la seconda porta e accese la luce. Lana lasciò scorrere lo sguardo sul letto dalle lenzuola lise e sulla cucina a bombole, sullo zaino nero e sulla custodia di un qualche strumento musicale, che più probabilmente conteneva una mitragliatrice.
L’uomo chiuse la porta e prese una sedia.
«Sul letto» ordinò.
Lana scalciò le sue infradito e salì sul letto a quattro zampe. Si slacciò il bottone degli shorts. «Sono già tutta bagnata, paparino» miagolò.
L’uomo si sedette sulla sedia e accavallò le gambe. «Ma certo. Ascolta, Lana, credo che ci sia un equivoco. Ho detto che ti avrei noleggiata per la notte, e intendo farlo. Ti pagherò la notte, in ogni caso. Ma quello che mi serve è che mi spieghi un paio di cose».
Lana si stese su un fianco e si puntellò la testa con una mano. «Okay, amico. Quello che vuoi tu. Ce l’hai un nome?».
«Cyo».
«Che cavolo di nome è?».
L’uomo si tolse gli occhiali affumicati. I suoi occhi erano azzurro chiaro, pieni di pagliuzze gialle. Erano anche stranamente luminosi, come se riflettessero più luce del normale.
«Abbiamo detto che risponderai a qualche domanda» le ricordò.
«Sì, amico» annuì lei, cercando di non farlo irritare.
«Non voglio farti del male» spiegò lui.
«Sì, amico» ripeté lei.
Lui scosse la testa, senza distogliere lo sguardo dal suo, e Lana iniziò a sentirsi la testa leggera, leggera come se l’avessero drogata. Pensò che con quel tizio, con quel tizio lì... sarebbe finita molto male.
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Tyr si stese sul letto e rifletté. La stanza era ancora satura del profumo da quattro soldi della baby-prostituta, mescolato a quello del suo sudore. Non aveva bevuto da lei e ora un po’ se ne pentiva. Aveva fame. Non mangiava da più di dieci giorni e doveva ammettere che l’odore del sudore della giovane umana non lo aiutava.
Si era limitato a ipnotizzarla e a estrarre dal suo cervello le informazioni che gli servivano sui capi dell’ADA, come li chiamava lei, nel quartiere. Non sapeva se fossero importanti per il suo piano oppure no, ma era bene conoscere il luogo in cui si doveva muovere, almeno un po’.
A quanto sembrava, gli umani di cui doveva tenere conto erano tre, al massimo quattro. Forse poteva servirsi di loro, Tyr non lo sapeva ancora, ma di certo non poteva ignorarli molto a lungo.
Il meno importante era Robbi Almeida, che gestiva il racket della prostituzione nella favela. Ovviamente lo faceva per conto dei cartelli, ma questo a Tyr non interessava.
Poi c’erano due fratelli, Glicério e Jeorge Cunha. Loro si occupavano dello spaccio e la loro posizione era parecchio in alto nella catena alimentare del quartiere.
Infine, Décio Azevedo, che possedeva un club sulla via principale e aveva una facciata quasi-pulita, ma gestiva buona parte delle scommesse illegali di Rocinha.
L’ultima persona di cui Lana gli aveva “parlato” era il capo dell’UPP di Rocinha, il maggiore Elaine Martins, ma Tyr non credeva che il comandante della Polizia di Pacificazione potesse interessargli.
Tyr chiuse gli occhi e lasciò che la sua mente vagasse per il quartiere, ascoltando stralci di pensieri, emozioni e sensazioni senza fermarsi su nessuno.
La notte stava per diventare alba e c’era chi si stava svegliando. C’era anche chi stava andando a letto in quel momento. Si concentrò su tre spacciatori di strada che stavano chiudendo baracca, solo per lasciare la piazza ad altri come loro, che sarebbero arrivati di lì a poco. Lo smercio di sostanze illegali era un lavoro 24/7, a Rocinha, dove si rifornivano anche i carioca dei quartieri ricchi che confinavano con la favela.
Cercò di trovare traccia dei bevitori di sangue del luogo, ma l’alba era davvero troppo vicina e Tyr sapeva che non c’erano anziani a Rio: tutti i bevitori di sangue stavano andando a dormire.
Pensò di dormire un po’ a sua volta. Non era stanco fisicamente, ma mentalmente. Temeva i sogni che avrebbe potuto fare, ma prima o poi avrebbe dovuto concedere una pausa al proprio cervello.
Stava per abbandonare quella sorta di perlustrazione mentale quando sentì di nuovo l’impronta mentale di Lana, la piccola prostituta che gli aveva fornito tutte quelle utili informazioni.
Non era felice.
Anzi, in realtà era nei guai. Un uomo, un cliente, la stava picchiando.
Lievemente incuriosito Tyr guardò nel cervello dell’aggressore. Vide un intrico di sentimenti: senso di rivalsa, offesa, senso di giustizia, sadismo, piacere sessuale... tutte queste sensazioni, come affluenti di un fiume più grande, andavano ad alimentare la sua rabbia. Tyr capì che la piccola aveva provato a portargli via qualcosa e ora l’uomo si sentiva in diritto di darle una lezione. Darle una lezione, tuttavia, gli stava piacendo un po’ troppo e forse Lana non sarebbe sopravvissuta alla sua furia.
Tyr pensò che non lo riguardava. La prostituta non aveva più valore, per lui.
Ebbe un doloroso ricordo del giorno in cui aveva trovato Eno, circa un millennio prima. La rivide, pesta e prossima alla morte, accasciata su un muretto a secco in una città del Nord Africa.
Si alzò solo per scacciare quel ricordo. Non sopportava l’idea di Eno, non in quel momento.
Aprì la finestra e saltò nel vicolo sottostante. Si mosse velocemente, così velocemente che nessun occhio umano fu in grado di vederlo. Si fermò davanti alla porta di una costruzione abbandonata, una delle molte, e provò la maniglia. Era aperto.
Oltre la porta, un corridoio sporco di cemento nudo e una stanza piena di mobili spaiati. Sul letto l’uomo continuava a colpire Lana, con il pugno sporco di sangue. La ragazzina era nuda e cercava di proteggersi raggomitolandosi su se stessa, ma stava evidentemente avendo la peggio.
Tyr fermò il pugno dell’uomo a mezz’aria. Gli spezzò il braccio quasi gentilmente e sentì il suo grido di dolore riecheggiare nella stanza, simile a quello di un maiale durante la macellazione.
Lo spinse più in là. Poi cambiò idea e decise che le sue grida gli davano sui nervi. Lo buttò fuori dalla stanza. «Scappa o ti ammazzo» gli disse, in tono calmo.
L’uomo guardò i suoi occhi azzurro-dorati (si era dimenticato gli occhiali) e decise di prendere le sue parole sul serio.
Tyr tornò nella stanza. Lana singhiozzava di dolore, ancora appallottolata sul letto. Odore di sangue, di sudore e di sperma. Odore di sporco e di qualcosa che stava marcendo, non molto lontano.
Tyr si sedette sul letto e le scostò le braccia dalla faccia.
«Lana» la chiamò.
Vide che aveva un labbro rotto e un occhio che iniziava a mostrare un livido. Altri segni sui fianchi e sulle costole, sul ventre e sul sesso.
Lana lo guardò come se non riuscisse a metterlo a fuoco.
«Tu...» mormorò, alla fine.
«Mh-mh. Ti ha colpita alla testa?».
«Che cosa ci fai tu... qua?» chiese lei, confusa.
Tyr le rivolse un sottile sorriso. «Ti salvo la vita. Due volte in una notte... forse sono il tuo angelo custode».
Lana tossì e cercò di mettersi a sedere. Emise un gemito di dolore. Tyr la prese per un gomito e la aiutò gentilmente ad alzarsi.
«Oh, Dio... quel tizio è impazzito... non so che cosa gli sia preso. L’hai fatto scappare?».
Tyr annuì.
«E ora...» Lana si guardò. Vide le ecchimosi che iniziavano a emergere sul suo corpo, poi fece una strana cosa: cercò di coprirsi con il lenzuolo.
«Ti accompagno da un dottore» disse Tyr.
Lei scosse la testa, per poi fare una smorfia di dolore. «No, no. Posso cavarmela. Grazie... tizio con uno strano nome che non ricordo più».
«Cyo. E non importa, non è il mio vero nome... non esattamente. Niente dottore, quindi. In questo caso, ti accompagno a casa».
Vide nella sua mente che “casa” era uno stanzone che divideva con altre otto minorenni, con dei materassi a terra e poco altro.
«Robbi mi ammazzerà» sospirò Lana, provando a mettersi in piedi. Recuperò i propri minuscoli shorts e se li infilò direttamente sul corpo pesto e insanguinato, poi iniziò a cercare la fascia-reggiseno.
«Puoi venire da me» disse lui. Poi si chiese perché mai avrebbe dovuto farlo. «Se non disturbi puoi stare da me. Ti curerò» aggiunse. Tanto ormai l’aveva fatto.
Lana gli lanciò un’occhiata sospettosa. «Non mi ricordo quasi niente di quello che è successo, con te. Forse ho bevuto troppo». In realtà pensava che lui l’avesse drogata, ma non l’avrebbe accusato di niente. Non ricordava che cosa fosse successo nella sua stanza, ma quando era uscita era tutta di un pezzo e avrebbe scommesso che lui non l’aveva nemmeno toccata. Non si sentiva come dopo una marchetta. Non le bruciava niente e non aveva nessuno strano sapore in bocca. Chissà, forse l’aveva solo guardata spogliarsi e si era masturbato... proprio non ricordava.
«Ti ho ipnotizzata, per questo non ricordi niente» le spiegò l’albino. «Mi hai solo dato delle informazioni sul quartiere. Volevo essere sicuro che fossero affidabili... quindi ti ho ipnotizzata. Ce la fai a camminare?».
«Penso di sì» borbottò lei. Non sapeva se credergli, ma non le importava nemmeno molto. Riuscì a trovare la propria fascia e cercò di infilarsela.
Tyr la guardò tentare per qualche minuto senza fare niente per aiutarla. Sapeva che non voleva essere toccata e non aveva intenzione di farlo. Ma lei non riusciva a vestirsi, da sola, quindi non gli restava che aspettare che chiedesse il suo aiuto.
«Non... non ci riesco...» ammise la ragazzina, alla fine. Subito dopo si mise a piangere.
Tyr le posò delicatamente una mano su una spalla e lasciò che lei si appoggiasse al suo petto. Le accarezzò i capelli, ascoltando i suoi singhiozzi. Lana si sentiva sfortunata e inutile, patetica e grottesca. Quell’uomo la stava trattando come un padre, il che significava che molto presto l’avrebbe scopata che a lei andasse o meno.
«Lana» la chiamò lui.
«S-scusa».
«Non c’è problema. Credo che potremmo trovare una soluzione alterntiva, per il pezzo di sopra».
La allontanò gentilmente e prese il lenzuolo. Lo stracciò, ricavandone un lungo rettangolo. «Riesci ad allontanare un pochino le braccia dal corpo?».
Lana fece come le suggeriva e lui le avvolse attorno al busto il rettangolo di lenzuolo, per poi fissarlo con un nodo sotto al suo seno.
«Ho visto di peggio» sorrise.
Lana si asciugò gli occhi e iniziò a cercare le proprie infradito.