1.
L’uomo con il violoncello saliva per la via principale di Rocinha con passo calmo e regolare. La Estrada da Gávea era anche una delle poche strade illuminate della favela. Dopo i piani di intervento del governo e dopo i mondiali di calcio una parte del quartiere era... ingannevole. Così la pensava l’uomo con il violoncello, comunque. La via principale larga e illuminata, con le casette quadrate dalle facciate di colori sgargianti e l’idea di riqualificazione urbana... ingannevole.
Rocinha resta la più grande favela di Rio de Janeiro: migliaia di abitazioni in gran parte fatiscenti appiccicate le une alle altre, aggrappate alla collina. L’uomo aveva visto il quartiere dall’alto e tutto quello a cui assomigliava era una discarica. I tetti piatti delle case sembravano confezioni di cibo da asporto buttate via, che si fossero accumulate disordinatamente lungo il fianco erto della collina.
A quell’ora di notte, le tre, sulla via principale c’erano ancora dei locali aperti. I turisti visitavano la favela durante il giorno, attratti dalla tipicità della zona, ma dopo il calar del buio erano ben pochi gli estranei che rischiassero di avventurarsi nel quartiere, che era ancora in gran parte controllato dai narcotrafficanti.
L’uomo con il violoncello scivolò in uno stretto vicolo laterale e abbandonò l’ingannevole impressione di sicurezza della Estrada da Gávea. In una mano stringeva la maniglia della custodia del suo strumento, nell’altra un piccolo mazzo di chiavi. Sulla schiena gli pendeva uno zaino nero, floscio, un po’ impolverato.
Era un uomo che si faceva notare, che lo volesse o meno. I suoi capelli erano quasi bianchi, molto corti sulla nuca e più lunghi in alto. Indossava dei pantaloni cargo color oliva, delle scarpe da ginnastica di pelle nera e una t-shirt grigio scuro, con al centro un logo della Nike viola. Un paio di occhialini affumicati, tondi, grigio-azzurri, gli coprivano gli occhi. Aveva dei lineamenti delicati, regolari, eppure duri, aspri. Era uno strano contrasto.
Non sembrava brasiliano. Non solo perché era bianco e pallido, ma anche per il modo in cui era vestito e in cui si muoveva. Risalì con sicurezza tra i vicoli, fino ad arrivare a una delle innumerevoli case quadrate. L’aspetto di quella casa non era ingannevole: la facciata era di un colore indescrivibile, sporco, i lati erano di mattoni nudi. L’uomo infilò una chiave del suo mazzo nella serratura che teneva chiusa una porta di truciolare gonfio, per poi aprirla con un piede.
Salì per le scale strette e spoglie, di cemento armato, al buio, senza preoccuparsi di accendere la lampadina che penzolava nuda all’ingresso e senza togliersi gli occhiali. Al primo piano aprì un’altra porta, questa più resistente. Entrò in una specie di piccolo appartamento: una camera da letto dotata di una zona cucina e un bagno. Il letto era solo un materasso appoggiato su una rete, i fornelli della cucina erano alimentati da bombole blu.
L’uomo appoggiò la custodia del violoncello accanto al letto e lo zaino sopra alla custodia.
Andò alla piccola finestra sporca e guardò fuori, nel vicolo. Niente si muoveva.
Si sedette sul letto e aprì lo zaino. Tirò fuori un altro zaino, più piccolo, del tipo usato per portarsi in giro i laptop. Se lo buttò in spalla e uscì di nuovo.
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Il locale era circa un metro sotto al livello della strada. L’uomo con il violoncello, ora senza violoncello, scese i gradini che portavano alla sala scura e fumosa, scivolando tra le persone in piedi sulla porta. Due uomini alti e muscolosi, con dei complessi tatuaggi sulle braccia nude, lo guardarono in silenzio, ma decisero di non fermarlo.
L’uomo scivolò fino a un tavolino in un angolo, dove si sedette. Si guardò attorno senza sfilarsi gli occhiali affumicati. C’era un bancone, lungo e affollato, una pista piena di ragazzi che ballavano e la musica era forte, così forte da far male alle orecchie. L’uomo seguì le parole di uno dei pezzi rap che rimbombavano nella sala. Nonostante il suo portoghese fosse perfetto, non ne capì il senso. Immaginò che la canzone parlasse di narcotraffico e regolamenti tra bande.
D’altronde, era nel cuore di Rocinha.
Tirò fuori dallo zaino un laptop della Apple color argento. Lo aprì e digitò qualcosa sulla tastiera.
«Amigo, devi andarti a prendere il tuo drink al bancone, qua».
L’uomo sollevò lo sguardo. La persona che aveva parlato era una ragazza di sedici o diciassette anni, con addosso dei minuscoli shorts bianchi e una sorta di fascia elastica nera sul seno. Aveva i capelli corti, nerissimi, e la pelle color ambra. Dal collo le pendevano diverse collanine di plastica e ai polsi aveva un gran numero di braccialetti. Aveva parlato in un inglese un po’ incerto, a voce alta per coprire il rumore della musica.
L’uomo tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un rotolo di banconote. Ne sfilò una banconota da cento real e la appoggiò sul tavolino. «Vai a brendermi una birra» disse, in portoghese. «Puoi tenere il resto».
La ragazzina rise e sbatté una mano sulla banconota, per poi farla scivolare via dal tavolo. «Una birra qualsiasi?» chiese, avvicinando il viso a quello dell’uomo.
«Quella che piace a te» rispose lui, inespressivo.
La ragazzina se ne andò sculettando. Sculettando esageratamente, come se stesse mettendo in mostra quello che offriva. L’uomo tornò a guardare il monitor del suo portatile. Digitò un indirizzo su Tor e aspettò che si stabilisse una connessione. Scorse una sorta di bacheca, leggendo solo gli ultimi interventi.
Lanciò un’occhiata veloce alla pista. La sua ragazzina si stava facendo largo tra i corpi sudati dei ballerini con in mano una birra e un grosso cocktail colorato. Mentre attraversava la calca rivolgeva cenni di saluto e scambiava qualche parola con questo o con quello.
L’uomo scrisse velocemente una frase, prima di chiudere il programma e il computer.
«Ecco, gringo» gridò la ragazzina, posando sul tavolo la birra già stappata e il cocktail. «Non sarei una cameriera, ma con una mancia del genere posso diventarlo».
L’uomo le rivolse un cenno di ringraziamento e si portò alle labbra il collo della bottiglia.
La ragazzina si avvicinò ancora, per sovrastare il rumore della musica, ma anche per accorciare le distanze. «Senti, gringo, non che siano fatti miei, ma se fossi in te non terrei quel computer così in bella vista. E nemmeno quel rotolo di reais... mi spiego?».
L’uomo le rivolse un sorriso freddo e sottile. «Hai ragione, non sono fatti tuoi».
La ragazzina rise. «Io sono Lana» disse, allungando la mano. «E non dirò più una parola sui tuoi istinti suicidi».
«Lana» ripeté lui. I suoi occhi, nella penombra del locale, erano completamente nascosti dalle lenti affumicate, ma la ragazzina ebbe l’impressione che fossero chiari quanto la pelle e i capelli. «Che cosa ci fai qua, Lana?».
Lei sorrise in modo che avrebbe voluto seducente. «Secondo te?».
L’uomo si strinse appena nelle spalle. «Prostituzione?».
Lana spalancò la bocca come se fosse oltraggiata, per poi mettersi a ridere. «Perché, ti interessa?». Si raddrizzò e si avvicinò ancora, in modo che i suoi seni fossero vicinissimi al viso di lui.
«Dipende» rispose lo straniero, senza nessuna particolare inflessione. «Vieni spesso in questo posto?».
«Più o meno tutti i giorni».
«Chi è quel tizio?» chiese lui, indicando la pista con un lieve cenno del capo.
«Chi, Gonçalo? Maglietta gialla e pantaloni blu?».
«Accanto».
«Ah, Horacio. Senti un po’, non sarai mica uno sbirro? FBI? CIA?».
L’uomo scosse la testa. Per la prima volta sembrò divertito. «No. Oh, no».
Lana bevve un bel sorso del suo cocktail e gli scivolò in grembo. «Bene, come vuoi. Ma sei americano, no? Anche se parli bene la lingua e tutto».
«Non sono americano» disse lui. Non si era opposto alla sua iniziativa, ma non ne sembrava nemmeno molto colpito. Lana gli prese una mano e si strofinò un po’ sulle sue cosce. Poi si portò la mano di lui sulla pancia, subito sopra alla cintura dei minuscoli shorts.
«Non ti piaccio?» chiese. Poi gli lanciò un’occhiata astuta. «Sono maggiorenne».
Di nuovo, l’uomo sembrò divertito. «Ma certo, è fondamentale». Le accarezzò la pancia come l’avrebbe accarezzata a un animale domestico, per poi lasciare la mano su una delle sue cosce. Lana emise un piccolo sospiro strofinandosi di nuovo contro di lui. «Dai, piccolo...» mormorò, vicino al suo orecchio, «...ne ho voglia».
Gli occhi dell’altro tornarono a percorrere la sala. «Sì, bene. Ti noleggio per la notte. Ora stai zitta».
«Sì, amore» rise lei. Buttò giù un’altra bella sorsata del suo cocktail, mentre gli accarezzava le spalle e la schiena. L’uomo non sembrò farci neppure caso.
Continuò a guardare la sala, lasciando che la baby-prostituta si strofinasse contro di lui e arrivasse ad accarezzarlo tra le gambe.
«Mh... okay» disse, alla fine, con un mezzo sospiro. Mise via il computer e si alzò. Lana quasi cadde per terra, ma lui la sorresse per un braccio.
«Bene, andiamo» concluse l’uomo, dirigendosi verso l’uscita.
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Nemmeno cinque minuti più tardi, in uno dei vicoli stretti e bui attorno al locale vennero circondati da cinque giovani uomini.
«Merda» borbottò Lana. Un attimo dopo cercava di scappare, solo per venire bloccata da uno dei cinque.
«Non lasciarci, piccola. Prima pensiamo a lui, poi pensiamo a te» ridacchiò quello.
L’uomo con gli occhiali affumicati notò che non avevano ritenuto necessario coprirsi la faccia. A nessuno importava se uno straniero ricco e imprudente veniva rapinato o persino ammazzato, a Rocinha. La prostituta adolescente, Lana, cercò di rintanarsi nell’ombra di un portone. Si accucciò sul gradino d’ingresso e restò lì, facendosi più piccola che poteva.
«Immagino che vogliate i miei soldi» disse l’uomo, senza scomporsi.
Uno dei cinque andò verso di lui con passo ondeggiante. «Sì, amico, vogliamo i tuoooi soooldi» lo prese in giro. «E pure il tuo computer. E pure la tua puttana».
L’uomo si strinse nelle spalle. «Okay» disse.
Si infilò la mano in una delle tasche dei pantaloni. Subito dopo il rapinatore che gli si era avvicinato si trovò la canna di una pistola appoggiata sulla fronte. Dai suoi sodali provennero delle esclamazioni sorprese e arrabbiate.
«Non provarci, figlio di puttana... sei solo uno».
Di nuovo l’uomo si strinse nelle spalle. «Basto e avanzo». La sua pistola emise un suono attutito, più simile a un “fop” che a un “bang”. Il rapinatore che aveva davanti si afflosciò, cadendo a terra.
Lana si coprì gli occhi e le orecchie, mentre risuonavano gli spari di altre pistole, non silenziate. Sentì tre colpi di pistola, due lunghe grida, un’imprecazione e poi il suono più raccapricciante di tutti, una sorta di sinistro “crock”, seguito da un grido inarticolato.
«Di’ ai tuoi capi che hanno fatto un errore. Non sono un turista. Digli che parlerò con loro, quando avrò tempo. Sono arrivato solo stasera. Confido che disporrete voi del corpo del vostro amico».
Lana si decise a riaprire gli occhi. Era meglio sapere di che morte sarebbe morta, in fondo. Anche se... nell’oscurità del vicolo fece fatica a distinguere i dettagli. Uno dei cinque era morto, quello l’aveva visto succedere. Degli altri ne era rimasto solo uno, che piagnucolava in ginocchio e si teneva un polso con la mano. Dal polso spuntava un pezzo di osso insanguinato, mentre l’altra mano era piegata in un angolo innaturale.
«Hai capito?» chiese l’uomo con i capelli bianchi.
Il rapinatore annuì freneticamente, continuando a mugolare di dolore.
Lo straniero andò verso Lana, la prese per un gomito e la tirò in piedi. Guardò le sue guance rigate di lacrime e mascara.
«Andiamo» si limitò a dire.
La sua maglietta era bucata in più punti, ma lui non si era fatto un graffio.
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«Oh, Dio... oh, mio Dio... hai appena fatto fuori uno degli ADA?» balbettò Lana, mentre l’uomo la spingeva lungo il vicolo perpendicolare a quello in cui erano stati attaccati.
«ADA?» fece l’altro.
Non sembrava scosso. Sembrava solo che volesse portarla via di lì il più in fretta possibile.
«Non sarai un turista, ma dove cazzo vivi?» ritorse Lana. «Cristo, ammazzeranno anche me... scopriranno chi sono e mi faranno fuori».
L’uomo la fece svoltare in un altro vicolo. «Ah. Gli Amigos Dos Amigos, è questo che intendi, mh? Bassa manovalanza. E ti avrebbero ucciso loro, dopo averti stuprata, quindi non essere così catastrofica».
Lei si divincolò, liberando il braccio per cui la stava tenendo. «Ma vaffanculo, gringo! Hai capito contro chi ti sei messo?».
L’uomo la riprese per il braccio e tornò a spingerla avanti. «Ti ho detto di non preoccuparti. Cammina».
Lana camminò. Non aveva idea di chi fosse quel tizio e continuava a pensare che gli ADA l’avrebbero fatta fuori solo perché era lì, ma c’era un’altra cosa di cui si stava rendendo conto: il suo cliente, chiunque fosse, si era appena scrollato elegantemente di dosso cinque aggressori, lasciandone uno per terra. Lana si chiese se ne avesse ammazzato solo uno perché non era riuscito a fare di meglio o se ne avesse ammazzato solo uno perché non aveva voluto fare di meglio.
«Senti, amico... ho detto che vengo con te, okay? Ci divertiremo, vedrai... ma spiegami un secondo chi cazzo sei, va bene?».
L’uomo si fermò davanti a una porta di truciolare tutta gonfia e tirò fuori una chiave. Le rivolse un piccolo sorriso sarcastico. «Sì, certo, te lo spiego di sicuro. Fai sapere all’uomo che ci sta seguendo che non è una buona idea, per favore».