Il freddo, che di giorno in giorno si faceva più intenso, pizzicava crudelmente il naso e le orecchie; i piedi doloravano al punto che ogni passo faceva soffrire; e non appena furono in vista della campagna, questa apparve loro così spaventosamente lugubre sotto lo sterminato biancore, che subito tornarono indietro, con l'anima gelata e il cuore stretto.
Le quattro donne camminavano avanti, e i tre uomini venivano dietro un po' discosti.
Loiseau, che si rendeva conto della situazione, chiese all'improvviso se “quella sgualdrina” aveva intenzione di farli restare ancora per parecchio tempo in un simile luogo. Il conte, sempre gentile, disse che non si poteva pretendere da una donna un così penoso sacrificio, che doveva essere spontaneo. Carré-Lamadon notò che se i francesi - come si diceva - avevano intenzione di fare una controffensiva da Dieppe, lo scontro doveva avvenire per forza a Tôtes. A questa constatazione gli altri si preoccuparono. «E se cercassimo di scappare a piedi?» disse Loiseau. Il conte scrollò le spalle: «Con tutta questa neve? Con le nostre donne? Saremmo subito inseguiti, ripresi dopo dieci minuti, e fatti prigionieri, in balia dei soldati.» Era vero; tutti tacquero.
Le signore parlavano di mode; ma sembrava che qualcosa le dividesse.
All'improvviso, in fondo alla strada comparve l'ufficiale prussiano. La sua alta figura di vespa in uniforme si stagliava sulla neve che chiudeva l'orizzonte, e camminando scartava le ginocchia con la mossa caratteristica dei soldati che cercano di non sporcarsi gli stivali accuratamente lucidati.
Passando accanto alle signore, s'inchinò, e guardò sprezzantemente gli uomini, i quali, del resto, furono così dignitosi da non togliersi il cappello, per quanto Loiseau ne avesse abbozzato il gesto.
Pallina era arrossita fino alle orecchie; le tre donne sposate erano molto umiliate per essersi fatte vedere dall'ufficiale in compagnia della ragazza ch'egli aveva trattato tanto incivilmente.
Si cominciò a parlar di lui, del suo personale, del suo viso. La signora Carré-Lamadon, che aveva conosciuto molti ufficiali, e poteva giudicarli da competente, disse che era non c'è male; le dispiaceva perfino che non fosse francese, perché di certo sarebbe stato un bell'ussaro, da far girare la testa alle donne.
Dopo esser rientrati in albergo, non seppero più che fare. Ci fu perfino una mezza litigata per cose da nulla. La cena, silenziosa, durò poco; e ognuno se ne andò a letto sperando di dormire per ammazzare il tempo.
Il mattino seguente i viaggiatori scesero col viso stanco e gli animi inaspriti. Le donne rivolgevano appena la parola a Pallina.
S'udì il rintocco d'una campana. C'era un battesimo. Pallina aveva un figlio che veniva allevato da certi contadini d'Yvetot. Lo vedeva sì e no una volta all'anno, e non si occupava punto di lui; ma il pensiero di quello che stava per esser battezzato le suscitò un'improvvisa e violenta tenerezza per il suo, e volle assolutamente assistere alla cerimonia.
Appena se ne fu andata, gli altri si guardarono, poi fecero capannello con le sedie, sentendo che bisognava pur decidere qualcosa. Loiseau ebbe un'ispirazione: a parer suo si doveva proporre all'ufficiale di trattenere la sola Pallina, e di lasciar ripartire gli altri.
Follenvie s'incaricò dell'ambasciata, ma ridiscese quasi subito. Il tedesco, che conosceva la natura umana, l'aveva messo alla porta. Avrebbe trattenuto tutti, finché il suo desiderio non fosse stato soddisfatto.
Allora la natura plebea della signora Loiseau esplose: «Non moriremo mica di vecchiaia qui. Dal momento che lo fa di mestiere, quella sgualdrina, di andare con tutti gli uomini, mi pare che non abbia il diritto di rifiutare questo o un altro. Dico io, ha pigliato tutto quel che ha trovato, a Rouen, perfino i cocchieri; sissignora, il cocchiere della prefettura. Lo so, perché si serve da noi. E oggi che dovrebbe tirarci fuori da quest'impiccio, fa la difficile, quella mocciosa! A me mi pare che l'ufficiale si stia comportando bene. Forse è a digiuno da parecchio tempo, e noi tre ci avrebbe senz'altro preferite. Invece no si contenta di quella di tutti. Rispetta le donne sposate. Pensateci un po', lui è il padrone. Gli basterebbe dire: “Voglio”, e potrebbe prenderci per forza, coi suoi soldati.»
Le altre due donne ebbero un piccolo brivido. Gli occhi della graziosa signora Carré-Lamadon brillavano, ed era un poco pallida, come se si sentisse già presa per forza dall'ufficiale.
Gli uomini, che stavano discutendo in disparte, s'avvicinarono. Loiseau, furibondo, voleva consegnare “quella miserabile” al nemico, legati mani e piedi. Ma il conte, che discendeva da tre generazioni d'ambasciatori, ed aveva la figura del diplomatico, propendeva per l'astuzia: «Bisognerà convincerla,» disse. Allora cospirarono.
Le donne s'avvicinarono, fecero crocchio; la discussione si estese, a voce bassa, perché ognuno voleva dir la sua. Era una cosa molto ammodo, del resto. Le signore, soprattutto, usarono delicati giri di frase, espressioni di mirabile sottigliezza, per i discorsi più scabrosi. Un estraneo non avrebbe capito nulla tante erano le precauzioni del parlare. Ma, poiché la leggera crosta di pudore che ricopre tutte le donne del bel mondo è soltanto superficiale, costoro gioivano di quell'avventura licenziosa, in fondo si divertivano pazzamente, si sentivano a loro agio, intrugliando nell'amore con la sensualità d'un cuoco ghiotto che prepari il pranzo a un altro.
L'allegria nasceva da sé, tanto buffa pareva quella storia. Il conte disse delle spiritosaggini un po' spinte, ma così bene che fece sorridere. A sua volta Loiseau ne lanciò di più scurrili, ma che non diedero fastidio a nessuno; tutti erano rimasti colpiti dalla frase brutale di sua moglie: «Dal momento che lo fa di mestiere, perché dovrebbe rifiutarsi a quello o a un altro?» La graziosa moglie di Carré-Lamadon sembrava perfino pensare che, nei panni di Pallina, avrebbe rifiutato lui meno d'un altro.
Prepararono il blocco, a lungo, come se dovessero assediare una fortezza. Si misero d'accordo sulla parte che ognuno avrebbe sostenuto, sulle argomentazioni da portare, sulle manovre da eseguire. Furono concordati il piano d'attacco, le astuzie da usare, e le sorprese dell'assalto, per obbligare quella cittadella vivente a ricevere il nemico nella piazza.
Cornudet, però, restava in disparte, estraneo alla manovra.
Erano così intenti che non sentirono entrare Pallina. Il conte disse piano: «Zitti,» tutti alzarono gli occhi. Era lì. Tacquero di colpo, e ci fu un certo imbarazzo, che impedì dapprima di rivolgerle la parola. La contessa, più scaltrita degli altri nelle ipocrisie dei salotti, le chiese: «Era bello, il battesimo?»
La ragazzona, ancora commossa, raccontò tutto, della gente, degli atteggiamenti, perfino di com'era la chiesa. E aggiunse: «Fa bene pregare ogni tanto.»
Fino all'ora di mangiare le signore si limitarono a mostrarsi gentili con lei, per accrescere la sua fiducia e la sua arrendevolezza ai loro consigli.
Appena furono a tavola ebbero inizio le prime avvisaglie. Dapprincipio furono vaghi discorsi sull'abnegazione. Furono citati antichi esempi: Giuditta e Oloferne, poi - senza alcun motivo - Lucrezia e Sesto, Cleopatra che faceva passare nel suo letto tutti i generali nemici, riducendoli a esser servili come schiavi. Quindi sciorinarono una storia di fantasia, sbocciata nella loro mente di milionari ignoranti, in cui le cittadine di Roma, a Capua, facevano addormentare Annibale tra le loro braccia, e con lui i suoi luogotenenti e le falangi dei mercenari. Furono rammentate tutte le donne che fermarono i conquistatori, usando il proprio corpo come campo di battaglia, come mezzo di dominio, come arma; che riuscirono a vincere, con le loro eroiche carezze, esseri schifosi e odiati; che sacrificarono la loro castità, per vendetta o per abnegazione.
Si parlò anche, a mezze parole, di quell'inglese di grande casato, la quale s'era fatta inoculare una tremenda e contagiosa malattia per trasmetterla a Bonaparte, che fu salvato per miracolo, all'ora del fatale incontro, da un improvviso mancamento.
Tutti questi racconti furono fatti in modo corretto e moderato, ma talora vibrante d'un entusiasmo atto a suscitare l'emulazione.
Si poteva credere, alla fine, che il compito della donna, su questa terra, fosse un sacrificio continuo di se stessa, un perpetuo abbandonarsi ai capricci della soldataglia.
Le due suore, immerse in profondi pensieri, pareva che non sentissero nulla. Pallina non apriva bocca.
La lasciarono riflettere tutto il pomeriggio. Ma invece di chiamarla “signora”, come avevano fatto fino ad allora, la chiamavano semplicemente “signorina” - e nessuno sapeva bene perché - come se avessero voluto farle scendere un gradino della stima che ella aveva raggiunto, farle sentire la vergogna della sua posizione.
Mentre stavano servendo la minestra, apparve Follenvie, e ripeté la frase del giorno prima: «L'ufficiale prussiano fa chiedere alla signorina Elisabeth Rousset se non ha ancora cambiato idea.»
Pallina rispose seccamente: «Nossignore.»
Durante la cena la coalizione s'indebolì. Loiseau si fece sfuggire alcune frasi infelici. Ognuno si dava un gran da fare per trovar nuovi esempi, e non trovava nulla, quando la contessa, forse senza neanche pensarci, e per il vago bisogno di fare un omaggio alla Religione, interrogò la suora più anziana sui grandi fatti della vita dei santi. Molti hanno compiuto delle azioni che ai nostri occhi apparirebbero come delitti, ma la Chiesa assolve senza difficoltà questi misfatti, quando son compiuti per la gloria di Dio, o per il bene del prossimo. Era una potente argomentazione, e la contessa ne approfittò. Così, fosse a causa di quelle tacite intese o nascoste compiacenze di cui è maestro chiunque indossi un abito ecclesiastico, fosse semplicemente a causa d'una felice mancanza d'intelligenza, o d'una favorevole stupidità, la vecchia suora portò un grandissimo aiuto alla cospirazione. Credevano che fosse timida, e si rivelò ardita, verbosa, violenta. Costei non era vincolata dalle cautele della casistica; la sua dottrina era simile a una sbarra di ferro; la sua fede non aveva mai esitazioni, la sua coscienza non aveva scrupolo alcuno. Trovava semplice il sacrificio d'Abramo perché non avrebbe esitato a uccidere suo padre e sua madre se glielo avessero ordinato dall'alto; secondo lei nulla poteva dispiacere al Signore, quando l'intenzione fosse buona. La contessa, profittando dell'autorità sacra dell'inattesa complice, le fece fare una specie di edificante parafrasi di quest'assioma della morale: “Il fine giustifica i mezzi”.
Le chiedeva: «Così, sorella, pensate che Dio accetti ogni mezzo, e perdoni qualunque azione, quando il motivo sia puro?»
«Chi potrebbe metterlo in dubbio, signora? Una azione in sé riprovevole spesso diventa meritoria, perché è bene ispirata.»
Andarono avanti di questo passo, mettendo in chiaro i voleri di Dio, prevedendo le sue decisioni, costringendolo a interessarsi di cose, che, a dir la verità, non lo riguardavano affatto.
E tutti questi discorsi erano involuti, misurati, abili. Eppure ogni parola della santa donna con la cuffia faceva breccia nell'indignata resistenza della cortigiana. Poi la conversazione si sviò un poco, e la donna col rosario parlò delle case del suo ordine, della sua superiora, di se stessa, e della sua graziosa vicina, la cara suora Saint Nicéphore. Le avevano richieste da Le Havre per curare, negli ospedali, centinaia di soldati colpiti dal vaiolo. Dipinse quei miseri, descrisse la loro malattia. Così, intanto ch'erano ferme per strada a causa d'un capriccio di quel prussiano, potevano morire tantissimi francesi che, forse, esse avrebbero potuto salvare. Curare i soldati era proprio la sua specialità: era stata in Crimea, in Italia, in Austria, e raccontando le sue campagne si rivelò all'improvviso come una di quelle religiose battagliere, che sembran fatte apposta per seguire gli accampamenti, per raccogliere i feriti nella mischia e che riescono, meglio dei capi, a tenere a freno con una parola sola i vecchi soldati indisciplinati. Una vera e propria suora Rataplan il cui viso straziato, crivellato d'innumerevoli buchi, sembrava raffigurare le devastazioni della guerra.
Nessuno aggiunse una parola a quanto ella aveva detto, tanto l'effetto parve eccellente. Dopo aver finito di mangiare ognuno risalì alla svelta in camera sua, riscendendo la mattina dopo, assai tardi.
Desinarono tranquillamente, dando tempo al seme piantato il giorno prima di germogliare e di dare i suoi frutti.
La contessa propose di fare una passeggiata, nel pomeriggio; e il conte, com'era stato stabilito, prese sottobraccio Pallina, restando discosto dagli altri, con lei.
Le parlò col tono familiare, paterno e un po' altero che gli uomini posati usano con le ragazze facili, chiamandola “mia cara bambina”, trattandola dall'alto della sua posizione sociale della sua indiscussa onorabilità.
Andò subito al sodo della questione: «Allora, preferite lasciarci qui, esposti - come voi stessa, del resto - alle violenze che seguirebbero una sconfitta dei prussiani; piuttosto che accordare uno di quei favori, che avete conceduto così spesso, in vita vostra?»
Pallina non rispose.
Egli seppe essere buono, ragionevole, sentimentale. Seppe restare “il signor conte”, ma mostrandosi, all'occorrenza, galante, complimentoso, insomma amabile. Esaltò il servigio ch'ella avrebbe reso loro, parlò della loro riconoscenza; poi, all'improvviso, dandole allegramente del tu: «Mia cara, pensa che potrà vantarsi d'aver goduto una ragazza così carina, come non ce ne son molte al suo paese.»
Pallina non rispose, e raggiunse il gruppo.
Appena furono rientrati andò in camera sua e non si fece più vedere. Gli altri erano assai inquieti. Cosa avrebbe fatto? Sarebbe stato un bell'imbarazzo, se avesse ancora resistito.