Loiseau, alzandosi dal suo posto, andò a parlar sottovoce con l'albergatore. L'omone rideva, tossiva, sputava: il suo ventre enorme sobbalzava di gioia alle spiritosaggini del suo vicino; e gli comprò sei barili di bordò per la primavera, quando i prussiani se ne sarebbero andati.
Appena finito di cenare, siccome i viaggiatori erano stanchi morti, se ne andarono a letto.
Intanto Loiseau, che era stato attento a tutto, fece mettere a letto sua moglie, e poi appoggiò alternativamente l'orecchio e l'occhio al buco della serratura per cercar di scoprire quelli che chiamava “i misteri del corridoio”.
In capo a un'ora sentì un fruscio, guardò meglio e vide Pallina, più grassoccia che mai nel suo accappatoio di lana turchina orlato di pizzo bianco. Aveva in mano una bugia, e andava verso la porta vetrata in fondo al corridoio. Accanto si socchiuse una porta, e quando dopo qualche minuto ella ritornò, Cornudet in maniche di camicia la seguì. Pareva che Pallina gli impedisse energicamente di entrare in camera. Purtroppo Loiseau non riusciva ad afferrare le parole, ma siccome i due alzavano la voce capì qualcosa. Cornudet insisteva con vivacità.
Diceva: «Su, non fate la stupida, cosa ve ne importa?»
Ella rispose in tono indignato: «No, caro mio, ci sono momenti in cui certe cose non si fanno; qui poi, sarebbe proprio vergognoso.»
Indubbiamente l'altro non capiva, e chiese il perché. La ragazza allora s'arrabbiò alzando di più la voce: «Perché? Non capite perché? Quando in casa, forse nella camera qui accanto, ci sono i prussiani?»
Egli tacque. Quella specie di patriottico pudore da sgualdrina che non si faceva toccare vicino al nemico, dovette ridestargli nel cuore la vacillante dignità, poiché limitandosi a darle un bacio, se ne tornò in camera sua in punta di piedi.
Loiseau, molto eccitato, lasciò il buco della serratura, fece un giro di danza per la camera, si mise il berretto da notte, alzò il lenzuolo sotto cui giaceva la dura carcassa della sua compagna, e la svegliò con un bacio, mormorando: «Mi vuoi bene, tesoro?»
Ormai la casa pareva addormentata. Ma poco dopo, in una direzione indeterminata, da un punto qualsiasi che poteva essere tanto la cantina quanto il solaio, si levò un russìo potente, uniforme, regolare, un rumore sordo e prolungato, con dei borbottii di caldaia sotto pressione: Follenvie dormiva.
Avevano deciso di ripartire la mattina seguente alle otto, e si ritrovarono tutti in cucina; ma la vettura stava solitaria in mezzo al cortile, con il mantice coperto di neve, senza cavalli né vetturale. Quest'ultimo fu cercato invano nella scuderia, nel magazzino, nella rimessa. Gli uomini uscirono, per andare a vedere se lo trovavano in paese. Si rincontrarono nella piazza, in fondo alla quale c'era la chiesa, e, ai lati, case basse dove si vedevano dei soldati prussiani. Il primo che videro stava sbucciando patate. Il secondo, più giù, stava lavando la bottega del barbiere. Un terzo, con un barbone fino agli occhi, abbracciava un bimbetto piangente e cercava di calmarlo cullandolo sulle ginocchia; le grosse contadine che avevano i mariti “al fronte”, indicavano a gesti, agli obbedienti vincitori, il lavoro che dovevan fare: spaccar la legna, versare il brodo sul pane affettato, macinare il caffè; ce n'era uno, perfino, che lavava la biancheria della sua ospite, una vecchia ormai incapace.
Il conte, stupefatto, interrogò il sacrestano che stava uscendo dal presbiterio.
Il vecchio bacchettone gli rispose: «Ah, quelli non son mica cattivi; si dice che non siano prussiani. Son di più su, non so bene di dove; e tutti hanno lasciato al paese moglie e figli; non si divertono a far la guerra, date retta. Son sicuro che lassù si fanno dei gran pianti, per questi uomini: e ci sarà gran miseria da loro, come da noi. Qui, per ora, non siamo tanto disgraziati, perché del male non ne fanno, e lavorano come se fossero a casa loro. Tra povera gente, signore, bisogna aiutarsi... La guerra la vogliono quelli che comandano...»
Cornudet, indignato dei cordiali rapporti stabilitisi tra vincitori e vinti, se ne andò, preferendo piuttosto chiudersi in albergo. Loiseau disse una frase spiritosa: «Stanno ripopolando.» Carré-Lamadon disse una frase grave: «Stanno riparando.»
E intanto il cocchiere non si trovava. Fu scoperto finalmente nel caffè del villaggio, fraternamente seduto allo stesso tavolino con l'attendente dell'ufficiale.
Il conte lo apostrofò: «Non vi era stato ordinato di attaccare i cavalli per le otto?»
«Sì, sì, ma dopo ho avuto un altro ordine.»
«Quale?»
«Di non attaccar più.»
«Chi vi ha dato quest'ordine?»
«Perdio! Il comandante prussiano.»
«Perché?»
«Che ne so io? Andate a domandarglielo. Mi hanno proibito di attaccare, e io non ho attaccato. Ecco tutto.»
«Ve lo ha detto proprio lui?»
«Nossignore, me l'ha detto l'albergatore da parte sua.»
«E quando è stato?»
«Ieri sera, quando me ne stavo andando a letto.»
I tre uomini tornarono in albergo assai inquieti.
Chiesero di Follenvie, ma la sguattera rispose che il padrone, per via dell'asma, non s'alzava mai prima delle dieci. Aveva categoricamente proibito che lo svegliassero prima, fuorché in caso d'incendio.
Vollero parlare con l'ufficiale, ma era proprio impossibile nonostante abitasse nell'albergo. Il solo Follenvie aveva l'autorizzazione di parlargli, quando si trattava di affari civili. Allora si misero ad aspettare. Le donne risalirono nelle loro camere, e cercarono d'ingannare l'attesa con dei nonnulla.
Cornudet si piazzò in cucina sotto l'alto camino, dove fiammeggiava un gran fuoco. Si fece portare un tavolino da caffè, una bottiglietta di birra, tirò fuori la pipa, che tra i democratici era tenuta in considerazione quanto lui stesso, come se, servendo Cornudet, avesse servito la patria anche lei. Era una magnifica pipa di schiuma, cotta in modo ammirevole, nera quanto i denti del suo proprietario, ma ben modellata, lucida, familiare in mano sua e che completava la sua fisionomia. E restò immobile, fissando lo sguardo ora sulle fiamme, ora sulla schiuma che coronava il bicchiere; ogni volta che beveva si passava con aria soddisfatta le dita lunghe e magre tra i capelli unti, e si asciugava i baffi orlati di schiuma.
Loiseau, col pretesto di sgranchirsi le gambe, andò in giro a vendere il suo vino ai negozianti del paese. Il conte e l'industriale cominciarono a parlare di politica. Facevano previsioni sull'avvenire della Francia: uno credeva negli Orléans, l'altro in uno sconosciuto salvatore, un eroe che sarebbe spuntato nel momento più tragico: forse un Du Guesclin, una Giovanna d'Arco; o un altro Napoleone? Ah, se il principe imperiale non fosse stato così giovane! Cornudet sorrideva, ascoltandoli, da uomo che sa bene cosa può riserbare il destino. L'odore della sua pipa riempiva la cucina.
Mentre suonavano le dieci comparve Follenvie. Fu subito interrogato; ma poté soltanto ripetere, per due o tre volte, e senza varianti, queste parole: «L'ufficiale m'ha detto così: “Signor Follenvie, dovete impedire, domani, che venga attaccata la carrozza di quei viaggiatori. Non debbono partire senza un mio ordine. Avete capito? Basta così”.»
Allora vollero parlare con l'ufficiale. Il conte gli fece mandare il suo biglietto da visita, nel quale Carré-Lamadon aggiunse il suo nome e tutti i suoi titoli. Il prussiano fece rispondere che avrebbe ammesso alla sua presenza i due uomini dopo aver mangiato, ossia verso l'una.
Le signore ridiscesero, e nonostante l'inquietudine, tutti mangiarono qualcosa. Pallina pareva che si sentisse male, ed era assai sconvolta.
Stavano finendo di bere il caffè, quando l'attendente venne a chiamare quei due signori.
Ad essi si unì Loiseau; tentarono di far venire anche Cornudet, per render più solenne l'ambasceria, ma questi dichiarò con fierezza che non voleva avere alcun rapporto coi tedeschi, e si rimise sotto il camino, ordinando un'altra birra.
I tre uomini salirono e furono fatti entrare nella più bella camera dell'albergo, dove l'ufficiale era sdraiato in una poltrona, coi piedi sul piano del caminetto, e stava fumando in una lunga pipa di porcellana, avvolto in una chiassosa vestaglia, rubata senza dubbio nella casa abbandonata di qualche borghese di cattivo gusto. Non si alzò, non li salutò, né li guardò. Era un magnifico campione della villania propria dei soldati vincitori.
Finalmente dopo qualche istante disse: «Cosa folete?»
Parlò il conte: «Vorremmo partire, signore.»
«No.»
«Potrei chiedervi il perché di questo rifiuto?»
«Perché non foglio.»
«Vi faccio rispettosamente osservare, signore, che il vostro generale in capo ci ha rilasciato un permesso fino a Dieppe; e credo che non abbiamo fatto nulla perché voi siate così severo.»
«Non foglio, ecco tutto... Potete antarfene.»
I tre uscirono, dopo essersi inchinati.
Il pomeriggio fu disastroso. Non riuscivano a rendersi conto del capriccio del tedesco. E le supposizioni più strampalate turbinavano nei loro cervelli. Stavano tutti in cucina, discutendo senza sosta, immaginando cose inverosimili. Forse li volevano trattenere come ostaggi, ma a quale scopo? o farli prigionieri; o piuttosto chiedere un grosso riscatto? Quest'ultimo pensiero li terrorizzò. I più ricchi erano i più spaventati, e si vedevano costretti, per riscattar la vita, a versare sacchi pieni d'oro nelle mani di quell'insolente soldato. Si lambiccavano il cervello per inventare bugie passabili; per celare le loro ricchezze, per farsi credere poveri, poverissimi. Loiseau levò la catena dall'orologio, e la nascose in tasca. La notte che cadeva aumentava l'apprensione. Fu acceso il lume, e Loiseau, siccome mancavano due ore alla cena, propose di fare una partita a trentuno. Sarebbe stata una distrazione. Gli altri accettarono. Perfino Cornudet prese parte al gioco, dopo avere spento, per cortesia, la pipa.
Il conte mescolò, e distribuì le carte: Pallina fece trentuno alla prima; e presto l'interesse per la partita placò i timori che assillavano le menti. Cornudet s'accorse che i coniugi Loiseau erano d'accordo per imbrogliare.
Al momento d'andare a tavola ricomparve Follenvie, e disse, con la sua voce catarrosa: «L'ufficiale prussiano fa chiedere alla signorina Elisabeth Rousset se non ha ancora cambiato idea.»
Pallina stava ritta, immobile, pallida pallida, subito dopo fu presa da un tale accesso di rabbia che, diventata paonazza, non poteva neanche parlare. Alla fine scoppiò: «Direte a quel farabutto, a quello sporcaccione, a quella carogna di prussiano, che non vorrò mai; sentitemi bene: mai, mai, mai.»
Uscito che fu il grosso albergatore, tutti furono intorno a Pallina, interrogandola, invitandola a spiegare il mistero. Dapprima ella cercò di resistere, ma poi, trascinata dall'esasperazione, esclamò: «Cosa vuole?... cosa vuole? Vuol venire a letto con me!»
L'indignazione fu così viva che la frase non scandalizzò nessuno. Cornudet spezzò il bicchiere, sbattendolo con forza sulla tavola. Si levò un vocio di riprovazione, contro l'ignobile soldataccio, un urlo di collera; e si sentirono tutti pronti a resistere, come se ad ognuno fosse stata chiesta una parte del sacrificio che si pretendeva dalla ragazza. Il conte dichiarò con disgusto che quella gente si comportava come gli antichi barbari. Le donne soprattutto manifestarono a Pallina una commiserazione energica e affettuosa. Le suore, che si facevano vedere soltanto all'ora dei pasti, avevano abbassato la testa, e non dicevano nulla.
Andarono a tavola, non appena si fu placato il primo slancio di furore, ma parlarono poco: pensavano.
Le signore si ritirarono di buon'ora; gli uomini, fumando, organizzarono una partita di écarté, invitando anche Follenvie, per poterlo abilmente interrogare sui mezzi da usare per vincere la resistenza dell'ufficiale. Ma egli non pensava che alle carte, non ascoltava, e ripeteva di continuo: «Attenti al gioco, signori, attenti.» Era così intento che si scordava di sputare, ed allora, a momenti, pareva che gli uscisse dal petto un suono d'organo. Il fischio dei suoi polmoni percorreva tutta la gamma dell'asma, dalle note gravi e profonde, fino al chioccolìo acuto dei galletti che si sforzano di cantare.
Rifiutò perfino di salire, quando sua moglie, che cascava dal sonno, lo venne a cercare. Se ne andò sola, perché lei era “mattutina”, sempre in piedi col sole, mentre suo marito era “notturno”, sempre pronto a trascorrere la notte con gli amici. Egli le gridò: «Lasciami accanto al fuoco l'uovo sbattuto!» e si rimise a giocare. Dopo aver capito che non c'era da tirargli fuori nulla, gli altri dissero che era ora di smettere, e se ne andarono a letto.
Il giorno dopo si alzarono molto presto, con una vaga speranza, una maggior voglia di andarsene, e il terrore di avere ancora una giornata da passare in quell'orrido alberghetto.
Purtroppo i cavalli erano ancora nella scuderia, e il vetturale era sparito. Allora, tanto per far qualcosa, si misero a girare attorno alla diligenza. Il desinare fu triste: s'era prodotto una specie di raffreddamento nei riguardi di Pallina, perché la notte, che porta consiglio, aveva modificato alquanto le opinioni. Quasi quasi ora ce l'avevano con la ragazza, rimproverandola di non essere andata di nascosto dal prussiano, sì da riservare ai suoi compagni una bella sorpresa per il risveglio. Sarebbe stato tanto semplice! E d'altronde, chi l'avrebbe saputo? Poteva salvare le apparenze facendo dire all'ufficiale che aveva pietà dei suoi compagni angustiati. Cosa poteva contare, per lei?
Però nessuno ancora confessava questi pensieri.
Il pomeriggio, siccome s'annoiavano, il conte propose di fare una passeggiata nei dintorni del villaggio. Ognuno si coprì bene, e partirono tutti fuorché Cornudet, che preferì restare accanto al fuoco, e le due suore, che passavano le giornate in chiesa, o dal parroco.