Suonò l'ora della cena: l'attesero invano. Follenvie, che entrava in quel momento, annunciò che la signorina Rousset si sentiva indisposta, e perciò non sarebbe scesa. Tutte le orecchie si rizzarono.
Il conte, avvicinatosi all'albergatore, disse a bassa voce: «Ci siamo?»
«Sì.»
Per correttezza, non disse nulla ai suoi compagni e si limitò semplicemente a fare un leggero cenno col capo. Subito da tutti i petti uscì un gran sospiro di sollievo, i visi divennero allegri. Loiseau gridò: «Perdindirindina! p**o lo sciampagna, se qui ce n'è!» e la signora Loiseau si sentì mancare, quando il padrone tornò con quattro bottiglie in mano. Di colpo tutti divennero chiacchieroni, chiassosi. Una gioia vivace riempiva i cuori. Il conte parve accorgersi che la signora Carré-Lamadon era affascinante, l'industriale fece dei complimenti alla contessa. La conversazione divenne brillante, allegra, spiritosa.
All'improvviso Loiseau, col viso pieno di ansia, alzò il braccio gridando: «Silenzio!» Tutti tacquero sorpresi, quasi spaventati. Allora egli tese l'orecchio e chiedendo silenzio con le mani, alzò gli occhi al soffitto, si rimise ad ascoltare e soggiunse con voce normale: «Rassicuratevi, tutto va bene.»
Lì per lì non capirono, poi sorrisero.
Dopo un quarto d'ora ricominciò lo stesso scherzo, e lo ripeté spesso nel corso della serata; fingeva di chiamare qualcuno al piano di sopra, gli dava dei consigli a doppio senso, germogliati nella sua fantasia di commesso viaggiatore. Ogni tanto, assumendo un'aria triste, sospirava: «Povera figliola...» oppure mormorava tra i denti, con rabbia: «Farabutto d'un prussiano!» Oppure, proprio quando nessuno ci pensava, esclamava più volte, con voce vibrante: «Basta! basta!» aggiungendo, come se parlasse a se stesso: «Purché riusciamo a rivederla; non vorrei che quel miserabile la facesse morire!»
Nonostante fossero spiritosaggini di bassa lega, tutti si divertivano e nessuno si sentiva offeso, poiché l'indignazione - come ogni altra cosa - dipende dall'ambiente; l'atmosfera che a poco a poco era venuta creandosi attorno a loro era carica di pensieri licenziosi.
Alle frutta, anche le donne fecero spiritose e misurate allusioni. Gli sguardi brillavano: avevano bevuto molto. Il conte, che anche oltrepassando i limiti sapeva conservare una gravità contegnosa, fece un paragone, molto apprezzato, sullo sciogliersi delle nevi al polo, e la gioia dei naufraghi i quali vedono aprirsi una strada verso il sud.
Loiseau, ormai sfrenato, s'alzò con una coppa di sciampagna in mano: «Bevo alla nostra liberazione!» Tutti si alzarono, acclamando. Perfino le suore, incitate dalle signore, acconsentirono a bagnare le labbra nel vino spumante che non avevano mai assaggiato. Dissero che sembrava limonata gassosa, però più delicata.
Loiseau ricapitolò i fatti.
«è una disgrazia non avere un pianoforte, si potrebbe fare una quadriglia.»
Cornudet non aveva aperto bocca, né fatto un gesto; sembrava sprofondato in gravissimi pensieri e ogni tanto si tirava furiosamente quel suo barbone come se volesse farlo diventar più lungo. Finché, verso mezzanotte, al momento di separarsi, Loiseau un po' titubante gli diede un colpetto sulla pancia e disse barbugliando: «Non avete voglia di scherzare stasera, cittadino? Non dite nulla?» Allora Cornudet rialzò bruscamente la testa e gettando uno sguardo vivido e terribile sulla brigata: «Ve lo dico a tutti: avete commesso un'infamia!» Si alzò, raggiunse la porta, ripetendo ancora: «Un'infamia!» e scomparve.
Dapprima questa frase raggelò tutti. Loiseau, interdetto, era rimasto a bocca aperta; ma si riprese e all'improvviso esclamo, torcendosi dalle risa: «Vi scoprite troppo, caro mio, vi scoprite troppo...» Siccome non capivano raccontò i “misteri del corridoio”. Risorse un'allegria sfrenata. Le signore si divertivano come pazze. Il conte e Carré-Lamadon piangevano, dal ridere. Non riuscivano a crederci.
«Come? siete sicuro? voleva...»
«Vi dico che l'ho visto...»
«Perché c'era il prussiano nella camera accanto...»
«Possibile?»
«Ve lo giuro.»
Il conte non ne poteva più. L'industriale si reggeva la pancia con le mani. Loiseau seguitò: «Così, capite, stasera la storia non lo ha fatto ridere, proprio per niente.»
E ricominciarono a ridere tutti e tre fino a non farcela più. Si lasciarono ridendo ancora. Ma la signora Loiseau, che era come le ortiche, fece osservare a suo marito, quando stavano per mettersi a letto, che “quella strega” della giovane Carré-Lamadon per tutta la sera non aveva fatto che ridere controvoglia: «Le donne, sai, quando hanno un debole per le uniformi, gliene importa poco che si tratti di francesi o di prussiani. Mi domando e dico, Signore Iddio, se non è una cosa da far rivoltare!»
Tutta la notte nel corridoio oscuro si sentirono come dei fremiti, dei lievi rumori, appena distinguibili, simili a soffi, scalpiccio di piedi nudi, impercettibili scricchiolii.
Certo tutti s'addormentarono tardissimo, perché sotto le porte trasparirono per parecchio tempo dei fili di luce. Lo sciampagna fa questo effetto; dicono che guasti il sonno.
Il giorno dopo un chiaro sole invernale rendeva abbagliante la neve. La diligenza, finalmente pronta, aspettava davanti alla porta; uno stormo di piccioni bianchi, dagli occhi rosa macchiati al centro da un punto nero, impettiti sotto l'imbottitura delle piume, passeggiavano con dignità tra le gambe dei sei cavalli sparpagliandone lo sterco fumante dove cercavano il loro nutrimento.
Il cocchiere, avvolto nella pelliccia di montone, si fumava la pipa, seduto al suo posto, intanto che i viaggiatori, raggianti, si facevano incartare le provviste per il viaggio.
Mancava soltanto Pallina. Ella comparve.
Sembrava un po' agitata, vergognosa, andò timidamente verso i suoi compagni, i quali, tutti, con lo stesso movimento, si voltarono come se non l'avessero vista. Con sussiego il conte prese sua moglie sottobraccio allontanandola dall'impuro contatto.
La ragazza si fermò, sbalordita; e facendosi animo, mormorò umilmente: «Buongiorno, signora» alla moglie dell'industriale. Costei fece soltanto un salutino impertinente con la testa, accompagnandolo con un'occhiata di donna perbene oltraggiata. Pareva che tutti avessero da fare, e le stavano lontani come se avesse le gonnelle appestate. Poi si precipitarono in carrozza, ed ella entrò sola, per ultima, rioccupando in silenzio il suo vecchio posto.
Sembrava che non la vedessero, che non la conoscessero, ma la signora Loiseau sogguardandola indignata, da lontano, disse al marito, a mezza voce: «Per fortuna non sto accanto a lei.»
La pesante vettura si scosse, e il viaggio ricominciò.
Dapprima nessuno parlò. Pallina non aveva il coraggio di alzar gli occhi. Era furiosa contro i suoi vicini, e al tempo stesso umiliata per aver ceduto, si sentiva insozzata dai baci del prussiano fra le braccia del quale l'avevano gettata, ipocritamente.
La contessa, voltandosi verso la signora Carré-Lamadon, ruppe l'imbarazzante silenzio.
«Conoscete, mi pare, la signora D'Étrelles?»
«Sì, è una mia amica.»
«Che donna incantevole!»
«Affascinante! Una natura veramente eletta; è assai colta, e artista fino alla cima dei capelli; canta in modo insuperabile, e disegna alla perfezione.»
L'industriale discuteva con il conte e tra il tintinnio dei vetri ogni tanto venivan fuori parole come: «Cedole... scadenza... premio... a termine.»
Loiseau, che aveva sgraffignato all'albergo il vecchio mazzo di carte, unte per i cinque anni di uso sulle tavole mal pulite, giocava a briscola con sua moglie.
Le suore si tolsero dalla cintura il lungo rosario che vi pendeva, si fecero insieme il segno della croce, e all'improvviso le loro labbra cominciarono a muoversi con gran rapidità, accelerando sempre più, quasi a precipizio, quel loro vago mormorio, come per una corsa d'oremus; ogni tanto baciavano una medaglia, si segnavano un'altra volta e ricominciavano il loro borbottio rapido e continuo.
Cornudet, immobile, pensava.
Dopo tre ore che erano in strada, Loiseau raccattò le carte dicendo: «Ho fame.»
Sua moglie prese un pacchettino legato con lo spago, e ne trasse fuori un pezzo di vitello freddo. Lo tagliò ammodo, in pezzettini regolari, e tutti e due si misero a mangiare.
«Se facessimo lo stesso anche noi?» disse la contessa. I Carré-Lamadon e il conte erano d'accordo, e allora furono scartati gli involti. In uno di quei recipienti ovali che hanno sul coperchio una lepre di ceramica, per indicare che sotto c'è un pasticcio di lepre, c'erano vivande succulente, bianchi fiumi di lardo che attraversavano la carne scura della cacciagione, insieme ad altre carni finemente macinate. Un bel pezzo di groviera ch'era stato incartato in un giornale, recava stampato sulla polpa grassa: “cronaca”.
Le suore tirarono fuori un pezzo di salame odoroso d'aglio; e Cornudet infilando insieme le mani nei tasconi del suo cappotto trasse da una quattro uova sode, e dall'altra un cantuccio di pane. Levò il guscio alle uova, gettandolo ai suoi piedi, fra la paglia, e le mangiò a morsi facendo cadere sulla sua gran barba dei pezzetti di tuorlo che parevano stelle, perdute lì in mezzo.
Pallina si era levata dal letto in fretta, sconvolta, e non aveva pensato a portarsi qualcosa: esasperata, fremente di rabbia, guardava quella gente che mangiava tranquillamente. Fu presa dapprima da una collera furibonda e aprì la bocca per gridare a tutti il fatto loro col torrente d'ingiurie che le saliva alle labbra; ma era così fuori di sé che non riusciva a parlare.
Nessuno la guardava, o pensava a lei. Ella si sentiva soffocata dal disprezzo di quegli onesti cialtroni che prima l'avevano sacrificata, e poi respinta come una cosa sudicia e inutile. Ripensò al suo bel paniere pieno di cose buone che avevano ingordamente mangiato, ai suoi polli lustri di gelatina, ai pasticci, alle pere, alle quattro bottiglie di bordò; il suo furore svanì subito come una corda troppo tesa che si spezzi, e si sentì vicina a piangere. Fece sforzi terribili, s'irrigidì, ingoiò i singhiozzi come fanno i bambini, ma le lacrime salivano, luccicavano sull'orlo delle palpebre, e presto due lacrimoni, staccandosi dagli occhi, le rotolarono lentamente sulle guance. Altre le seguirono, più rapide, colando come le gocce d'acqua che sgorgano dalla roccia e caddero una dopo l'altra sul suo seno ricolmo.
La contessa se ne accorse e la indicò a suo marito con un segno. Questi scrollò le spalle, come per dire: «Non ci posso fare nulla, non è colpa mia.» La signora Loiseau sorrise silenziosa e trionfante, mormorando: «Piange sulla sua vergogna.»
Le suore avevano ricominciato a pregare, dopo aver riposto nel paniere l'avanzo del salame.
Cornudet, che stava digerendo le uova, stese le sue lunghe gambe sotto il sedile di faccia, rovesciò il capo, incrociò le braccia, sorrise come chi ha avuto una buona idea e cominciò a fischiare la Marsigliese.
I visi di tutti si oscurarono. La canzone popolare di certo non era gradita ai suoi vicini. S'innervosirono, irritati e pronti a urlare come cani che sentono suonare un organino. Egli se ne accorse e non si fermò più. Ogni tanto cantarellava anche le parole:
Amour sacré de la patrie,
Conduis, soutiens, nos bras vengeurs,
Liberté, liberté chérie,
Combats avec tes défenseurs!
La vettura correva più lesta, la neve era più dura; e fino a Dieppe, per tutte le lunghe e tetre ore del viaggio, tra gli scossoni della strada, al crepuscolo e poi nella profonda oscurità che sopravvenne, egli continuò con feroce ostinazione il suo fischio vendicatore e monotono, obbligando le menti stanche ed esasperate a seguire il canto da cima a fondo, a ricordarsi ogni parola, applicandola a ciascuna battuta.
Pallina seguitava a piangere; talora un singhiozzo che non era riuscita a trattenere scivolava tra una strofa e l'altra, nelle tenebre.