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Tutto per una ragazza "facile"

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Blurb

Lila si è trovata una strana professione: fa recensioni piccanti su You Tube. D"altronde nell"area di New York, per una ragazza laureata da poco in giornalismo non ci sono molte opportunità di lavoro stipendiate decentemente... e il suo canale ha moltissimi follower.

Un giorno come tanti, in un"estate soffocante come solo a Brooklyn, il suo pigrissimo gatto decide di fuggire e di restare intrappolato su un albero. Lila lo insegue ancora vestita da casa, una vicina impicciona chiama i vigili del fuoco e queste sono le imbarazzanti circostanze in cui incontra Jackson, un uomo che sembra scappato da una pubblicità di intimo maschile. La sua amica Sally lo definisce all"istante "un manzo esagerato", ma Jackson non è solo questo: il suo matrimonio è agli sgoccioli e ha paura di come potrebbe prendere un divorzio sua figlia di sette anni. In un momento del genere le donne proprio non gli interessano, ma Lila ha qualcosa di diverso, qualcosa che lo attrae che lo voglia o meno.

E non conta nulla che lei non abbia nessuna intenzione di avere a che fare con un uomo ancora formalmente sposato, non conta neppure che lui non stia cercando una relazione... quando la scintilla scocca è difficile ignorarla. Nonostante i problemi, i sensi di colpa e il cattivo tempismo.

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CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

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"«Che manzo esagerato» commentò Sally mentre lui si allontanava, a voce bassa per non farsi sentire.

Mentre ognuna delle donne in piedi attorno all’albero – e di sicuro anche qualche uomo – si scioglieva nella sua personale nuvoletta di endorfine, il pompiere moro saltò sul camion e iniziò ad arrampicarsi sulla scala. Il gatto George lo guardò con profondo sospetto e si voltò per mostrargli il suo lato B. O, più probabilmente, per cercare una via di fuga che gli risparmiasse l’umiliazione di essere preso in braccio da uno sconosciuto.

Non ne trovò e il pompiere lo sollevò delicatamente, tenendolo nell’incavo di un braccio come un pupo peloso e dagli occhi a fessura. George se ne restò buono.

Il suo salvatore ridiscese la scala tenendosi con una mano sola, saltò giù dal camion e tornò verso di me. Non so perché, ma il tempo sembrò rallentare. Okay, magari lo so anche, perché.

Diciamo che mentre George mostrava a tutti il suo lato B peloso, il suo pubblico si era un po’ distratto guardando il lato B del pompiere. Era un ottimo lato B.

«Ecco qua l’arrampicatore» annunciò lui, con un sorriso divertito.

Si avvicinò per farmi prendere George, il quale pensò bene di aggrapparsi al suo braccio con le unghie.

Chiusi gli occhi e sospirai, mortificata.

«Se potesse staccarlo...» disse lui.

Staccai entrambe le zampette di George dai bicipiti del pompiere.

«Mi dispiace davvero moltissimo, mi creda».

Lui si guardò il braccio. «Nessun danno».

Era parecchio più alto di me e per passarmi George si sporse sopra la mia spalla destra. Sentii una goccia cadermi su una clavicola e poi scivolare giù, tra i miei seni, e mi resi conto che era una goccia del suo sudore.

Presi il gatto. Il pompiere mi sembrò imbarazzato.

«Mi... dispiace» borbottò."

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1. Lila
1. Lila Ho un gatto, George. Una bestia indolente, pigra, quasi una pianta da interno. È per metà un Blu di Russia, per un quarto un Americano a pelo corto, mentre l’altro quarto è ignoto. La metà Blu di Russia viene dalla mamma di George, Princess, una gattona aristocratica dalla testa tonda e dal sedere pesante che passava i pomeriggi sul davanzale della finestra di Sally – che sta dall’altro lato della strada in una townhouse simile alla mia ed è un po’ la mia migliore amica – leccandosi il pelo e facendo la superiore. Finché un giorno non è passato di lì Oscar, il gatto di quartiere, ha rovesciato la nobildonna sull’erba e hanno avuto un amplesso clamoroso, una tenzone i cui miagolii si sono sentiti nel raggio di tre isolati. Finita la passione, Oscar se n’è andato con l’aria un po’ assonnata e un po’ indifferente che hanno quasi tutti i maschi dopo la copula, mentre Princess ha ripreso a leccarsi come nulla fosse. Ha avuto tre gattini, tre bastardelli dalla testa tonda come la sua, e uno è finito a casa mia. Cinque anni più tardi, George aveva raggiunto la considerevole stazza di sette chili. Non era grasso, non esattamente, perché era anche alto e lungo, ma non era di sicuro una silfide. Come sua madre, passava la maggior parte del tempo sdraiato da qualche parte. Quando la mattina aprivo la porta per ritirare il latte, di solito non muoveva un muscolo. Tranne quella mattina. +++ Quella mattina andai a ritirare il latte ancora in tenuta da casa: shorts da ginnastica, canottiera senza reggiseno e infradito di plastica. In quel periodo Brooklyn era una specie di forno e l’aria era calda anche al mattino – per non parlare della notte. Le notti le passavo sudando fuori dalle lenzuola, accendendo l’aria condizionata e poi spegnendola quando il sudore mi si congelava addosso. Non avevo requie. Dormivo malissimo da una settimana. Ma stavo dicendo... quella mattina andai ad aprire la porta e George si catapultò fuori. Un proiettile di pelo grigiastro e nero, uno scatto pazzesco. Per un paio di secondi restai solo stupita, poi gli corsi dietro. Ancora non so che cosa fosse successo. Forse lo scoppio di un motore o qualcosa nell’aria. Nulla che a un non-felino saltasse all’occhio, in ogni caso. A ritrovarlo non ci misi molto, anche perché un bambino me lo indicò quasi subito ridendo. George era sul ramo più alto di uno degli alberi che fiancheggiavano la mia strada. Era acciambellato e guardava giù con timore, come se si chiedesse lui per primo come diavolo aveva fatto ad arrivare lì. «Oddio, George, vieni giù!» gridai. Lui emise un miagolio basso che suonò tanto come un “ops”. Non volevo credere che fosse davvero intrappolato su un albero come i gatti dei libri per bambini, quindi rientrai in casa e presi le sue crocchette speciali, l’unico cibo che lo smuovesse dalla sua abituale pigrizia felina. Non so che cosa ci sia davvero dentro, ma appena sente il rumore dei confetti ripieni che cozzano contro le pareti della scatola, di solito George arriva di corsa. Quella volta si alzò in piedi, guardò giù con aria preoccupata e miagolò. Fece un paio di passetti in avanti, lungo quel ramo che mi sembrava sempre più sottile, poi si ri-accucciò. La sua espressione diceva: “Oh, no, tra me e quelle crocchette c’è la morte”. Dovete capire che George è un gatto da appartamento. Il posto più alto su cui era mai stato era il mobile della cucina. Non va a caccia, se escludiamo qualche mosca, e non è un grande arrampicatore. Se avesse il pollice opponibile ordinerebbe la cena da Mr. Sushi. A tre o quattro metri di altezza, quindi, senza niente su cui saltare in tutta sicurezza, l’unica cosa che gli venisse in mente di fare era guardare giù. L’unica cosa che venisse in mente di fare a me, d’altro canto, era guardare su, ordinargli di scendere e agitare le braccia nell’aria come un’isterica. Il ramo era troppo in alto perché riuscissi a raggiungerlo con una normale scala da muratore e non sapevo proprio dove battere la testa. Non volevo chiamare i pompieri e fare la figura dell’idiota. Nel frattempo attorno all’albero si era radunata una piccola folla. C’era la signora Wilkinson, della grande casa d’angolo, il signor Wang della lavanderia, diversi bambini dei dintorni, tra cui i fratelli Romano, dai capelli quasi arancioni, e Danny, il debosciato che vive accanto a Sally. La nostra è una tipica strada di Brooklyn. Le case sono townhouse di mattoni bruni, indipendenti, ma attaccate le une alle altre a cinque o a sei. Delle brevi scale di pochi gradini portano ai portoncini verdi e tra le case e il marciapiedi scorre una stretta striscia erbosa. I marciapiedi sono larghi un metro e mezzo, non di più, poi c’è un’altra striscia d’erba, più larga, con piantati degli alberi a intervalli regolari. Credo che siano platani. Oltre gli alberi ci sono dei parcheggi, una strada a due corsie e una replica quasi perfetta, e speculare, delle townhouse sul lato destro della via. Questo per dire che, no, non eravamo nella giungla e non capivo come a George, sempre così prudente, fosse venuto in mente di arrampicarsi fin lassù. «Lila!» sentii chiamare, quando l’emergenza era in corso da almeno dieci minuti. Sally stava correndo verso di me sui suoi chilometrici tacchi a spillo, una cartelletta sottobraccio e l’espressione spiritata. Guardai oltre la strada e vidi la sua macchina piantata in mezzo alla corsia opposta. «Ma che cosa succede? Che cosa ci fa George là sopra?». Si era sempre considerata un po’ la nonna del mio gatto, doveva essere per questo che, invece di andare al lavoro, stava bloccando il traffico per occuparsi dell’emergenza albero. «Non lo so come ci sia salito...» «L’importante è che non cerchi di buttarsi!». Lo guardai. Era immobile, gli occhi socchiusi contro il riverbero del sole. «Ti sembra che stia per buttarsi?». «In effetti no». «Solo che non so che cosa fare. Cioè, dovrò restare qua sotto per due giorni aspettando che trovi il modo di scendere?». Più o meno in quel momento arrivò un camion dei pompieri. Li guardai stralunata. «Li ho chiamati io» spiegò la signora Wilkinson, annuendo compiaciuta. Sentii che stavo arrossendo. Per prima cosa... be’, il mio gatto era salito su un albero e non riusciva più a scendere: chi era la padrona che gli aveva permesso di farlo? E anche se tutti sanno che tra un gatto e un essere umano di solito il padrone è il primo, e che non c’è assolutamente modo di impedire a un felino di fare un po’ quello che vuole, mi sentii lo stesso inadeguata. Ma quello, in fondo, era il meno. Ero lì, in mezzo alla strada, in infradito, shorts e canottiera. Nient’altro. E avevo i capelli ancora tutti ingarbugliati, la faccia struccata e l’ascella sudaticcia. E dal camion dei pompieri stavano scendendo due modelli di Dolce&Gabbana travestiti da vigili del fuoco. +++ «Il gatto è il suo» spiattellò Sally, come primissima cosa. Sul momento non riuscii a reagire. Li guardai come un’imbecille, con la mascella mezza-aperta, a metà strada tra l’imbarazzo più nero e la tempesta ormonale. Portavano delle uniformi da pompieri, quelle uniformi grigio scuro con delle strisce giallo fluo, avete presente? Ma, dato che c’era da svenire dal caldo, non avevano la giacca, solo delle t-shirt nere piuttosto aderenti con scritto sopra F.D.N.Y. – e sotto dei toraci snelli e scolpiti in modo a dir poco oltraggioso. Entrambi erano alti, con le gambe lunghe, le spalle larghe, e delle facce dalla barba mal-rasata, e delle fossette sul mento... e uno di loro aveva i capelli scuri, o così sembrava dato l’elmetto, l’altro più chiari e il naso un po’ piatto... e, niente, non so che cosa ci facessero nei vigili del fuoco, quando avrebbero potuto indossare biancheria intima per mestiere. Ovviamente tutto quello splendore mascolino si palesava mentre io ero in ciabatte, sudaticcia, e con un gatto di sette chili incastrato su un albero. Almeno riguardo al “sudaticcia”, comunque, ero in buona compagnia. Eravamo tutti sudaticci, compresi loro. «Ehm, sì... George, cioè il gatto...». Sospirai e mi dissi di non farla tanto tragica. «Insomma, è salito lassù, non si sa come. Sono sicura che avete cose più importanti da fare e tutto, ma dato che ormai vi hanno chiamato...» Uno dei due, quello moro, mi lanciò un’occhiata bella approfondita, ma dalla sua espressione non capii quale fosse il verdetto. Se “tizia tutto sommato decente, incapace di accudire il proprio animale domestico” o “caso disperato di sciatta gattara inetta e disperata”. «Non si preoccupi, signora. Ci capitano almeno due o tre gatti al mese. Adesso glielo tiro giù». Ottimo: “signora”. Perfetto. «Grazie». Anche se poi ero sicura che chiamassero “signora” qualunque donna sopra i quindici anni, ecco. Io non ne avevo ancora trenta... loro dovevano averne pochi di più... ero sicura che se ci fossimo incontrati al pub non mi avrebbero chiamato “signora”. Il modello biondo-cenere risalì sul camion e manovrò in modo da sistemarlo abbastanza vicino all’albero. George seguì quei nuovi sviluppi con aria sospettosa. Sally, al contrario, mi tirò una gomitata. Sperai che nessuno l’avesse notata e mi voltai verso di lei. «Hai visto che roba?» mimò, solo con le labbra. Sospirai. «Già». Per inciso, lei era quella tutta business-like, con il tacco dieci, la camicetta slacciata ad arte e la gonna seria-ma-aderente. Lei era quella con i capelli acconciati e la faccia truccata. Era pure più alta di me e in quel momento la odiavo. Il modello moro si avvicinò. Aveva gli occhi blu e io pensai che, davvero, non avrebbe dovuto rubare il posto di lavoro a uno dei tanti ragazzi normali che non avevano altre carriere a disposizione. «Adesso salgo e recupero il suo gatto. Graffia?». Sbattei le palpebre. «George? No. Di solito si muove a stento dal divano. Non so che cosa gli sia preso stamattina». Mi rivolse un sorriso che esprimeva simpatia. Denti bianchi e dritti, è ovvio. Due fossette sulle guance che dovevano essere rughe in uno stadio molto iniziale. Sexy. «Non si preoccupi» ripeté. Poi tornò al camion e guidò il suo collega da terra mentre lui faceva salire la scala. «Che manzo esagerato» commentò Sally, a voce bassa per non farsi sentire. «Proprio vero» annuì la signora Wilkinson. «Li chiamo sempre se ho un problema». La guardai e abbozzai un sorrisetto. Doveva avere sessant’anni, ma suppongo che non sia mai troppo tardi per certe cose. Mentre ognuna delle donne in piedi attorno all’albero – e di sicuro anche qualche uomo – si scioglieva nella sua personale nuvoletta di endorfine, il pompiere moro saltò sul camion e iniziò ad arrampicarsi sulla scala. George lo guardò con profondo sospetto e si voltò per mostrargli il suo lato B. O, più probabilmente, per cercare una via di fuga che gli risparmiasse l’umiliazione di essere preso in braccio da uno sconosciuto. Non ne trovò e il pompiere lo sollevò delicatamente, tenendolo nell’incavo di un braccio come un pupo peloso e dagli occhi a fessura. George se ne restò buono. Il suo salvatore ridiscese la scala tenendosi con una mano sola, saltò giù dal camion e tornò verso di me. Non so perché, ma il tempo sembrò rallentare. Okay, magari lo so anche, perché. Diciamo che mentre George mostrava a tutti il suo lato B peloso il suo pubblico si era un po’ distratto guardando il lato B del pompiere. Era un ottimo lato B. «Ecco qua l’arrampicatore» annunciò il padrone del culetto sodo che avevamo tutti ammirato fino a quel momento, con un sorriso divertito. Si avvicinò per farmi prendere George, il quale pensò bene di aggrapparsi al suo braccio con le unghie. Chiusi gli occhi e sospirai, mortificata. «Se potesse staccarlo...» disse lui. George ha una sua speciale presa, una mossa da wrestler che ha perfezionato con gli anni. Ti pianta tutte le unghie nel braccio con cui lo tieni in modo da fare presa per saltare a terra. Di solito lo fa quando hai un maglione addosso, però. Lo fermai prima che saltasse, staccandogli entrambe le zampette dai bicipiti del pompiere. «Mi dispiace davvero moltissimo, mi creda». Lui si guardò il braccio. «Nessun danno». Era parecchio più alto di me e per passarmi George si sporse sopra la mia spalla destra. Sentii una goccia cadermi su una clavicola e poi scivolare giù, tra i miei seni, e mi resi conto che era una goccia del suo sudore. Presi il gatto. Il pompiere mi sembrò imbarazzato. «Mi... dispiace» borbottò. Decisi di far finta di non averlo notato. «Di che cosa? È stato fantastico. Grazie per il suo aiuto...» Feci un cenno nei confronti del collega. «...Del vostro aiuto, davvero». Lui mi rivolse un altro sorriso, mettendo in mostra i suoi denti bianchi e quella specie di fossette, e si portò due dita all’elmetto. «Dovere». Detto questo si allontanò e io seguii la sua figura slanciata tornare verso il camion. In tutto l’episodio delle unghie nel suo braccio e della goccia di sudore era durato solo qualche secondo. Mi si erano induriti i capezzoli.

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