2.-1

2050 Words
2. Onezime era un mondo a parte, questo Lauren l’aveva sempre saputo. Fin da quando, ragazzini, giocavano a superarne i confini come prova di coraggio – e lo facevano ben lontano da qualsiasi costruzione o area frequentata da esseri umani. Era un’immensa tenuta, delimitata dal fiume da un lato, da un’alta rete nel bosco dall’altro, dalla statale sul terzo e che si perdeva nelle paludi sul quarto. E i Blanchard... avevano di tutto, nel loro territorio: moli per i loro motoscafi, rimesse, depositi, una pista d’atterraggio per gli elicotteri... e ovviamente la grande villa. Fino a quella sera Lauren non l’aveva mai vista, ne aveva solo sentito parlare. Sapeva che si trattava di un edificio antico, della fine del ‘700, contornato da altri edifici più piccoli, ottocenteschi, che un tempo erano le stalle, gli alloggi degli schiavi e così via. Erano stati ristrutturati, come tutto il resto, e ora circondavano un grande giardino curato e una piscina rivestita di pietra. Era tutto magnifico. Ed era tutto illuminato a giorno da riflettori piazzati sugli alberi o sui tetti. Negli ultimi dieci minuti di viaggio lei e Gage non si erano più detti niente. Lauren poteva capire che temesse per la propria vita – e che fosse terrorizzato era chiaro – ma la loro relazione terminava quella sera. Gli voleva abbastanza bene da salvargli la buccia, ma non abbastanza da perdonargli la viltà. Scese dalla macchina senza salutarlo. Davvero non avevano più niente da dirsi. Era davanti a uno degli edifici “minori”, una grande costruzione di mattoncini rossi erosi dal tempo, con un fianco invaso dai rampicanti e un grande ingresso. Una cameriera uscì in quel momento e le ordinò di seguirla. Si voltò come se non dubitasse che avrebbe obbedito. Lauren le camminò dietro, dicendosi che sarebbe sopravvissuta. Che cos’era, in fondo? Una marchetta. Doveva (nel caso peggiore) scopare con un tizio e far finta che le piacesse. Poteva riuscirci, se il tizio in questione non pretendeva troppo. E, specialmente, poteva riuscirci, se non riuscirci voleva dire lasciarci le penne. Mentre lo pensava si stupì da sola della propria freddezza. Davvero poteva essere così tosta? Proprio lei? Ma la risposta che si dava, almeno in quel momento, era: sì, in fondo lo era e l’aveva sempre saputo. Certo... bisognava vedere come si sarebbe comportata alla prova dei fatti. Cercò di concentrarsi. La cameriera che stava seguendo era giovane e in uniforme. Ragazza graziosa, dallo sguardo un po’ sprezzante. Attorno a loro le stanze di una lussuosa residenza privata: un salone che sembrava uscito da un film storico, stanze piene di libri, salottini, camere senza uno scopo apparente... quel posto era enorme, e rispetto alla villa vera e propria non era nulla. La cameriera la portò al piano di sopra. Un altro atrio, poi un lungo corridoio tagliato da una grande porta a due ante. «Là in fondo. Il signore la aspetta». Lauren spinse un’anta della porta e si ripeté che sarebbe sopravvissuta. «Quaggiù» disse una voce. Era la voce di Rivet Blanchard e proveniva da oltre la porta in fondo al corridoio. Lauren seguì quella voce e oltrepassò la porta. L’ambiente in cui si trovò era una cabina armadio, la cabina armadio più gigantesca e accessoriata che Lauren avesse mai visto. Rivet era seduto su una delle tre poltrone di pelle bordeaux, le gambe accavallate e le braccia conserte. Quel pomeriggio indossava dei pantaloni sportivi e una giacca grigio chiaro, ma si era cambiato e ora portava un elegante completo nero a un petto, con sotto una camicia bianca e nessuna cravatta. I capelli scurissimi e lisci erano legati in una coda. Aveva il profilo dei Blanchard, ovviamente. Era come se la sua famiglia avesse marchiato ognuno di loro con un naso tagliente e un po’ aquilino, una fronte ampia e un viso lungo e angoloso. Un bel viso, in Rivet; un viso affascinante in sua sorella Solidele; un viso rapace e intimidente nel suo fratello maggiore Theothis. Con Solidele Rivet condivideva anche una struttura longilinea e l’alta statura, mentre al fratello assomigliava solo nelle spalle ampie. E aveva gli occhi e le labbra di un serpente, questa era una caratteristica solo sua. «La ragazza di Gage. O forse la ex, a questo punto» disse, con un sorrisino freddo. Lauren incrociò le braccia a sua volta, guardandolo senza rispondere. «Più arrabbiata che spaventata. Molto bene... davvero molto bene. Ora ti spiego che cosa mi serve. Come ti chiami?» Per un attimo Lauren pensò di non rispondergli, poi si disse di non tirare troppo la corda. «Lauren Conway». Rivet si alzò con un movimento felino e le girò attorno. «Vedi, Lauren, stasera vengono certi soci di mio fratello. Ho promesso loro una festa, della musica, uno spettacolo. Ho organizzato tutto, o meglio... be’, l’hanno organizzato per me, ma ora non c’entra. Queste persone si aspettano che abbia una signora sottobraccio. Non una troia, capisci... una compagna». Le rivolse uno sguardo divertito. Lauren aveva già visto quello sguardo e aveva capito che non prometteva niente di buono. «Sono completamente incapace di rapporti umani. La madre dei miei figli era una mezza minorata e persino lei è scappata via, alla fine. Ma per una sera tu puoi andare». Lauren lo guardò dalla testa ai piedi come lui aveva guardato lei, quel pomeriggio. Non dubitava che quello che le aveva detto fosse vero. In realtà ne sembrava quasi compiaciuto. Come se comprendesse la necessità sociale di fingere di avere dei legami, ma fosse in realtà felice di non riuscire ad averne. «Mi può spiegare che cosa si aspetta da me, signor Blanchard?» chiese, in tono misurato. Non le faceva più paura, non proprio. Era un serpente, non un cane rabbioso: non l’avrebbe uccisa, se non gliene avesse dato motivo. «Per prima cosa, ovviamente, metti da parte quel signor Blanchard. Puoi chiamarmi Rivet o anche Rive, al culmine della familiarità. Poi... è sufficiente che ti metti quello che scelgo per te e resti nei miei paraggi più o meno per tutta la sera, facendo finta di essere in confidenza con me, ma senza esagerare. D’altronde non puoi esagerare: non ci conosciamo». Su questo aveva ragione. «Inoltre... se anche tu fossi la mia compagna è ovvio che non ti parlerei di buona parte delle mie attività. Forza, spogliati». Lauren non si mosse. In parte lo fece perché non voleva spogliarsi davanti a lui, ma in parte lo fece per vedere le sue reazioni. Di nuovo si stupì per prima della propria freddezza... e avventatezza. Rivet rise. «Che cosa vuoi, un’assicurazione formale che non ti toccherò?» «Avrebbe valore?» osò chiedere lei. Lui rise di nuovo. «Certamente, ma non ho nessuna intenzione di dartela. Ti toccherò, ti bacerò e stanotte, quando quegli idioti se ne saranno andati, ti scoperò da dietro fino a togliermi ogni sfizio. Ma posso prometterti che non ti farò male... non sono per la sofferenza fisica». Lauren deglutì. In quanto all’essere chiaro era stato chiarissimo. «Poni... poni che l’ultima parte del tuo programma non mi stia molto bene... che cosa succede?» Lui sbuffò. «Oh, è probabile. Ho detto che non ti farò male, non che ti farò venire tre volte. Ora spogliati, su, da brava. Vediamo di darti una spolverata di classe». Lauren capì di non avere alternative. Aveva addosso i vestiti che portava al lavoro: pantaloni neri, camicia bianca e scarpe da ginnastica nere. Iniziò da quelle. Se le scalzò e le spinse da una parte con il piede. Poi i pantaloni, che lasciò su una poltrona. Poi la camicia. In completo intimo e calzini si voltò verso di lui. «Mmm, fammi pensare. Hai vinto un qualche concorso di bellezza, è vero? Anni fa». «Otto anni fa, ero una ragazzina». Lauren non era stupita che lui se ne ricordasse, ma addirittura che lo sapesse. Era stata la reginetta di Helouise l’ultimo anno delle superiori e aveva partecipato per il premio in denaro. Tra l’altro sospettava di aver anche vinto per il premio in denaro, nel senso che la giuria sapeva che lei e sua madre erano in difficoltà e aveva deciso di aiutarle. «Sì, giusto. Mi ricordo la voglia sul polpaccio. Eri quella con la mamma malata». Lauren lo guardò male, ma Rivet si limitò a scrollare le spalle. «Ho una buona memoria, ma oggi pomeriggio non mi ricordavo di te. Quello sguardo incazzato voleva dire che la mamma nel frattempo è morta?» Lei sentì una specie di groppo in gola. Se avesse potuto avrebbe sputato. «Anche la mia, eh. Le madri muoiono, prima o poi. Togliti quel completo deprimente, tesoro. Non ti salverai dal tuo destino facendo ammosciare l’uccello a chiunque venga l’idea di sbatterti». «Sincero sei sincero» sospirò lei. Si sganciò il reggiseno e lo posò sulla poltrona. Era un po’ sudaticcio e la cosa la mise a disagio più dello sguardo di lui. Prese fiato e si liberò anche degli slip. «Che disastro» sospirò Rivet. Lei lo fulminò con lo sguardo. «Non ho avuto il tempo di farmi la ceretta. E non riesco a credere che tu abbia anche il coraggio di lamentarti!» Lui ridacchiò. «Non hai tanta paura di morire, mh?» Lauren chiuse gli occhi. «Ho sempre avuto una linguaccia. Posso chiedere scusa, ma non saranno scuse sincere». «No, non mi importa». Si avvicinò. Lauren fece mezzo passo indietro. «Ferma». Si avvicinò ancora e le posò una mano tra le cosce. Lauren sentì una specie di conato risalirle dallo stomaco. Rivet la guardò in silenzio per alcuni secondi. Freddi occhi da rettile, chiari e dalle pupille buie come la notte. «È sgradevole, vero? Ma è doloroso?» «N-no» ammise lei. «Sarà così tutta la sera. Sgradevole, ma non dolorosa. Adesso ti farai una doccia veloce. Il tuo odore di sudore è... orribile ed eccitante. Lo elimineremo. Ti darò un profumo discreto, ti truccherai in modo discreto... poi ti vestirò come una bambola». «T-ti piace?» «No, mi annoia. Ma non ho alternative, perché sei una campagnola senza un grammo di gusto». Le diede una grattatina sui peli troppo cresciuti dell’inguine e Lauren desiderò intensamente che non lo facesse, che spostasse la mano e la lasciasse stare. Non si mosse, perché lui sapeva già che non le piaceva e la cosa lo lasciava indifferente. «Poi starai al mio fianco per qualche ora. Rideremo e scherzeremo. Faremo finta di avere una relazione da qualche mese. Niente di troppo elaborato: ti piaccio perché sono ricco e maschio, mi piaci perché sei una bella figa che se lo fa mettere dappertutto. Diamo un tocco di realismo: ti piace farti regalare cose costose, ti eccita sessualmente. Mmm... dunque. A parte questo... tu sei tu. Tua storia, tuo background. Non nominiamo il Croc, per carità. La mia donna non lavorerebbe in un posto come quello, si presume». «R-Rivet... la mano...» Lui le strinse gentilmente il sesso. Lo massaggiò delicatamente e Lauren sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime. «Poi torniamo qua... ti depilo fino a renderti liscia e indecente... ti lubrifico per bene e concludo la serata con qualcosa di piacevole. Tu farai finta di godere, io ti pagherò per il disturbo. Ti pagherò piuttosto bene. Ora... nel momento più brutto di tutti...» Le infilò un dito dentro la fichetta. Lauren non era eccitata, quindi fu un po’ fastidioso. Rivet le sfiorò il clitoride con il pollice con estrema delicatezza e Lauren si trovò a pensare che comunque il suo dito era sopportabile. «...Puoi rifiutarti di prestarti a una parte o all’altra del mio piano. Ma ci saranno delle conseguenze». «Q-quali?» Lui premette appena più forte sul suo clitoride. Lauren chiuse gli occhi e si disse che non era possibile. Non era gradevole, ma non era neppure più sgradevole come prima. «Se non mi fai da accompagnatrice licenzierò Gage in tronco». «P-posso farti da accompagnatrice. Che cosa... che cosa stai... facendo?» Rivet sfilò il dito dalla sua fica e le inumidì il clitoride con i suoi umori. Poi la penetrò di nuovo. «Giocherello con te. Amichevolmente. Per farti abituare. Non sei così contraria, in fondo. Ho incontrato donne davvero molto contrarie... non è il tuo caso. Tutta questa situazione... non ti fa troppa paura. In fondo ti eccita un po’. Molto in fondo, ma senti... ti stai scaldando. Non c’è niente di male, anch’io mi scaldo a comando, è una dote utile. Quindi? C’è qualcosa che ti rifiuti a priori di fare?»
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