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Quando Rivet Blanchard la usò per la prima volta non le fece male, al contrario di quel che Lauren aveva creduto. Si aspettava... be’, con precisione non lo sapeva. Non aveva mai visto l’interno della grande magione dei Blanchard e per quello che ne sapeva poteva anche essere piena di camere della tortura. Di certo ne aveva l’aspetto. E anche Rivet Blanchard aveva l’aspetto di uno che sa apprezzare una frusta ben intrecciata.
Niente di tutto questo.
La prima volta che il più giovane dei Blanchard decise di usarla le offrì da bere e la fece accomodare su un letto morbidissimo. La spogliò lentamente e si prese tutto il tempo del mondo per farla rilassare, poi per eccitarla, poi per portarla a desiderarlo follemente. La usò esattamente come voleva, prendendosi tutto quello che voleva, ma non le fece male. Anzi, tecnicamente la fece godere dall’inizio alla fine.
Fu solo più tardi che Lauren si rese conto che il modo in cui Rivet Blanchard ti feriva non aveva mai a che fare con il dolore fisico.
Helouise era un piccolo centro, piccolissimo. Era il più vicino a Onezime, la tenuta dei Blanchard che si estendeva fino nella palude.
La gente di Helouise era gente normale. C’erano coltivatori e costruttori, c’erano guide turistiche e ristoratori, c’erano operai, un notaio, un avvocato e un giornalista. C’era Lauren, che lavorava nella tavola calda lungo la via.
Nessuno di loro era un criminale, né faceva qualcosa di illegale per vivere. Be’, a parte Clay che cacciava gli alligatori per i turisti anche se era vietato. E Terry, che distillava robaccia che nessun ente federale si sarebbe mai sognato di approvare per la messa in commercio. O Marcelie, che si prostituiva nel retro del Dani’s, la bettola vicino alla palude che da quelle parti faceva le veci di un locale notturno.
In ogni caso... nessuno di loro era un criminale come i Blanchard, ecco.
La famiglia Blanchard aveva fatto il nido in quell’angolo di Louisiana quasi tre secoli prima. Aveva prosperato prima grazie alle piantagioni, poi vendendo schiavi, poi armi ai confederati, poi, alcool durante il proibizionismo, poi vendendo donne, droga, e altre armi. I Blanchard erano i criminali veri della zona, cioè di tutta quella parte di Louisiana, i criminali di alto profilo, con gli amici nei posti giusti, con le protezioni che servivano per non avere problemi. E con i soldi. Un sacco di soldi, cresciuti nei secoli.
Intendiamoci, di famiglie come loro ce n’erano sempre state dappertutto. Famiglie diventate ricche con attività illegali di vario tipo. Famiglie così vecchie da aver ripulito la propria reputazione. Gentiluomini del sud con il completo di lino bianco e un ampio portafogli azionario.
Ma i Blanchard erano diversi.
Per quante occasioni avessero avuto, non avevano mai voluto diventare una di quelle famiglie. Erano fuorilegge fino al midollo, niente poteva cambiare la loro natura.
Quali fossero con precisione i loro affari la gente di Helouise non lo sapeva. Niente che li riguardasse, dato che da loro la criminalità era un’altra cosa: erano i Clay, i Terry e le Marcelie. I Blanchard spostavano droga e armi, ammazzavano persone, corrompevano politici... niente a che vedere.
No, quello che la gente di Helouise faceva per i Blanchard per lo più era legale. Badava al giardino della loro villa, guidava le loro auto, puliva i loro pavimenti, preparava i loro pasti, aggiustava il loro tetto, o i loro motoscafi, o quello che bisognava aggiustare. Gli vendeva cibo e oggetti, gli vendeva forza lavoro ogni volta in cui serviva. E specialmente si faceva i fatti suoi.
Non era difficile, perché i Blanchard non si facevano vedere un granché in giro, ma non era nemmeno facilissimo.
Il vecchio, il patriarca, ormai era vecchio davvero e doveva andare in giro con una bombola dell’ossigeno. La moglie era morta da un pezzo, ma aveva una cameriera di una certa età a tenergli compagnia, una via di mezzo tra un’infermiera e una puttana. Brava donna, molto affezionata nonostante il carattere impossibile di lui, così si diceva.
Il maggiore, Theothis, era quello che teneva in mano le redini della famiglia, ora. Aveva superato i quarantacinque e aveva prodotto un paio di ragazzini con una tizia del nord che non metteva mai il naso fuori da Onezime. Neanche Theothis era molto socievole. Anzi, era una delle persone meno comunicative del mondo. Ma era puntuale nei pagamenti e non rompeva le palle, cosa che alla gente di Helouise piaceva molto.
La figlia di mezzo, Solidele, secondo tutti era una mezza mignotta. A quarantun anni aveva già divorziato tre volte e sulla sua spider nera c’era sempre un ragazzo diverso, gente di Baton Rouge o New Orleans. Li teneva per un po’, poi se ne liberava. Gran bella donna, in ogni caso, su questo la gente di Helouise era concorde.
In quanto al giovane Blanchard, il terzogenito, non era più giovane da un pezzo. A trentasette anni era il democratico della famiglia. Anche lui era sposato e divorziato, ma una volta soltanto. Lei era un’ex-reginetta di bellezza che aveva perso la sua dote principale. I figli, un ragazzino e una bambina ancora piccola, erano rimasti a Onezime con lui, l’ex-reginetta era stata allontanata.
Rispetto al resto della famiglia, poteva capitarti di incontrarlo in paese. Naturalmente girava in una macchina con autista e con dietro sempre due “aiutanti”. Gli aiutanti erano armati e avevano l’aria delle guardie del corpo. Ma poteva capitarti di incrociarlo al negozio di caccia e pesca, su vicino alle paludi, dato che ogni tanto non gli dispiaceva far fuori qualche bestiaccia, oppure potevi trovarlo dal meccanico, perché gli piacevano i motori e collezionava macchine che non guidava. E portava sempre i bambini alla sagra del paese, in autunno.
Al contrario del fratello, se ci scambiavi due chiacchiere era affabile, ma la gente di Helouise sapeva che si trattava di un’impressione ingannevole. O che comunque, insomma, Rivet poteva anche essere affabile, ma ciò non toglieva che fosse il sicario della famiglia, il pistolero, l’hitman.
Lauren stava con Gage da due mesi quando Rivet la vide. Gage era uno dei suoi autisti, ma a parte questo lavoro un po’ discutibile era un bravo ragazzo, così pensava Lauren. E poi era bello. Un bel biondo alto con la pelle abbronzata e la barba mal-rasata.
E dato che Rivet era “democratico” non pretendeva nemmeno che indossasse un’uniforme da sfigato per portarlo in giro: bastavano jeans neri e camicie tinta unita. Gage si vestiva tutto di nero e stava davvero bene.
Del suo lavoro non parlava e Lauren non chiedeva. I Blanchard pagavano il giusto e pagavano puntuali... dove andava Rivet erano fatti suoi.
Lauren con Gage si trovava bene. Sembrava uno con la testa a posto. Forse – Lauren non era ancora sicura – andava bene per costruire qualcosa. A venticinque anni iniziava a volere una famiglia e Gage poteva essere quello giusto... no?
Quando Rivet la vide era ancora presto per dirlo. Uscivano insieme da due mesi e stavano iniziando a parlare di trasferirsi nella stessa casa. Sarebbe stato carino. Lauren aveva il suo lavoro al Croc Diner, Gage aveva il suo posto da autista... Lauren aveva la villetta dietro alle scuole che le aveva lasciato sua madre, Gage stava ancora in una stanza con ingresso indipendente sopra casa dei suoi, quindi l’idea di trasferirsi non gli dispiaceva. Poteva funzionare.
Ma Rivet la vide.
Era pomeriggio inoltrato, il giorno prima del Thanksgiving, e alla tavola calda avevano finito il vino. Non che dalle loro parti la gente pasteggiasse con il vino, ma serviva per cucinare, quindi Lauren andò al negozio di alcolici sulla Main.
Parcheggiò e vide che davanti alla vetrina principale c’era una Mercedes grigia. Il finestrino del guidatore era abbassato e spuntava il braccio abbronzato di Gage.
Lauren si avvicinò, vide che era proprio lui e si sporse all’interno.
«Mi sembrava di aver visto un bel tipo al volante di un macchinone» lo salutò, chinandosi per baciarlo.
Gage rispose al bacio e le lanciò un’occhiata bonaria.
«Dai, sto lavorando».
«E anch’io, eh. Sono venuta a comprare del vino».
«Pensavo che al Croc fosse tutto a base di gravy» disse una voce dall’accento educato, ma inconfondibilmente locale.
Lauren si voltò di scatto.
«Scusi, signor Blanchard» disse Gage.
«Scusi, era solo un saluto veloce» aggiunse lei, con un sorriso un po’ teso.
Rivet Blanchard era uscito dal negozio dei liquori seguito da due uomini vestiti di scuro, ognuno dei quasi trasportava una cassa di vino. Vero vino, non come quello che stava andando a comprare Lauren.
«Rilassatevi» disse Rivet, con un sorriso divertito. «Scambiare due chiacchiere non è reato. È la tua ragazza, Gage?»
Mentre lo diceva le lanciò una bella occhiata.
«Sì, signore» rispose lui. Lauren pensò che sembrava nervoso.
«Be’, stasera potresti prestarmela. Per la festa. Sarebbe un problema?»
Ora, normalmente dopo una frase del genere Lauren non se ne sarebbe stata zitta. Avrebbe protestato, dicendo che non era proprietà di Gage e che di conseguenza non stava a lui decidere se “prestargliela” o meno, e probabilmente avrebbe aggiunto anche che poteva fare lo sforzo di chiederlo direttamente a lei. Dopo di che gli avrebbe detto che poteva scordarselo.
Il problema era... che quello era Rivet Blanchard.
Lauren se ne restò zitta per non mettere nei guai Gage.
Gage deglutì e disse, a voce piuttosto bassa: «Suppongo di no».
«No? Ottimo, allora puoi passarla a prendere dopo le otto. Ora andiamo».
Lauren lo vide salire in macchina insieme ai suoi due scagnozzi e chiudere le portiere. La Mercedes ripartì senza che nessuno le dicesse più una parola.
Quella sera Gage passò davvero a prenderla subito dopo le otto. Lauren stava ancora servendo ai tavoli, ma non era una serata piena e comunque aveva già fatto cadere una salsiera e un boccale di birra: il signor Matthews, il suo titolare, sembrò sollevato che facesse una pausa.
Lauren uscì dal Croc e si fermò davanti a Gage con i pugni sui fianchi.
«Quindi gli hai detto che può avermi in prestito per la serata, eh? Gentile da parte tua».
Gage deglutì. Il suo bel colorito abbronzato in quel momento era grigiastro e non dipendeva solo dalle condizioni di luce.
«Lauren... cerca di capire».
«Bene. Diciamo che cerco di capire. Che cosa vuol dire che mi hai “prestata” a Blanchard Jr.? Di che festa stava parlando? Che cosa dovrei fare?»
«Dobbiamo andare» disse Gage, indicando la portiera aperta della Mercedes.
«Eh? Hai sentito quello che ho detto?»
Lui chiuse gli occhi. Tirò su con il naso.
«Dunque... il punto è questo. Penso che potrebbe ammazzarmi se non ti porto lì».
« Che cosa?»
Gage iniziò a piangere. Lauren non si aspettava niente del genere e di primo acchito restò di sale.
«Lauren... per favore... sali in macchina, okay?»
A quel punto era chiarissimo che era terrorizzato. Lauren ebbe l’impulso di tirargli uno schiaffo, ma capì di non averne il tempo. Aveva giusto il tempo di decidere se salvargli la vita oppure no.
Sospirò e salì in macchina.
«G-grazie» singhiozzò lui, mettendo in moto.
«Spiegami almeno che festa è. Cristo, non sapevo che il tuo lavoro fosse... così».
«M-mi dispiace... credimi, mi dispiace tantissimo. È una festa... non lo so. Una delle feste di Rivet. Ci saranno ragazze e coca. Dei suoi... amici, diciamo. Ti daranno un vestito carino e... non lo so».
«Che cosa vuol dire “non lo so”? Devo solo... chiacchierare, scherzare e così via...»
Gage continuava a singhiozzare.
Guidava anche in modo un po’ spaventoso e Lauren iniziava a essere davvero, davvero preoccupata.
«E ti ucciderà se non mi porti lì» disse.
«P-penso di sì, Laurie. Mi... mi dispiace... sul serio. È... Rivet è... non è una bella persona. Ammazza la gente, sì».
«Quindi... che cosa? Se non gliela do mi ammazza?»
Gage le lanciò un’occhiata laterale che era tutto un programma: paura, umiliazione e la speranza non troppo segreta che lei si prestasse a qualunque cosa volesse il suo capo.
Lauren, disgustata, sputò fuori dal finestrino.
«Non dovrei salvarti la buccia. Non te lo meriti» chiarì.
Lui si limitò a guidare verso Onezime.