2.-1

2026 Words
2. Il senso di colpa non si era ancora placato il giorno dopo. Come potevo fare a non vederlo mai più? Non volevo avere più nulla a che fare con lui. Ero stata pessima, lo sapevo, e mi sentivo male all’idea, ma non avevo perso l’obbiettività. E una cosa era sicura: io non mi ero tirata indietro, ma quello che si era fatto avanti era lui. Era stato lui a chiudermi in un angolo e a spingermi il pacco sulla mano. Era stato lui a passare ai fatti. Forse l’avevo provocato, di certo l’avevo guardato, ma la maggior parte della colpa era la sua. Andai al lavoro fermamente intenzionata a non incontrarlo, a evitarlo o, quando fossero state impossibili entrambe le opzioni, a ignorarlo. Il primo problema nell’esecuzione del mio piano fu che mi stava aspettando nel parcheggio. +++ Mi venne incontro mentre chiudevo la macchina. «Devo dirti due parole». Lo guardai male. «Io no». Cercai di dribblarlo, ma lui mi prese per un polso. «Per favore. La cazzata l’ho fatta io, hai ragione». Sospirai. Lo fissai. I capelli fulvi e arruffati, la camicia senza cravatta, quel bel colorito di uno che va in barca, o fa arrampicata, o va a camminare nei boschi o qualcosa del genere. Il volto irregolare e interessante, la barba troppo cresciuta con qualche traccia di grigio o di biondo, non era chiaro. «In effetti l’hai fatta più che altro tu. Ma c’ero anch’io e non avrei dovuto». «Lo so. Senti, mi dispiace. Eri così sexy, ieri». Lo guardai ancora peggio. «Non attacca». «No, okay. Quello che volevo dire è... mi dispiace, scusa. È stata colpa mia. Sono... fatto male, diciamo. Ma amo mia moglie e le cose tra noi vanno maluccio, ma non così male. È stata una cosa... fisica, ecco. Solo fisica. Per favore, non avercela con me». Sospirai. «Non ce l’ho con te, ma non deve succedere più». Sorrise. «Mai più, eh?». Questa volta lo incenerii con lo sguardo, in pratica. Lui alzò le mani e fece la faccia innocente, ma non incantava nessuno. Non era pentito, la sua era solo scena. Non aveva importanza perché io non ci sarei più cascata, lui poteva fare quello che voleva. +++ La teoria era semplice. La pratica, nei due mesi seguenti, si rivelò un po’ più complicata. Noi venditori avevamo con lui un meeting settimanale, da quello non si scappava. I miei colleghi definivano quegli incontri “lezioni di yoga”, ma non erano così inutili, se li prendevi un filo più sul serio. Sander ti chiedeva di metterti in gioco quel minimo che ti serviva a fare uno scatto verso l’alto come addetto alle vendite. Discutere le tue strategie e accettare i suggerimenti degli altri. Le loro critiche costruttive. Ti prendeva, ti portava in mezzo al cerchio e ti faceva provare un’interazione commerciale con un collega. Sottolineava i tuoi meriti e i tuoi punti critici. Poteva aiutarti davvero a capire come far meglio il tuo lavoro. Alla fine mi trovai a seguire quegli incontri per non guardare lui. Non era colpa sua, ma una volta che facevi caso a quel dettaglio, al modo in cui lo portava sulla destra, alla sua forma visibile quando si muoveva, non riuscivi più a smettere di guardarlo. A meno di non concentrarti davvero su quello che diceva e su quello che succedeva durante i meeting. Intendiamoci, era un problema lo stesso. Metà delle volte mi trovavo con i capezzoli duri e la fica bagnata. Immaginavo di sentirmi le sue mani addosso, la sua bocca sul collo e il suo corpo che premeva sul mio. Facevo quel che potevo per non darlo a vedere, ma un paio di volte lo notò, ne sono sicura. Quando uscivamo dalla stanza mi sentivo i suoi occhi addosso. Sulla schiena, diciamo così – anche se in realtà erano più in basso e la sola idea che mi stesse guardando il culo mi faceva venir voglia di mandare al diavolo tutti i miei buoni propositi. In ogni caso, pensavo che con il tempo mi sarebbe passata. Anzi, ero quasi sicura di esserci quasi. Poi, subito prima delle vacanze estive, ci ricascai. +++ Iniziò con una simulazione durante un meeting. Anche se ormai seguivo attentamente quegli incontri, non mi ero mai alzata per mettermi in gioco. Pensavo che fosse una buona idea. Ma erano passati dei mesi da quando Sander aveva iniziato, ormai avevano provato quasi tutti... prima o poi sarebbe toccato anche a me. Mi capitò subito prima della chiusura estiva, come dicevo. Le vetrate erano aperte sul giardino giapponese. C’era un buon odore e l’aria era un filo troppo calda. «Copeland? Perché non viene lei? Che ne dice?» mi chiamò Sander. A quel punto ero abituata a intervenire, a partecipare, ma comunque l’idea di alzarmi e mettermi alla prova davanti a tutti un po’ mi agitava. Provai a tergiversare. «Magari la prossima volta?». «Forza. Non la mangiamo». Dio, se avrei voluto farmi mangiare, invece. La sola idea di quello che avrebbe potuto farmi con la lingua rischiava di farmi drizzare i capezzoli. Anzi, ormai era successo. Dannazione, controllati Leigh. Mi alzai in piedi. Indossavo un vestito di lino color salvia piuttosto largo e non molto lungo, che lasciava scoperta buona parte delle mie gambe, le spalle e le braccia. Come tutti gli altri, ero a piedi nudi e avevo le unghie smaltate di blu scuro. Il contrasto mi piaceva, sulla mia pelle chiara. «Chi si offre di fare il ruolo di possibile cliente?». Si alzò subito il maledetto Cecil. Anche lui era diventato una costante, negli ultimi mesi. Ci provava e io lo respingevo con scuse sempre più deboli. «Dunque, vediamo, lei che cosa produce, McAlley?». «Materassi. Ho una grande azienda di materassi e articoli per dormire». Sander sorrise. «Ambizioso. Mi piace. Quindi, Copeland... il signore ha chiesto assistenza perché è interessato all’acquisto di un grosso ordinativo di foamic. Lei ha preso un aereo ed è andata nella sede della sua società. Dove la riceve, McAlley?». Ci accordammo sui dettagli. Ero a disagio con Cecil, inutile negarlo, ed ero ancora più a disagio con Sander che mi gironzolava attorno, anche se per motivi diversi. «La segretaria la fa entrare nello studio del cliente potenziale...» introdusse Sander. Andai verso Cecil con un sorriso rilassato. Gli strinsi la mano. «Signor McAlley. Ci ha fatto davvero piacere ricevere la sua richiesta». Quell’idiota di Cecil ridacchiò. «E a me fa piacere vederla, signorina Copeland? O signora?». Mi succedeva di continuo, almeno quello era realistico. «Signora. Sposata e con due figli». Ciril inarcò le sopracciglia e indicò con il naso la mia mano. «E l’anello?». Mi era successo anche quello, ma meno di frequente. Di solito la gente aveva un minimo di senso della privacy. Sorrisi, dolce come il miele. «Sa com’è, a volte nel mio lavoro ostacola. Ma lei è una persona perbene, si vede al primo sguardo. Non è proprio il tipo da infinocchiare con due moine. Mi spieghi che cosa aveva in mente quando ha scritto. Spero di poter fugare ogni suo dubbio». Cecil si mangiucchiò il labbro inferiore. «Non lo so. Può farmi un paragone con il lattice e con il memory?». Sorrisi, suadente. «Posso fare anche di meglio. Posso farle toccare con mano. Permette?». Presi la valigetta che tenevamo sempre nella sala. Io e Ciril ci sedemmo su due cuscini, come fossimo davanti e dietro una scrivania. Feci del mio meglio per convincerlo. Gli feci toccare i campioni e gli spiegai in che modo il nostro materiale era diverso dagli altri due. «Vede, non voglio dire che lattice e memory siano peggio del foamic. Sono due ottimi materiali, lo dico anche se sono la concorrenza. Ma il lattice d’estate è caldo, il foamic no. E il memory ad alcune persone sembra troppo cedevole. Il foamic sostiene, ma è morbido. Lo tocchi. Non è una sensazione gradevole?». Cecil continuava a palpare il campione di foamic. Anche quella non era una novità, molti clienti si comportavano esattamente come lui. «Gradevolissima. Mi scuso per il paragone, ma sembra un bel petto sodo». Risi. «La scuso, lo dicono tutti! Ovviamente una cosa è toccarla, un’altra è stendersi sopra un materasso rivestito in foamic. Non è detto che piacerà al cento percento dei suoi clienti, ma credo che sia un’alternativa che è bene offrire. È più economico di entrambi, è fresco e sodo. Per alcuni forse fin troppo sodo. Ma per molti sarà perfetto, glielo garantisco. Ho portato con me un piccolo cuscino. Lo vuole provare?». Andammo avanti così per un pezzo. Lo feci sedere sul cuscino (in realtà c’eravamo già seduti entrambi) e gli ci feci posare la testa. Mi avvicinai abbastanza da fargli sentire il mio profumo, ma non abbastanza da fargli pensare che mi stessi offrendo di intrattenerlo. «Direi che possiamo anche fermarci» disse Sander, dopo un po’. «È molto avvolgente, Copeland. Pareri?». Alzò la mano una collega più alta in grado di me. «Non so come fai a restare così gentile con un simile viscido!». Ci furono diverse risate. «McAlley ha dato il meglio di sé» disse Sander, divertito. «Ma di clienti come questo ce ne sono un sacco, inutile negarlo. Lavorando in coppia con qualche collega ho visto spesso scene come questa. Secondo me Copeland l’ha gestita bene». «Oddio, forse anche troppo suadente» commentò un venditore un po’ più anziano di me. «Il cliente è di sicuro affascinato, ma viene meno il rispetto». Quella critica mi offese, ma cercai di non darlo a vedere. Ero stata gentile, calda e professionale, non mi ero comportata da zoccola! «Se il cliente è misogino, è possibile» intervenne Sander. «È uno dei motivi per cui dai grossi acquirenti potenziali di solito si va in coppia. A seconda del tipo di interlocutore è meglio se a un certo punto interviene un altro uomo. E viceversa in caso contrario, è ovvio. Considerate una cosa...» aggiunse, tornando a rivolgersi a cerchio in generale, «...se hai un cliente misogino e sei una venditrice donna? Sei penalizzata in partenza. Se ti dimostri troppo distaccata quello reagirà male, se ti dimostri troppo amichevole quello ti svaluterà. A me sembra che lei abbia trovato un buon equilibrio Copeland. Davvero, mi ha fatto una buona impressione». Gli rivolsi un sorriso felice, suppongo, perché ci furono diverse risate bonarie. +++ «Non hai trovato un “buon equilibrio”, Copeland. Mi hai tolto dieci anni di vita». Mi stavo rimettendo le scarpe e quello che mi aveva fregato era il cinturino dei sandali. Buchini molto piccoli e difficili da centrare con la stanghetta della fibbia. Ero rimasta indietro e Sander si era seduto sulla panca all’esterno della sala incontri proprio accanto a me. Attorno a noi c’erano ancora diversi colleghi, ma si stavano tutti allontanando per andare a pranzo. In quanto a Sander, non c’era nulla di strano che si trattenesse a fare due chiacchiere con una delle persone del colloquio simulato del giorno. «Esagerato». «Tu dici? Per fortuna c’era McAlley che continuava a palpare il campione con aria da maniaco sessuale. Hai presente il modo in cui massaggi quella roba, passandotela da una mano all’altra?». Mi voltai a fissarlo. «Davvero? Non ci ho mai fatto caso». Sander non rispose, gli occhi fissi nei miei. Iniziai a sentire caldo. Più caldo. Il collo sembrò andarmi a fuoco. Lui sorrise. «È una fregatura, la carnagione così chiara. E un po’ anche quel vestito. Lo porti, il reggiseno?». Arrossii ancora di più. «Sì». Per fortuna gli ultimi colleghi se ne stavano andando. Tornai a piegarmi per allacciarmi i sandali. Non c’era proprio verso di centrare quel dannato buchino. Anche quella mattina ci avevo messo una vita, ora era pressoché impossibile. Mi tremavano le mani dall’eccitazione. Era così che mi riducevo con una sua singola occhiata. «Lascia che ti aiuti». Prima che potessi dirgli di non farlo, lui scivolò in ginocchio davanti a me. Sentii le sue dita su una caviglia, mentre mi stringeva il cinturino e chiudeva la fibbietta. «Troppo stretto?». «N-no». Stavo sudando. Respiravo troppo in fretta. Le sue mani che mi accarezzavano le caviglie, prima l’una, poi l’altra. Salivano fino al polpaccio, leggere come piume. «Leigh, siamo onesti, non sta funzionando. Ho bisogno di leccarti». Le sue mani salirono ancora, la sua voce era un mormorio roco. «Ho bisogno di aprire le tue cosce e succhiarti la susina, tesoro. Lo so che è tutta sugosa, ne sento quasi l’odore». E quella dichiarazione così spinta, decisamente pornografica, unita alle sue mani che erano scivolate su, fino alle mie ginocchia... e mi avevano aperto dolcemente le gambe davanti a lui... Mi girava la testa e dire che là sotto ero “sugosa” non rende l’idea. «N-non posso...» «Che idiozia, certo che puoi. Sono io a non potere. Ma non me ne frega niente». Le sue mani sulla parte superiore delle mie cosce, a far risalire l’orlo del mio vestito. Chiuse gli occhi e aspirò a fondo, l’aria che gli gonfiava il petto. «Già, sento il tuo odore». Ero come paralizzata. Tramortita dal desiderio. Nemmeno il fatto di essere in un atrio e che chiunque avrebbe potuto passare e vederci riusciva a farmi alzare e farmi andare via.
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