1.
Sander indossava dei pantaloni classici, di cotone pettinato navy. Dalla mia posizione non potevo evitare di guardarlo a mezza altezza. Era proprio davanti ai miei occhi. E i pantaloni non erano aderenti, l’ho già detto, ma era impossibile non notare che lo portava a destra e che non era piccolo.
In certi momenti sembrava quasi bazzotto.
Cielo, dovevo smettere di guardarlo.
Ma come facevo?
Ero seduta sui miei talloni, sul cuscino di foamic, sul pavimento di parquet. Il busto eretto. Il mio vestito leggero iniziava a non nascondere che avevo i capezzoli sull’attenti. Mi sentivo una maniaca sessuale, era una reazione imbarazzante. Là sotto ero tutta umidiccia.
E Sander continuava a spostarsi qua e là, e a ogni passo la stoffa dei sui pantaloni si tendeva e aderiva a quel grosso wurstel un po’ gonfietto. O che comunque lo sembrava.
Forse mi stavo immaginando tutto io, okay.
Non capivo perché fossi stata presa da quell’attacco di libidine. Solo per aver notato un dettaglio anatomico, per quanto indecente? Era uno sbalzo ormonale dovuto all’ovulazione? Non mi era mai successo nulla di simile.
E Sander era un bel tipo, non dico di no, ma di solito non era il mio tipo. Con quel viso irregolare, quell’aria un po’ stazzonata? Di solito preferivo un modello dirigenziale-sportivo.
Eppure.
Ogni volta in cui mi passava davanti non potevo evitare di guardarlo lì. O di fissargli il culo, se era di spalle. Ma specialmente gli guardavo il pacco, gli occhi continuavano a tornarci. Lo visualizzavo stretto dalle mutande, costretto in una posizione un po’ scomoda. Immaginavo che premesse sulla stoffa e quasi lottasse per la libertà.
Dio, ero fradicia. Il mio decolté mi imbarazzava profondamente. Potevo sostenere di avere freddo? Quale altra spiegazione poteva esserci per quei capezzoli così duri da increspare la stoffa?
Iniziai a fare una specie di sogno a occhi aperti.
Sander chiedeva a me e alle due colleghe sedute accanto a me fare una prova. Di metterci a quattro zampe. Avevo il respiro accelerato e cambiavo posizione con una specie di gemito. Eravamo tutte e tre molto eccitate.
La nuova posizione mi faceva aderire il vestito alla schiena, ma lo lasciava lasco sul davanti. L’abito penzolava, la scollatura rivelava tutto, un soffio caldo si insinuava tra il mio corpo e la stoffa, gonfiandola e accarezzandomi la pelle. Gli occhi di Sander si perdevano sui miei seni che si alzavano e abbassavano, sui capezzoli duri, sulla mia bocca leggermente dischiusa.
Mi guardava per un pezzo. Le mie colleghe mugolavano per attirare la sua attenzione, ma lui si avvicinava a me. Mi accarezzava una guancia, le labbra. In silenzio, senza spiegazioni. Sentivo la stizza delle altre due, mentre lui mi accarezzava in quel modo sensuale e davanti a me... davanti a me la sua erezione si gonfiava, si faceva grossa, la forma sul suo pene si vedeva con la massima chiarezza, ora. Così lungo. Duro, pulsante. Stretto dalla stoffa dei pantaloni, rigido come un manganello.
Mi sembrava di sentirne l’odore, tanto era vicino alla mia faccia. Quell’odore di uccello eccitato. Il calore, attraverso il sottile strato di cotone pettinato.
Allungavo il collo per mordicchiarlo...
Mi riscossi.
Che diavolo avevo nel cervello?
Le mie colleghe sedevano accanto a me con aria annoiata, mentre sul cuscino di fronte, dall’altra parte della stanza, Cecil mi guardava e faceva delle facce. Non avevo idea di che cosa volesse comunicarmi. Alzava gli occhi al cielo e faceva dei sorrisini ironici, come se stessimo scherzando tra noi. Ma io e Cecil non eravamo così in confidenza, che cosa voleva?
Poi ci arrivai.
Prendeva in giro quello che stava dicendo il responsabile delle vendite e quella riunione dalla scenografia un po’ new age.
In quanto a me, di Logan Sander non avevo ascoltato una parola.
+++
«Ragazzi che palle, eh?».
Cecil mi si affiancò all’uscita dalla sala riunioni. Da un paio di mesi il nuovo responsabile delle vendite aveva deciso di tenere i meeting con i venditori in quella sala dall’aspetto zen, pavimento di legno e vetrata che dava su un giardino giapponese, tutti scalzi seduti in cerchio sui cuscini. Il precedente responsabile era il tipo di persona che ti faceva fare l’haka prima di uscire, Logan Sander era uno che credeva nella focalizzazione, ma per noi non cambiava molto. Il risultato era sempre lo stesso: dovevamo vendere il nostro materiale sintetico, ma ecologico, al maggior numero di produttori possibili.
«Non so, ero distratta» risposi. Era assolutamente vero: ero distratta a guardare il pacco del responsabile delle vendite.
«Per forza. Non ho mai capito perché non possono farci fare il nostro lavoro e basta. Invece no, sono sempre a dare direttive».
Emisi uno di quei suoni vaghi, che potrebbe essere un assenso, ma potrebbe essere anche un “boh” o un “non mi interessa”, ma che poi vuol sempre dire solo una cosa: “non voglio parlare con te”.
E siamo onesti, non volevo parlare con lui. Cecil era una lagna e cercavo di tenerlo alla larga. Per di più avevo il sospetto che se gli avessi dato un minimo di corda lui mi avrebbe chiesto di uscire. Cosa che non volevo assolutamente. Brrr.
«Pensavo... tu a pranzo vai in mensa? Perché ho trovato un posticino a meno di dieci minuti che è davvero...»
Oddio, lo stava facendo. Oltre tutto camuffando la richiesta da offerta amichevole.
«Ehm, mi dispiace Cecil, ma oggi ho parecchio da fare e andare in mensa per me è più pratico».
«Ti giuro che è vicinissimo. Perderemo più tempo in coda che ad arrivare lì!».
Lettura tra le righe: zero.
«Capisco, ma comunque preferisco andare in mensa. Grazie per l’offerta».
Emise una risatina. Davvero si riteneva così irresistibile da non capire che stavo cercando di togliermelo dai piedi?
«Come vuoi. Allora andiamo in mensa, eh?».
Non voglio! Mangiare! Con te!
Questo è quello che avrei voluto gridargli, ma stavo per rifilargli un’altra scusa, sperando che capisse.
«È pronta, Copeland? Non ho tutto il giorno».
Mi voltai di scatto. Subito dietro di noi c’era Logan Sander, i capelli un po’ arruffati e l’aria finto-stazzonata che senza dubbio doveva servire a dargli un aspetto da genio ribelle.
Lo guardai con espressione idiota.
«Dico, il nostro colloquio. L’ha chiesto lei, eh».
Non avevo chiesto proprio niente. Figuriamoci se avrei mai chiesto un colloquio a quel pallone gonfiato.
Alla fine ci arrivai.
«Uh, sì, signor Sander. Era ora?»
Lui guardò l’orologio che aveva al polso. Un coso di acciaio satinato con la cassa gigantesca. «Due minuti fa».
«Mi scusi».
Mi fece segno di seguirlo, chiaramente irritato, e io alzai gli occhi al cielo nei confronti di Cecil, come a dirgli “Che ci vuoi fare?”.
Sander camminò a passo di marcia verso gli ascensori, io gli saltellai dietro sui miei sandali dai tacchi alti. Ora che eravamo più o meno alla stessa altezza, quanto meno, gli occhi non mi cadevano più in continuazione sul suo pacco, ma confesso che gli lanciai un’altra sbirciata al culo. D’altronde non c’era scritto da nessuna parte che uno non potesse atteggiarsi un casino e non avere comunque un bel culo.
Lui lo aveva.
Sander premette il pulsante per chiamare l’ascensore. Non mi guardava nemmeno e sembrava impaziente e seccato. Dietro di noi vari altri colleghi appena usciti dal meeting parlavano tra loro di sciocchezze, ben attenti a non farsi sentire dal responsabile delle vendite mentre prendevano in giro le sue “lezioni di yoga”. Sì, anche noi venditori potevamo essere carogne, quando si trattava di trovare soprannomi alle cose.
Salimmo in ascensore e io ormai ero un po’ sulle spine.
Quello era un salvataggio, giusto? Aveva visto Cecil che mi pressava e aveva avuto un pensiero gentile, no? Anche se poi un dirigente che ha un pensiero gentile era un po’ sospetto.
Iniziai ad andare in paranoia di brutto.
Forse davvero avevamo un colloquio in agenda? Poteva avermelo prenotato Latyfa, la mia capo-settore?
Oppure Sander si era accorto del mio picco ormonale, giù al meeting, e voleva riscuotere? Era altamente improbabile, ma la sola idea mi fece affluire il sangue al petto e anche in altri punti meno nobili del corpo. Ebbi di nuovo una specie di vivida fantasia in cui Sander mi portava nel suo ufficio e mi schiacciava contro il muro. Stavo ancora immaginando il nostro amplesso in piedi quando le porte dell’ascensore si aprirono e lui disse: «Prego» indicandomi l’uscita.
Il suo tono freddo mi riportò alla realtà. Che problema avevo, quel giorno?
Lo seguii in direzione del suo ufficio.
Quando eravamo a metà corridoio lui si voltò e mi lanciò uno sguardo divertito.
«Direi che può bastare. Spero di non essere intervenuto a sproposito».
Emisi una risata imbarazzata. «È stato grandioso. Grazie».
«Niente. Odio le persone insistenti, anche quando non insistono con me».
Detto questo, mi rivolse un veloce cenno di saluto e mi lasciò lì.
+++
Pensavo che la faccenda fosse finita lì, ma quel giorno ci fu pure la terza ripresa. Il colpo di grazia. Tutti noi del commerciale avevamo una doppia funzione: procacciare nuovi clienti e prenderci cura di quelli vecchi. La Foamic Inc. era una grande azienda e i nostri compratori erano in tutti gli Stati Uniti. Si passava dalle grandi aziende di materassi, ai produttori di mobili (il foamic veniva usato per imbottire i divani e le poltrone), alle case automobilistiche (per i sedili), alle catene di materiale sportivo (materassini e cuscini sagomati) per arrivare alle piccole aziende dagli ordinativi bassi, che usavano il nostro materiale per le imbottiture di un solo oggetto di arredo prodotto in poche centinaia di esemplari, o per la piccola distribuzione.
Ogni cliente aveva il suo venditore a cui fare riferimento, erano le politiche della società. Noi account eravamo quasi una quarantina, sempre a disposizione dei nostri acquirenti e alla ricerca di nuovi compratori.
Quelli più in alto nella catena alimentare gestivano le grosse società, ma io ero stata assunta solo da tre anni ed ero ancora un pesce piccolo. Avevo procurato alla compagnia una piccola azienda che creava cuscini a forma di frutta, un produttore di materassi ortopedici per gli ospedali e le case di cura, un mobilificio nell’area di San Francisco... Parte dei clienti mi venivano assegnati direttamente dal sistema. Erano potenziali acquirenti che erano stati sul nostro sito e avevano chiesto un appuntamento con un venditore. Quando il loro preventivo d’acquisto superava una certa soglia, uno di noi junior account veniva assegnato al caso.
Quel pomeriggio andai fin quasi a Redding per parlare con un produttore di chaise longue, portandomi dietro i miei cataloghi e il mio campionario. Perché c’è una cosa da considerare, se vendi un materiale morbido e dalle caratteristiche peculiari sotto pressione: la gente vuole toccarlo. Vuole palparlo. Vuole stringerlo e strizzarlo e giocarci come se fossero le tette di una donna.
Quel pomeriggio passai circa un’ora a spiegare a un tizio le differenze tra il foamic e il memory, mentre lui palpeggiava il mio campionario con piacere quasi erotico. Lo convinsi a fare un bell’ordine, dicendogli che i clienti avrebbero adorato quella sensazione sulle chiappe.
Prima di andarmene raccattai anche un invito per un drink, che declinai con la vecchia scusa che non si flirta con i clienti. Anche se flirtavo tutto il tempo, è chiaro. Era un ottimo modo per vendere il mio prodotto.
Tornai in sede dopo le cinque del pomeriggio e ne avrei fatto volentieri a meno. Ma per andare a Redding avevo usato una delle auto aziendali, quindi dovevo lasciarla nel parcheggio sotterraneo, appendere la chiave nella rastrelliera apposita e riprendere la mia macchina.
Incontrai Sander appunto nello stanzino delle chiavi, mentre stavo firmando il registro che attestava il ritorno a casa dell’ibrida che mi aveva portata fino a Redding.
«Che cosa ci fa ancora qua?» mi chiese, appendendo a sua volta delle chiavi a un gancio.
Gli rivolsi un sorriso nervoso. «Ho appena chiuso un ordine con un produttore di chaise longue».
«Un grosso ordine?».
«Non direi. Sono oggetti di design, ne producono un numero limitato, poche migliaia all’anno».
In realtà stavo minimizzando: a me non sembrava un ordine tanto basso.
«Ben fatto. Dio, non so neanche perché abbiamo iniziato a parlarne. A quest’ora del giorno ho il cervello foderato di foamic, non lo reggo più».
«Lo dica a me».
Si chinò per firmare il registro e io ci cascai di nuovo: gli guardai il culo.
Purtroppo questa volta era buio, la finestra era come uno specchio, e Sander mi beccò in pieno. Sollevò lo sguardo proprio mentre io inclinavo la testa per ammirare quelle chiappe che tendevano la stoffa dei suoi pantaloni.
«Allora è un vizio» disse, rialzandosi.
Avvampai. Era uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita e avevo appena peggiorato le cose. Se non fossi arrossita avrei potuto fare la finta tonta, ma ora come me la cavavo? Dio, avrebbe pensato che ero una maniaca. E in realtà lo pensavo anch’io, ero davvero mortificata.
Iniziai a balbettare qualcosa (scuse), ma lui mi parlò sopra senza il minimo problema.
«Anche stamattina. Il mio salvataggio non è stato del tutto casuale, immagino che ci fosse già arrivata. Uno se ne accorge, quando gli guardano fisso il pacco per quasi un’ora».
Il suo tono era di divertito rimprovero, cosa che mi tranquillizzò un po’. Ma mentre parlava si era anche avvicinato, cosa che invece mi mandò un po’ nel pallone.
E avanzò ancora, mentre io arretrai di mezzo passo.
E ancora, finché non mi trovai chiusa in un angolo.
«Era solo una fantasia?» chiese.
Feci la cosa meno saggia. Guardai in basso. Di nuovo. Di nuovo gli guardai il pacco. Non riuscivo a vedere bene, ma sembrava... diverso.
Lui si avvicinò ancora e la punta del mio pollice sfiorò il cotone pettinato dei suoi pantaloni. Sollevai il viso e i suoi occhi si fermarono nei miei. Erano verdastri e circondati da una piccola selva di rughe dovute più al suo tipo di viso che all’età. Spiccavano in modo magnifico sulla pelle abbronzata. Si avvicinò ancora. Pochi centimetri, ma furono sufficienti.
Gli posai la mano a coppa tra le gambe e finalmente lo sentii. Grosso. Caldo. Duro. Che tendeva la stoffa del cavallo. Lo accarezzai piano. La mia intraprendenza sconvolgeva me per prima.
Sander chinò il viso sul mio. Sentii le sue labbra su una guancia, le piccole punture della sua barba lasciata apposta crescere troppo. Le sue dita su un fianco.
Fu strano, forse il momento più strano della mia vita.
La sua mano scivolò giù lungo il mio fianco, giù fino all’orlo del mio vestito. Poi risalì senza falsi pudori.
Chiusi gli occhi e mi abbandonai a quella sorta di vertigine. Mi girava la testa, il cuore mi batteva troppo in fretta, tutto il mio corpo era invaso da un calore improvviso.
Sander arrivò alle mie mutande ben prima che io gli slacciassi la cintura. Le scostò e mi toccò la fica. Così, senza preavviso. Ero talmente eccitata e fradicia che anche quel primissimo tocco mi fece sospirare. Sander andò avanti veloce. Cercò la mia apertura e la forzò leggermente. Due dita mi scivolarono dentro. Gemetti forte, che altro dovevo fare? Ero folle di eccitazione. Ne avevo voglia da impazzire. Volevo essere toccata, baciata, scopata.
Gli slacciai febbrilmente la cintura. Gli tirai giù la zip dei pantaloni. Le due dita erano dentro di me e spingevano a intervalli sempre più veloci. Il metallo freddo del suo anello (era la sinistra) si scaldò fino a perdere di importanza, ma per un attimo ci pensai.
Per un attimo pensai: Sei davvero così zoccola, Leigh? Con un uomo sposato?
Ma poi lui mi strinse un seno con la destra, lo palpò, e le sue labbra si accanirono sul mio collo riempiendomi di brividi.
Mi trovai con il suo cazzo in mano. All’improvviso lo stringevo nel palmo ed era caldo, sudaticcio, molto, molto duro. Era un bel bestione, pensai tra me e me. Avrei voluto trovarmelo dentro. Avrei voluto prenderlo tutto, farmi allargare da quell’asta spessa e rigida.
Gli abbassai il prepuzio e Sander si appoggiò su di me. La sua mano destra si infilò nella mia scollatura e mi strinse un seno nudo. Lo palpò come quel tizio aveva palpato il foamic, quel pomeriggio, ma senza curarsi di nascondere l’eccitazione sessuale. Lo sentivo ansimare. Il suo cazzo era duro come marmo, la cappella era umidiccia.
Spostò la mano dalla mia fica per bagnarselo con i miei umori, poi tornò a penetrarmi con le dita. Medio e anulare mi arrivavano in profondità, massaggiando le mie pareti interne, il palmo mi premeva sull’esterno e il pollice... il pollice iniziò a stuzzicarmi il clitoride, facendomi godere a voce alta.
Gli feci una sega veloce. Ero folle di desiderio. Gemevo, muovevo il bacino, gli palpavo il culo con l’altra mano. Il suo corpo era sul mio. Avevo le narici piene del suo odore, dell’odore del suo sudore e della sua colonia. Le sue labbra sul collo. Giù, fino alla clavicola, e su, fino al lobo dell’orecchio. La sua lingua bagnata. Il suo cazzo sempre più duro, i suoi fianchi che si muovevano a scatti e poi...
Poi lo sentii grugnire. Mi trovai le dita bagnate di un fluido viscoso, una macchia calda sul vestito, all’altezza della pancia... Dio, tutta la mano piena di sperma... le sue dita che spingevano... l’orgasmo mi fece mugolare forte. Premetti la fica contro la sua mano, dandogli il ritmo con cui doveva penetrarmi, strofinandomi a lui. La sua gamba tra le gambe. Il sesso che pulsava, si contraeva... la sua mano a stringermi il capezzolo... un urletto, un altro... i miei umori che gli bagnavano la mano e le mutande...
Quando smisi di sobbalzare Sander era appoggiato a me, una mano sopra la mia passera, dentro le mie mutande, e io con ancora il suo uccello nel palmo, ormai scarico e sgonfio. La sua fronte era posata sulla mia spalla. Era caldo, respirava forte.
Ci misi un po’ a riprendermi. Era stato intenso e inaspettato. Era stato folle.
Era stato sbagliato, sbagliatissimo, e lo sapevo anche mentre lo stavo facendo.
«Sono sposato» mi ansimò Sander in un orecchio.
«Già. Me ne sono ricordata troppo tardi».
Emise una mezza risata boccheggiante. «Mi avresti fermato?».
«Avrei dovuto».
Nel frattempo gli avevo tolto la mano dal cazzo, almeno quello. Scivolai via dallo spazio tra il suo corpo e il muro. Il vestito mi ricadde sulle cosce. Avevo una macchia di sperma all’altezza della pancia, lo sapevo, le dita gocciolanti.
Usci e andai più in fretta che potevo verso il bagno. Le gambe quasi non mi reggevano. Il mio corpo si ribellava a quell’improvvisa necessità di agire, di muoversi velocemente, di operare a un ritmo normale: il mio corpo voleva solo stendersi e arrendersi a un languore dolce, a una sonnolenza appagata.
Il mio corpo era pigro e soddisfatto, ora. La mia mente era piena di senso di colpa.