2.
Roxane controllò l’indirizzo sul cellulare. Poi guardò il numero di ferro battuto sopra al portone del condominio. Sembrava l’ingresso di un albergo. Solo... di un albego chiuso. Le porte dalle vetrate affumicate, attraverso le quali si intravvedeva appena un gigantesco foyer di granito nero, il tappeto sul marciapiedi, la fila di parcheggi privati davanti, occupati da berline scure e eleganti, con autista...
Fino a quel momento Roxane si era preparata ad avere a che fare con un pervertito, ma a quel punto, visto l’ambiente, iniziò a chiedersi se non dovesse aspettarsi uno schizzato duro e puro tipo quello di American Psycho. Si chiese anche se lo spray al peperoncino che aveva in tasca le sarebbe bastato oppure no.
Alla fine diede una scrollata di spalle e spinse la porta scorrevole circolare.
Il foyer, o come volevano definirlo, era impressionante. Un sacco di spazio vuoto, piante lungo i muri in un apposito vaso ricavato nel muro stesso, un gigantesco bancone di granito nero, dietro al quale c’erano ben due portieri.
Roxane andò da quella parte, ignorando i loro sguardi fissi.
«Ciao» disse, senza sorridere, «devo vedere il signor Wayland».
Il più giovane dei due ispanici (naturalmente: non erano mai bianchi, quando facevano i portieri) aggrottò la fronte, ma non disse nulla. Fu il suo collega a parlare. «Il suo nome?» mormorò, con voce appena udibile.
E dire che quell’atrio era silenziosissimo, il rumore di Lower Manhattan tagliato completamente fuori dalle vetrate.
«Roxane Lark».
Il portiere sollevò un telefono, compose il numero di un interno e aspettò con viso inespressivo.
«Sì, signor Wayland» sussurrò, poi, «c’è qua una signorina che sostiene di doverla incontrare. Roxane Lark». Un attimo di silenzio, e poi: «Sì, signore».
Alzò lo sguardo su di lei. «Interno 2102, scala B. Il signore la attende».
Se pensava qualcosa di specifico sul “signore” non lo lasciò trapelare. Roxane diede un’altra scrollata di spalle e andò verso il corridoio contrassegnato dalla scritta “scala B” in ferro battuto.
L’ascensore arrivò subito e si aprì con un sibilo silenziosissimo. All’interno c’era un altro ispanico, sempre piuttosto giovane.
Roxane tentennò per un secondo.
«Dove la porto?» chiese quello, con un sorriso simpatico.
Un addetto all’ascensore? In quel posto avevano un addetto all’ascensore, come negli anni ’30?
«Interno 2102» disse lei.
Il ragazzo in livrea selezionò il ventunesimo piano, l’ultimo, e sorrise di nuovo. «Il signor Wayland, eh?».
Roxane annuì e strinse la mano attorno alla bomboletta di spray al peperoncino, nella propria tasca.
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Fraser andò ad aprire la porta personalmente, dato che era domenica mattina e la signora Reyes sarebbe arrivata solo nel pomeriggio. L’aria nell’appartamento era tiepida, era sempre tiepida, estate e inverno, perché a Fraser piaceva così, quindi sopra alla camicia lui portava un maglione leggero, con lo scollo a v. Aveva optato per un abbigliamento informale, ovviamente: chinos e Hogan sportive. Era vero che aveva cercato in tutti i modi di tirarsi fuori dall’accordo che aveva fatto con Bruce, ma una volta capito che non ci sarebbe riuscito aveva deciso di fare del suo meglio. Quindi, per esempio, di non intimidire una povera ragazza di campagna con uno dei suoi completi antracite da qualche migliaio di dollari.
Le porte dell’ascensore si aprirono silenziosamente e ne uscì...
Fraser sbatté le palpebre. Be’, che fosse dannato se quella era una povera ragazza di campagna.
La... ehm, persona che stava andando verso di lui aveva metà della testa rasata. O insomma, su quel lato i capelli scuri erano lunghi meno di un centimetro. L’altra metà della testa, d’altronde, era composta da una chioma scompigliata azzurro pallido. Gli occhi erano truccati di scuro, le labbra color melanzana, e il sopracciglio sinistro era trafitto da due piercing, come anche il naso e il labbro inferiore, proprio al centro. Quella... creatura, indossava una giacca di pelle nera aperta su una felpa di qualche gruppo metal, dei leggings neri con una serie di tagli orizzontali sulle cosce (e sotto qualcosa di viola) e degli stivali al ginocchio con una suola pesante, rinforzata, alta e piatta. La pelle era molto pallida, le iridi blu, e la figura alta e slanciata, ovviamente appesantita dagli zatteroni blindati. E aveva al collo un collare pieno di borchie appuntite, notò Fraser, cercando di sorridere.
Roxane fissò il tizio che aveva di fronte senza rispondere al sorriso.
Il signor Wayland, lì, era il classico tizio ricco, una specie di stereotipo uscito da Fortune, che per di più aveva cercato di sembrare alla mano. Era alto, snello, palesemente sportivo (golf o barca a vela, Roxane probabilmente l’avrebbe appurato nei primi minuti di conversazione), con un taglio sfumato e dei capelli scuri che era riuscito a rendere anonimi. Bell’ossatura del viso, occhi grigi chiaramente spaventati, zigomi affilati e perfetti. Sì, Fortune incontra Vogue Uomo, pensò Roxane, malignamente, senza lasciare che sul viso le si leggesse nulla.
«Ciao. Tu devi essere Wayland» disse.
Lui annuì. Si spostò da un lato, cercando di non dimostrare la propria irritazione. Come aveva potuto Bruce spedirgli quella... quella... Poi gli venne in mente che lo staff avrebbe pensato che fosse una specie esotica di prostituta e gli venne voglia di buttarla fuori di casa senza nemmeno parlarle. Perché ovviamente, be’, non poteva tenerla.
«Puoi chiamarmi Fraser. Quindi tu sei Roxane, eh? Studentessa d’arte».
Lei gli rivolse un sorriso sarcastico. «Studentessa d’arte in difficoltà, esatto. Ho uno spray al peperoncino in mano, perché tu lo sappia. Già stappato».
Lui le rivolse un’occhiata bonaria (e dall’alto in basso, sia letteralmente che metaforicamente) e la precedette lungo un largo corridoio. «Sì? Devi proprio adorare il cibo piccante. Be’, questa è la casa, come vedi c’è un sacco di spazio... mmm... suppongo che tu non voglia un succo di frutta o qualcosa?».
Roxane si limitò a inarcare il sopracciglio con i due piercing. «Perché mai non dovrei volerlo?».
Lui sorrise di nuovo. Un sorriso falso-svagato che diceva chiaramente che non vedeva l’ora di liberarsi di lei in qualche modo. «Ottimo. Vediamo che c’è».
La precedette in una cucina grand gourmet con una lunga isola al centro, dalle linee moderne e sui toni del grigio e dell’acciaio. Il pavimento era di parquet anche lì, ma non un normale parquet... il colore era strano, diverso, costoso. Come se avesse una sfumatura perlata.
E ovviamente Fraser, lì, le stava sbattendo in faccia tutte quelle cose con il massimo dell’indifferenza. A partire dal fatto che, dal corridoio d’ingresso, di quell’appartamento non si vedeva la fine.
Fraser aprì uno sportello e guardò all’interno. «Dunque, vediamo. Pera? Pesca? Melograno? Mmm... uno smoothie al kiwi e varia roba tropicale?».
«Melograno» disse Roxane, senza la minima esitazione. E senza l’accenno di un grazie.
Fraser non si scompose. Poteva farla scappare quando voleva, ne era sicuro. Prese il succo al melograno e lo posò sul ripiano dell’isola. Poi prese un bel calice di cristallo (sacrificabile, se necessario), agitò la bottiglietta, la stappò e versò il contenuto nel bicchiere. Lo spinse delicatamente dalla parte di Roxane. «Prego, accomodati».
Lei lo fece. Si sedette senza alcuna grazia su uno degli sgabelli foderati di scamosciato. «Tu non bevi?».
Fraser andò alla rastrelliera dei vini. Scelse con calma un bianco fermo non troppo alcoolico, un grand cru, ovviamente, uno Chardonnay, altrettanto ovviamente, e prese il cavatappi. Lo aprì con gesti calmi e misurati, mentre la cara Roxane iniziava a bere il suo succo senza aspettarlo.
«Oh, ma è naturale» disse, con voce dolce. «Hai un fottuto piercing anche sulla lingua, l’ho appena notato: ho bisogno di un goccetto».
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Fraser sapeva benissimo che di solito una singola scortesia inaspettata non era sufficiente. La gente si convinceva di aver sentito male o che tu intendessi un’altra cosa.
La sua tecnica, di solito, era continuare la conversazione come nulla fosse e per poi reiterare la scortesia in modo ancora più esplicito, anche due o tre volte se necessario, finché il suo interlocutore non capiva aldilà di ogni possibile dubbio che intendeva offenderlo.
Quello che non si aspettava era ricevere per tutta risposta una risata.
Roxane mise giù il bicchiere e rise. Una risata di pancia, tonante, ma anche autenticamente divertita.
«Se ti basta un piercing sulla lingua per darti all’alcool, chissà che faresti se vedessi i tatuaggi. O gli altri piercing. Eroina?».
Fraser finì di stappare la bottiglia e prese un bicchiere dal mobiletto. Si versò un paio di dita di vino – in fondo non era ancora mezzogiorno – e lo lasciò respirare.
Sospirò. «Okay, bene. Probabilmente ho capito male io. Pensavo che fossi un’artista, non una suicide girl».
«Pensavo che fossi un normale maniaco sessuale, o al limite un assassino psicopatico, non un moralista» ritorse lei, soave.
Lui sbuffò e bevve un sorso. «È un po’ un luogo comune, non trovi?».
«Che uno che vive in un posto del genere sia uno psicopatico? Lo ammetto».
«Intendevo un moralista. Psicopatico magari lo sono anche. L’empatia non è la prima delle mie qualità. Ma stavamo parlando dei tuoi contributi al mondo dell’arte. Qualche opera di rilievo? Magari una performance? Schizzare di sangue mestruale i pendolari alla fermata di Wall Street o riempire un gigantesco teddy bear di protesi al silicone...»
Di nuovo, Roxane rise. «Sei datato».
Fraser sospirò. «Suppongo di sì. Anche tu non sei proprio di prima mano, in ogni caso. Non dovresti avere diciannove, vent’anni al massimo?».
Lei finì di bere il suo succo – era rosso sangue e Fraser era convinto che l’avesse scelto solo per il colore – e incrociò le braccia. «Ne ho ventiquattro. Scusa se ho lavorato per pagarmi gli studi».
Fraser buttò giù un altro sorso e la indicò con un cenno della testa, divertito. «Occhio: hai mollato lo spray».
«Ho rivalutato l’entità della minaccia» disse lei, sarcastica. «Al ribasso».
«Ah, non sono più un pervertito, uno psicopatico o un moralista?».
«Su questo non mi esprimo, ma probabilmente riuscirei a difendermi a mani nude».
Lui sospirò e scosse la testa.
Posò il bicchiere e le fece segno di seguirlo.
«È una stronzata, sai. Assumere che. Sono un quinto dan di Aikido. D’altronde non vedo perché dovrei aggredirti, se non per buttarti fuori da casa mia».
Roxane si rimise la mano in tasca e la chiuse di nuovo sulla bomboletta. Un punto a favore del riccastro, doveva ammetterlo.
Si guardò attorno cercando di non dimostrarsi impressionata, anche se non era proprio semplicissimo. L’appartamento prendeva luce dai due lati e tutte le vetrate avevano una vista mozzafiato. Fraser la guidò attraverso un salone, un soggiorno, uno studio di qualche tipo, una palestra-dojo, davanti a diverse camere per gli ospiti e, infine, su una grande terrazza dal pavimento di cotto.
Qui Fraser arrivò fino al parapetto, per poi voltarsi e appoggiarsi a esso con le mani in tasca.
Roxane si fermò a cinque o sei metri di distanza. Il sole li illuminava ormai quasi a picco, l’aria era tiepida e le piante nei grandi vasi mandavano un buon odore.
«Quello che non ho capito è perché» disse lei. «Cioè, che senso ha?».
«Ah, vorrei saperlo anch’io» rispose lui, con un sorriso mite. «Ma ormai mi sono impegnato, posso solo cercare di farti scappare via con le mie peggiori maniere».
Di nuovo, lei incrociò le braccia. Così, sotto il sole, la giacca iniziava a farle caldo, ma non intendeva togliersela.
«Se è solo per questo, ci riuscirai facilmente: non voglio la tua carità».
Fraser si strinse nelle spalle. «L’argomento mi è indifferente».
«Spiegami come... come diavolo è venuta fuori questa cosa. Sento che sarà offensivo. Che cosa fate, una specie di lotteria annuale dei ricchi in cui scegliete a caso...»
«No, no. Hai una compagna di corso: Araceli. Messicana, forse?».
Roxane scrollò le spalle. «Non ha importanza. È anche lei del vostro club, anche se... come dire? Vuole provarci».
«Già. Lei ha parlato di te a un mio vecchio amico. E lui ne ha parlato a me. Be’, a noi... era una specie di rimpatriata. Eravamo sbronzi. E, insomma, ci racconta la tua storia, probabilmente sbagliando qualche dettaglio importante. Al che io dico un qualcosa come... qualcuno la aiuterà. E Bruce: chi, tu? Pensavo di staccare un assegno da cinquemila dollari, ma Bruce mi ha fatto notare che con quella cifra a Manhattan uno ci paga due mesi di affitto».
«Quattro, veramente» specificò lei.
«Be’» continuò Fraser, come se la cosa non avesse importanza, «il discorso si è fatto più ampio... siamo un po’ andati sui massimi sistemi. La domanda che ci facevamo è questa: se prendi una persona normalmente intelligente e le dai tutti i mezzi, è matematico che abbia successo in qualsiasi campo scelga oppure no?».
Roxane rise di nuovo. Era una bella risata, pensò Fraser, almeno quello. «Quanto avevate bevuto?».
Lui sbuffò. «Troppo. In ogni caso, è per questo che sei qua, esattamente come ti ha detto il mio segretario. Mi sono impegnato a farti da sponsor per un anno. Darti un posto dove vivere, coprire tutte le spese. Come se fossi mia figlia, anche se l’idea mi dà i brividi».
«Non sei così datato» gli fece presente lei.
«No, infatti. Avrei dovuto concepirti a nove anni. Come se fossi uno zio alla lontana, quindi».