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2398 Words
Roxane chiuse gli occhi e se li massaggiò. Le ronzava il cervello, o così sembrava. Era tutto... stranissimo. E stava morendo di caldo. Si sfilò la giacca, la ripiegò e se la mise sotto-braccio. La felpa che portava sotto non lascondeva la sua figura snella, quasi adolescenziale, e la completa mancanza di tette. «Non ho capito che cosa ti aspetti in cambio» disse, in tono più mansueto. Per un attimo a Fraser sembrò giovane, giovanissima. Poi l’attimo passò e si ritrovò a fissare la solita teppista. «Che non mi svaligi la casa» sorrise. «Sul serio» insistette lei. Poi sbuffò. «Forse per te non è niente, ma per me è fottutamente importante, okay? Sono disposta anche a mettermi l’amor proprio sotto ai piedi, se è quello che serve, ma devo sapere che cosa ti aspetti da me, visto che non sei un mio lontano zio, alla fin fine». Fraser le restituì uno sguardo serio. «Non quello». Poi rise sotto voce. «In realtà è piuttosto insultante, anche se non insultante quanto venire accusato di essere un moralista. Sono ancora giovane, belloccio, ho un lavoro redditizio: di solito devo convincere le ragazze a non darmela. Eliminato questo equivoco... mi aspetto che tu faccia del tuo meglio per realizzare il tuo obbiettivo, di cui prima o poi mi parlerai, suppongo». Sospirò leggermente. «E che ti presenti come la pecora nera della famiglia a chiunque possa pensare che sei una di quelle che ha insistito per darmela». Roxana ridacchiò. «Lusinghiero». «E che diventi invisibile quando accetto la gentile offerta di una di queste tizie» continuò Fraser, come se lei non avesse parlato. «Che non faccia casino al di fuori delle tue stanze. Che non senti musica ad alto volume mentre sono in casa. Che non inviti centinaia di goth a sventrarmi l’appartamento e a incendiarne i resti... né, più banalmente, organizzi un mega-party nel salone. Che non rovini il mio divano di pelle – lo so, è una richiesta borghese, ma adoro quel divano e non lo producono più». Si interruppe e aggrottò la fronte, cercando di non dimenticare qualcosa di importante. Annuì e aggiunse: «E che non usi mai il mio bagno personale». +++ A sei giorni di distanza la signora Reyes continuava a non riuscire a nascondere il suo sconcerto. Fu quindi senza smettere di lanciare occhiate di disapprovazione che servì il tè sul basso tavolino tra due delle poltrone del soggiorno. Erano le sei del sabato sera e la signora Reyes sarebbe comunque andata via di lì alle sette: Fraser decise di abbreviare la sua agonia. «La ringrazio» disse, con un sorriso gentile. «E quando vuole può andare, non ci servirà più niente». La governante si accigliò. «È sicuro, signor Wayland?». «Assolutamente. E grazie come sempre». La signora Reyes se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle, e Fraser riportò lo sguardo su Roxane, che era acciambellata sulla sua poltrona come un gatto. La osservò da capo a piedi, senza cercare di nascondere il suo esame. Le gambe, fasciate in un paio di leggins neri, erano ripiegate sotto di lei, ai piedi aveva dei calzettoni neri e per la metà superiore del corpo un insieme che Fraser approvava quasi: una canottiera nera non troppo scollata con sopra una maglia sottile nera dallo scollo larghissimo, fatto in modo da caderle costantemente giù dalle spalle. Che, neanche a dirlo, erano tutte tatuate. «Quindi... ti sei sistemata» disse, in tono blando. Versò un paio di cucchiaini di zucchero nella propria tazza. L’altra annuì. «Immagino che te ne sia reso conto a stento». «I nostri orari sono incompatibili e ceno fuori almeno cinque sere alla settimana: lavoro» si giustificò lui. Posò il cucchiaino e si portò la tazza alle labbra. «Forse non sei un tipo da tè?». Roxane sembrò risvegliarsi. Prese a sua volta la sua tazza e ci versò dentro una quantità francamente eccessiva di zucchero. Girò e rigirò con il cucchiaino, facendo risuonare la ceramica come un tamburo tibetano, e poi bevve a sua volta un sorso. «No, no. Bevo sempre la sbobba di qualità che mi propini, Fraser». Lui sorrise appena. «E questo incontro a che cosa serve? Vuoi interrogarmi? Sapere quanto del tuo assegno settimanale ho già dilapidato? Che cosa ci ho fatto?». Il sorriso di lui restò al suo posto. «Me lo diresti?». «Ma certo. Ho già speso quattrocento dollari... ho comprato del materiale che mi serviva da un pezzo, per il corso di litografia. Poi l’ho un po’ provato. Sono uscita, mmm... mercoledì a pranzo con delle amiche. Thailandese. E poi ieri sera, in un locale... ma sono rientrata presto. Così va bene?». Fraser inarcò le sopracciglia. «A te sembra che vada bene?». Roxane sembrò confusa. Quando non aveva quella sua aria sbruffona traspariva quanto tutta la situazione la mettesse a disagio. «Non... lo so. Che altro dovrei fare? Sto continuando come al solito». Lui posò la tazza e si sporse leggermente verso di lei. «Puoi fare quello che vuoi, ma mi chiedo... è quasi sabato sera e hai speso solo quattrocento dollari. Non è molto incoraggiante». Lei sbuffò. «Comprerò della cocaina». «Dovresti» annuì lui. Roxane gli rivolse un sorrisetto indisponente. «Me ne puoi dare un po’ dalla tua scorta, zietto, no?». Fraser sospirò. «Zietto?». Lei ridacchiò. «Non abbiamo detto che sei uno zio alla lontana?». «Uno zio, okay... ma uno “zietto”? Non penso. Niente coca, mi dispiace. Ho altri vizi». «Nah, non ci credo». «Che non ho della coca o che ho altri vizi?». Lei ridacchiò di nuovo. «Ai vizi. Comunque... non vedo perché dovrei spendere dei soldi se non ho bisogno di niente. Per far girare l’economia?». «E non hai bisogno di niente? Sul serio? Quand’ero all’università avevo sempre bisogno di qualcosa. Nemmeno un computer nuovo? Un impianto stereo? Un home-cinema?». «Ce l’hai già, un home-cinema». «Io. Ma tu?». Roxane scosse la testa. «Se proprio mi servirà, usero il tuo». «Bene. Ma il punto a cui sto cercando di arrivare è... conosco gente, ho connessioni, posso fare cose. Dovresti essere ansiosa di sfruttarmi. Che tu non lo sia non depone a tuo favore». Lei sporse il labbro inferiore. Erano labbra piene, quella sera al naturale, e Fraser si chiese non per la prima volta perché rovinarle con quel cavolo di cerchietto. E in modo con cui giocherellava con il piercing che aveva sulla lingua... fastidioso. «Non sarebbe giusto». Un veloce sorriso. «Non voglio diventare come te». «Lo capisco. Non tanto per la cura ormonale, ma togliersi tutti i tatuaggi? Impensabile» scherzò lui, morbido. E i tatuaggi erano quello che ti colpiva delle sue spalle nude. Il fatto, cioè, che non fossero nude affatto, non esattamente, dato che erano coperte da un intricato disegno in stile giapponese. «Non ti sto suggerendo di barare. Ti sto suggerendo di sfruttare le tue risorse. Andare per mostre. Comprare opere d’arte, se questo può servirti a farti conoscere le persone giuste. Partecipare alle feste “utili”. Non so come funziona nel tuo ambiente, ma ho sempre pensato che tutti gli ambienti si assomigliassero, sotto certi aspetti. Ho trovato questo, l’altro giorno» disse, sfilandosi di tasca un cartoncino e lasciandolo cadere tra loro. Roxane lo prese e lo lesse. «Il Wado festival. Ma è su invito, sai». Lui la guardò in silenzio per diversi secondi. «Bene, hai vinto» disse lei, lasciando di nuovo cadere il cartoncino. «Vorrei sapere dove l’hai preso, tra l’altro». «Ma come... metà dei miei clienti compra arte per motivi fiscali, l’altra metà è composta da veri collezionisti. Credi che non abbia lasciato cadere lì con nessuno di loro che una mia lontana parente sta frequentando...» «Non che io te l’abbia chiesto, eh?» lo interruppe lei. Fraser sorrise appena. «Così sono gli zii: impiccioni. Oh, Cristo». L’ultima affermazione era stata accompagnata da una vaga smorfia. E Fraser le guardava le tette. Un po’ a disagio Roxane provò a reagire con il sarcasmo: «Oddio, ti sei appena accorto che la terapia ormonale non funziona?». Lui scosse appena la testa. Sembrava onestamente turbato. «Cielo, ti giuro che ora distolgo lo sguardo, ma... i capezzoli? Non è un reggiseno o qualcosa, no? È... sono...» «Piercing» disse lei, stringendosi nelle spalle. Il movimento evidenziò ulteriormente l’increspatura nella canottiera. Roxane doveva avere una prima misura, a essere buoni, e un anello a entrambi i capezzoli. Una volta che ci facevi caso i tuoi occhi continuavano a tornare lì, che lo volessi o meno. «E stai per chiedermi... dunque. Perché? ovviamente. E poi: farseli non fa male? E per finire: dove altro ti sei bucata? Qualcosa del genere. Lo chiedono tutti, prima o poi. Quelli fuori dalle body mods». «Mods?». «Modificazioni corporee». Lui sbatté le palpebre. La guardò negli occhi, ma poi tornò a guardarle le tette. «Eh. Sì, tutte queste». «Perché mi piace. Sì, fa male, ma probabilmente meno di quanto pensi. E no, non più da quando ho tolto l’anello a una delle grandi labbra». Fraser si appoggiò una mano a conca sulle palle e accavallò le gambe. Non lo fece apposta e accettò stoicamente la risata di lei. «Poi, ovviamente, di solito mi chiedono se possono guardare. Vuoi guardare?». «Cristo, no» borbottò Fraser. Poi rise sottovoce. «Be’, lo sto facendo. Non riesco a smettere». Con un certo sforzo spostò di nuovo gli occhi nei suoi. «Sì, voglio guardare. Ti dispiacerebbe?». Tutto considerato, pensò Roxane, venire accontentato l’avrebbe disturbato più che una risposta indignata. Inoltre il suo interesse sembrava davvero di tipo naturalistico. Si abbassò una spallina della canottiera, esponendo il seno sinistro. Era piccolo, appuntito, sodo, tondo e alabastrino. Il capezzolo era attraversato dall’anello d’acciaio in orizzontale. In quanto all’anellino, era chiuso da una pallina di metallo, tutto qua. Fraser avvicinò il naso. «Dio» fece, aggrottando la fronte. «Non dirmi che non hai mai visto un piercing al capezzolo». «Dal vivo? No, mai. In foto tendi a non farci caso. E...» Allungò una mano, ma si fermò a metà del gesto, rendendosi conto di non poterlo fare. Poi decise di fregarsene e posò la punta delle dita subito sotto alla mammella. Spinse verso l’alto, osservando le reazioni dell’anello. Prese il suo seno tra pollice e indice, spostandolo prima a destra e poi a sinistra. «E i dotti lattiferi?» chiese. Roxane lo fulminò con lo sguardo. «Non intendo riprodurmi». Lui rise. «E va a tuo vantaggio, credimi. Ma non si può mai sapere, no?». Lei alzò gli occhi al cielo. «No, il piercing non danneggia i dotti lattiferi, non in modo significativo. Pensi di continuare a guardare ancora a lungo? O a toccare?». Fraser rise sottovoce. Le accarezzò la punta del capezzolo con il polpastrello del pollice, tenendole sollevata la mammella come se volesse guardarla in controluce. Continuò finché il capezzolo non le diventò duro, poi scostò la mano. «Affascinante. Be’, suggerisco che ognuno torni ai suoi impegni» disse, alzandosi. «Ti farò avere quell’invito». Roxane restò lì, con una tetta denudata, a chiedersi come avesse potuto piacerle venir toccata da quel cazzone. +++ Quella sera Fraser andò a cena con un paio di amici. Dopo cena finirono in un club sulla Broadway, dove lui rimorchiò una finta-rossa sui trenta, una stressatissima avvocatessa di uno studio privato. La mise a suo agio, chiacchierò, le offrì da bere, le accarezzò un polso mentre continuavano a parlare e la baciò sul marciapiedi fuori dal locale, prima che lei chiamasse un taxi. Limonarono lì, nell’aria fresca e un po’ troppo umida della sera, con le macchine che passavano davanti a loro come a una sfilata o quasi, e Fraser pensò che comunque andava bene così. Cioè, avrebbe voluto farsi la suicide girl che aveva parcheggiata in casa, ma capiva che non era una buona idea. Quel pomeriggio avrebbe anche potuto, probabilmente. Cristo, si era lasciata massaggiare una tetta... sì, avrebbe potuto quasi di sicuro. Non era brutta, se riuscivi a superare la prima impressione. E la prima impressione era scioccante, okay, ma era superabile. Se guardavi oltre notavi gli occhi allungati e le labbra piene, il fisico acerbo, le gambe lunghe e il culetto piccolo e sodo. Sotto tutti i tatuaggi, i vestiti di merda e i piercing, diciamo. Aveva trovato più prudente lasciare perdere. Poteva astenersi. Fare a meno di quell’eccentricità non gli costava poi molto. La finto-rossa poteva sostituire egregiamente la pseudo-artista, quella notte. La portò nel suo appartamento. La finto-rossa fece “oh”, “ah” e “wow”. Tutto da manuale. Fraser le versò da bere e la baciò di nuovo. Questa volta le toccò le tette. Tette grandi e morbide, molto diverse dalle tettine della sua temporanea coinquilina. La finto-rossa gli permise di palparla in lungo e in largo. Lasciò che lui le sollevasse la gonna e le toccasse il culo. Poi Fraser se la caricò in spalla e la portò verso camera sua. La finto-rossa rise e squittì, una cosa che Fraser avrebbe evitato volentieri. La scaricò sul suo letto e le salì sopra. Era affamato, si rese conto. Aveva voglia di sesso, quella sera, ne aveva voglia come non gli succedeva da tempo. Si spogliarono a vicenda e la finto-rossa lanciò un’occhiata di ammirazione al suo fisico ben delineato, alla sua pancia piatta e alle sue spalle larghe. Poi, quando gli diventò duro, lanciò un’occhiata ammirata anche al suo uccello. Fraser si infilò un preservativo e le entrò dentro senza guardarla in faccia. La fica di lei lo strinse come un guanto. Fraser spinse e spinse, pensando alle tettine a punta dell’artista indigente, lì, e al modo orrendo con cui giocherellava con il piercing alla lingua. Orrendo ma anche attraente. Succhiò le tette della finto-rossa, facendola gemere forte. Non ascoltò quello che diceva, non gli interessava. Si chiese come fosse la fichetta dell’artista gotica e maledetta che voleva scoparsi ogni secondo di più. Probabilmente stretta e depilata. Forse era tatuata anche lì, sull’inguine. Era un’idea così volgare da essere arrapante. Affondò nella passera della finto-rossa e le strinse forte le natiche. «Sì... lì... oh, sì... lì, Fraser...» ansimò lei. Fraser si sfilò. Si liberò del preservativo e se ne srotolò un altro sull’uccello, mentre lei si voltava e si metteva a pecorina. Le allargò le natiche e osservò il buchetto bruno e lucido di umori di lei. Lo penetrò con le dita e lo allargò bene, ma senza perderci troppo tempo. La finto-rossa mugolò di dolore, ma non gli chiese di rallentare. Bene, anche perché Fraser sapeva di dover concludere, se non voleva ficcarsi in un limbo senza ritorno di erezioni senza orgasmo. Le mise dentro tutta la cappella e lei guaì, per poi iniziare un mantra di sì-sì-sì sempre più eccitati. Sentirla godere a voce alta lo portò a chiedersi come godesse Roxane, lì, sempre che lo facesse ad alta voce. Forse no. Poi iniziò a immaginare come doveva essere metterglielo in quel culetto piccolo e sodo e iniziò a venire. Affondò nel sedere della finto-rossa con tutta la sua forza, grugnendo. Si svuotò nel preservativo, mentre lei continuava a sobbalzargli sotto e a contrarsi violentemente attorno al suo uccello. Si scostò e si lasciò cadere a pancia in su sul letto, per poi sfilarsi cautamente il preservativo. «Tutto okay, mh?» chiese, in totale cattiva fede. Non gli importava niente di lei. Ora che si era svuotato non gli importava più niente nemmeno della sua maledetta ospite. Aveva sonno e voleva dormire. Sopportò qualche minuto di conversazione prima di palesare il proprio desiderio. La finto-rossa iniziò a rivestirsi, un po’ irritata. Quella che immaginava come una favolosa nottata di sesso si era concretizzata in una scopata un po’ squallida. Fraser non fece nulla perché restasse. La accompagnò alla porta con tutta la cortesia di cui era capace, si scambiarono i numeri di telefono e si salutarono, sapendo benissimo che non si sarebbero mai più risentiti.
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