«Se je dai a magnà non te li compro, non fa la carogna, porco su porco jò!».
Con la pancia piena il peso aumentava e con il peso il prezzo d’acquisto, ma anche le deiezioni e il rischio che schiattassero durante il trasporto. Lello e Cucciolo avevano un occhio infallibile nel riconoscere i maiali satolli, lo capivano dal respiro oltre che dalla linea dei fianchi. Sentivo i soci parlare di zone migliori dove i suini erano belli magri e robusti, e zone infelici dove invece crescevano brutti e malaticci. Allora immaginavo che fossero le colline stesse a generarli.
Dopo averli ritirati si portavano nelle stalle della base d’appoggio a Montegiorgio, a casa mia. Da qui sarebbero poi ripartiti, con l’Esatau Lancia e i Fiat 642, C 50 e più tardi 682 N tre assi, per essere consegnati ai grandi clienti, quelli delle grandi distanze, per le quali ci volevano quelle imponenti astronavi di terra.
I porchettari di via Madonna del Popolo andavano a ritirare i maiali sempre in coppia.
Quel giorno Leo era veramente in forma, lucido e corretto nell’eloquio, col suo italiano “stecato” alla perfezione. Sicuramente in cuor suo ci teneva a figurarsi diverso dagli altri porchettari, più acculturato, più signorile. Sul sedile del 615, un piccolo camioncino verde col muso da vecchio incazzato e i fanali rotondi come occhietti infantili, Leo restava sospeso con le sue gambette cortissime, agitando i piedi a ogni curva nella ricerca vana di un appoggio per non cadere.
Cucciolo, di proposito, cercava ogni volta di farlo sbandare, accelerando e frenando bruscamente per vederlo ridotto a una specie di palla rotolante, qual era in effetti, così basso e panciuto. Avesse avuto una maggiore altezza sarebbe stato il sosia di Oliver Hardy.
Nicò de Ciccò, un camionista chiamato occasionalmente per trasporti particolari, con i suoi silenzi ironici e beffardi, riuscì un giorno a realizzare il progetto di far cadere Leo nella posizione che tutti i soci immaginavano volentieri per lui. Di ritorno da Velletri, all’ennesima curva maligna stretta ad arte da Nicò, Leo, troppo pieno di porchetta e vino dei colli romani, cadde in avanti incastrandosi a ponte tra il frontale del C 50 e il sedile. Finì però per annullarsi nella dignità dei suoi sforzi di nobiluomo mancato, quando il camionista crudele raccontò ai soci, in preda già a risate convulse, che in quella posizione Leo si addormentò. Fu svegliato a forza.
«Quessa strada nomm’è mai piaciuta porcoiddì
» fu il suo commento laconico e alcolico.
Leo bestemmiava in modo distinto, nominando l’Altissimo Iddio, scandendo bene le due fatidiche parole, senza mai coinvolgere sua madre la Madonna.
Era, in realtà, troppo buono per prendersela con una donna.
Non lo faceva neanche con la moglie, che pure gliene fece passare di cotte e di crude, tra conflitti e richieste pressanti per una vita diversa. Quando Leo-Oliver Hardy si incazzava potevi capirlo solo dal fatto che diventava rosso paonazzo. La piccola testa calva e rotonda si accendeva di colpo, diventando quasi viola. Assumeva così colori molto simili a quelli del vino, dove troppo spesso si tuffava per annegare la malinconia di non essere diventato un grande cuoco oppure un marito più amato. Ma il suo volto e il suo cranio diventavano rubizzi anche per le risate, scroscianti e grasse, alle quali il suo animo dolce e gioviale era così tanto incline.
Tornando a quella mattina, dovevano ritirare una grossa covata di maialini, nella zona interna a Belmonte Piceno, da un contadino sperduto nel mare di colline profonde e ondeggianti, dove ancora tutti noi ci troviamo quotidianamente a navigare.
Leo, che era l’unico a chiamare Cucciolo col suo vero nome, non amava ritirare i maiali con lui, gli faceva troppi scherzi.
«Eliseo oggi guida da cristiano. Porcoiddì
!».
«Zittu Leo, zittu Leo, ch’agghio fuga!».
Di collina in collina, di viottolo in viottolo, arrivarono nei paraggi di una gola che accoglieva il dipanarsi aspro di un profondo torrentello: “lu vallatu”. Erano piccole vene, tutte destinate al Tenna, dopo aver raccolto l’acqua piovana dai campi.
Da una parte c’era il 615 con Leo e Cucciolo, dall’altra, leggermente in lontananza, nella confusione di sambuchi e querce, una vecchissima casa colonica con una stalla annessa. In mezzo un altrettanto vecchio ponticello di legno, fatto con qualche palo portante infilato nella melma del torrente, assi inchiodate su due strati e niente più. Era largo più o meno quanto il 615.
«Eliseo non ci passare!» disse Leo con voce perentoria e preoccupata al tempo stesso.
«E zittu Leo, zittu! Ma quanto me ce fai sta qui, se non passimo su lu ponte do passimo?!» fu la risposta di Cucciolo-Belmondò.
«Eliseo non ci passare, ché schianta!» insistè di nuovo Oliver Hardy.
«Ogghi me voj proprio portà sfiga, eh Leo? ».
«Ti ho detto di non passarci Eliseo, porcoiddì
!».
Invece Cucciolo iniziò la manovra, mettendoci tutta la maestria che al volante esibiva con eleganza di gesti e di sguardi.
Manovrava col sottofondo di Leo che continuamente ripeteva: «Eliseo non ci passare!».
Eliseo portò il muso del 615 in linea con la carreggiata del piccolo ponte, poi cominciò ad avanzare lentamente.
Nel frattempo, attirati dal rumore di nacchere frullanti del diesel, i contadini del vecchio casolare uscirono, diventando spettatori del fattaccio.
Quando il 615 fu tutto sopra il ponte, Cucciolo si accorse che lo spazio per passare quasi non c’era. Furgone e balaustre in legno strisciarono l’uno con le altre, questo fu fatale.
Il mezzo dei porchettari dovette stazionare troppo a lungo sopra a un ponte che in vita sua sicuramente non aveva mai dovuto sopportare così a lungo un tale peso.
Quello era un rudere che Belmondò doveva oltrepassare più velocemente possibile, ma non c’era lo spazio.
Gli stridii di ferro e legno costringevano ad andare pianissimo.
«Adesso schianta, porcoiddì
, innesta la marcia indietro, Eliseo!».
Non ci fu scricchiolio alcuno, la parte anteriore del ponte, quella sotto il muso pesantissimo del piccolo autocarro, cedette di colpo. L’avantreno del mezzo cadde nelle acque del vallato con una picchiata tanto breve quanto repentina. Una fumata diabolica si sprigionò dal motore, come il ferro incandescente che il fabbro immerge nell’acqua.
Gli spettatori contadini sussultarono, restando però immobili nell’espressione del volto. Cucciolo saltò fuori dal posto di guida con la velocità di un gatto, dando una potente spallata allo sportello per metà già immerso, provocando così un’immediata onda come se avesse dato di remo. Leo invece annaspava tra sportello e predellino, nell’assoluta impossibilità di confidare sulla sua altezza per poter scendere nelle acque del torrentello.
Ci vollero trattore, buoi e la forza incommensurabile di centinaia di bestemmie per tirarli fuori.
Eliseo non ci passare! Il povero Leo-Oliver Hardy aveva proprio ragione, ma la verità era che nessuno lo ascoltava veramente, nessuno dei soci lo prendeva sul serio.
Per loro era poco più che una macchietta, una specie di figura d’avanspettacolo.
In modo particolare Cucciolo Eliseo-Belmondò lo vessava in mille maniere, soprattutto dopo l’incidente della 850 Abarth dove, qualche anno dopo l’episodio del ponte, si distrusse il gioiello truccato che il bolscevico nostrano esibiva con orgoglio, sgommando alle partenze e tirando le marce corte fino all’esasperazione del piccolo motore.
Quella volta, Leo prese un abbaglio clamoroso. A un incrocio di Piane di Falerone immerso nella nebbia più fitta che si possa immaginare per le nostre zone, diede il via libera dalla sua parte nel solito stile comico e perentorio.
«Leo non se vede un cazzo, vè nisciù da la parte tua?», chiese Cucciolo con voce preoccupata.
«Vai tranquillo Eliseo, non passa anima viva!», rispose Leo senza esitazione alcuna.
«Porcoddì
Leo! Guarda vè! Guarda vè! Che è pericoloso co’ sta nebbia!».
«Eliseo, ti confermo che la strada è totalmente sgombra, vai pure tranquillo!».
Cucciolo sgommò tirando la prima marcia allo spasimo, ma non fece in tempo a sentire il motore salire fino al culmine dei giri.
Contro l’850 Abarth piombò, proprio dalla parte di Leo, il furgone di un elettricista che in seguito Leo definì «un furgone invisibile, non si può spiegare altrimenti, porcoiddì
!». Cucciolo, illeso, dopo aver visto lo spettacolo deprimente della sua utilitaria truccata piegata in due, cominciò a snocciolare bestemmie piangenti. Lacrimava e imprecava chiedendo a Leo quasi svenuto, «Ma che sci visto Leo, che cazzu sci visto!?».
«Ti assicuro Gilda che si trattava di un furgone invisibile. Porcoiddì, non si spiega altrimenti!». Così nei giorni seguenti cercava di giustificarsi Leo-Oliver con mia madre che, unica, lo ascoltava rassicurandolo.
Povero Leo, lo ricordo ancora che mi dava al telefono l’ultimo saluto.
Sul suo letto di morte aveva diligentemente stilato una lunga lista di persone alle quali dare l’addio.
Ora che lo racconto capisco che la mia tenerezza per lui è sempre stata una risposta spontanea a ciò che diceva di me, sempre, ogni volta che m’incontrava, da piccolo e da grande. Sua moglie mi aiutò a nascere, era la levatrice del paese. Consigliò ai miei genitori di battezzarmi subito perché secondo lei non avrei superato la prima settimana di vita, essendo venuto al mondo prematuro. Leo invece, quando mi vide nella culla due o tre giorni dopo il parto, nonostante fossi minuscolo, giallo per l’ittero e quasi senza fiato per piangere, suonò una delle sue fragorose risate e disse, stupendo tutti: «Quissu è na carogna, no lu mazza nisciù. È un vero Sdignu, porcoiddì
!».
Così fu. Niente battesimo anticipato ma tanto latte materno succhiato convulsamente fin quasi a scoppiare.
Nello stile degli Sdigni, appunto. Erano una scorbutica dinastia locale fatta di commercianti di bestiame, allevatori e contadini, famosi per la tigna, l’orgoglio e soprattutto la sdegnosità con la quale gestivano la gran parte delle loro relazioni sociali. Ruvidi, col grugno imbronciato e un tenace disprezzo per le smancerie e i ruffiani. Cos’altro? Quasi tutti facevano di cognome Gentili e Sdigni di soprannome. Apprezzabile beffardo contrasto.
«No lu mazzerà nisciù!».
Rivedo ancora oggi il volto di Leo e sento l’eco lontana delle sue parole.
Piccola dolce profezia. Utile incoraggiamento. Una battuta felice che spesso mi ha aiutato a vivere.
Per avere il rispetto e la premura dei suoi colleghi porchettari, Leo-Oliver Hardy dovette arrivare quasi al punto di morire.
I camion per trasportare i maiali, carichi di ceste e di quadrupedi, venivano coperti con grandi teloni gommati, color verde scuro. Erano pesanti e difficili da fissare agli autocarri, venivano lavati raramente con sommari getti d’acqua e colpi di scopa, e stesi ad asciugare lasciandoli pendere dal tetto delle stalle.
Per fissarli si usava mettere sul bordo del telone, appoggiato al terrazzo, più file di pesanti mattoni. Io li guardavo penzolare come fossero vele dismesse, inutili in un mondo tutto di terra. Ci fu però un giorno che quelle improprie vele ebbero il loro vento, un vento inquietante nella forza delle sue raffiche. I teloni sbattevano vinti. Il loro peso, dannazione per gli uomini che li dovevano stendere e fissare, era niente al confronto della potenza del vento. Vicino all’ora di pranzo, prossimi tutti a rincasare in una luce opaca e accecante al tempo stesso, Leo ebbe l’idea eroica di andare a pisciare dietro le stalle. Ecco un chiaro privilegio dei porchettari, poter sfruttare il mondo promiscuo e sudicio dei maiali per liberarsi di molte faticose regole.
Pisciare quando e dove ti va, per esempio nel letame, dentro le stalle o tra la paglia usata. Leo passò davanti ai garage col suo incedere corto e fitto, sparendo velocemente subito dietro l’angolo dopo le grandi porte grigie.
Passato qualche attimo ricomparve con l’aria soddisfatta di chi si è appena tolto una sostanziosa soddisfazione. In quel momento una raffica secca e tesa fece scuotere un telone a tal punto che dal terrazzo si staccarono diversi mattoni. Uno cadde di spigolo preciso al centro della testa di Leo, anzi, al centro del suo Borsalino.
Giocherellavo con i tizzoni del camino nella cucina di Mima, mia nonna. Cucciolo entrò gridando: «Mima, Mima, corri, damme llu sparracciu!».
Con voce assente e stridula mia nonna rispose: «E che è ssa fuga, devi scaccià u moscò?!».
Prese uno strofinaccio dalla dispensa, Cucciolo lo afferrò e uscì a capofitto.
Ciò che vidi poco dopo aveva il carattere surreale di quei momenti quando tragedia e ridicolo, dramma e farsa, si fondono nella sintesi d’immagini e fatti che hanno la scansione del sogno.
Uscendo dalla cucina di mia nonna mi fermai sulla soglia del portoncino d’entrata della casa. Cucciolo cercava di far salire Leo sul sedile del 615, era privo di sensi e non ce la faceva a tirarlo su. Gli aveva arrotolato sulla testa il grosso straccio, girandolo come un turbante indiano, aveva poi fermato le estremità inserendole nel pozzetto centrale.
Il volto di Leo era completamente sbiancato, aveva perso tutte le tinte rubizze con le quali lo riconoscevamo da anni. La faccia piccola, rotonda, pallida come mollica di pane, il turbante sopra la testa, gli occhietti chiusi, l’espressione assopita e innocente di un bambino che dorme, davano a Leo l’aspetto di una comparsa felliniana in totale balia del suo regista.
In questo caso il destino ventoso di quella mattinata e, forse, di tutta la sua vita.
«Gilda mi ha salvato il Borsalino, porcoiddì
!».
Mentre parlava con mia madre rigirava il suo cappello tra le mani come se dovesse venderlo a un cliente.
«L’ho comprato a Macerata Gilda, Borsalino originale. A Montegiorgio non ce l’ha nessuno».
Gilda, mia madre, aveva rispetto per Leo, lo trattava con dolcezza, ascoltandolo benevola. «Mi ha salvato la vita, porcoiddì
, senza il cappello, il mattone mi avrebbe sfondato il cranio!». Era vero.
Ciò che mi stupiva di più, però, era il fatto che lui, dopo due settimane dall’accaduto, non parlasse del ricovero in ospedale, della lunga perdita di coscienza, delle lastre al cranio e dei tre punti che gli avevano messo in testa. Parlava del suo Borsalino. Ne lodava la qualità, la bellezza e le virtù salvifiche.
Sarebbe stato pronto a scontrarsi con chiunque avesse messo in discussione la superiorità del suo cappello.
Quel copricapo, oltre ad avergli salvato la vita, lo faceva sentire un signore, un vero signore. Un porchettaro ne ha bisogno, perché si vergogna sempre un po’ del mestiere che fa.
«Fallo comprare anche a Lello Gilda, è un gran cappello, ce lo accompagno io tuo marito a Macerata. Mi ha salvato la vita, porcoiddì
!».