Capitolo I-1

2056 Words
I Quello che voglio raccontare è un mondo scomparso, un mondo che non c’èpiù. Io ci ho vissuto dentro, anzi ai margini. Mio padre ne era il protagonista principale, ma non mi ha mai permesso di entrare nelle cose che ora voglio ricordare, soprattutto negli anni della mia infanzia. Queste vicende le guardavo dall’uscio socchiuso o da sopra il terrazzo di casa mia. Ascoltavo i discorsi dei soci sempre da un’altra stanza e sempre lontano dal casino vero, quello che mi piaceva veramente, quel casino che non doveva assolutamente diventare il mio mestiere. Quel casino dove non mi dovevo sporcare. Perché i maiali erano tanti, nudi, pelosi e puzzolenti, ma anche profumati. Come le stalle, tossiche e irresistibili, nel loro afrore di vita animalesca e nella brulicante moltitudine che le animava. La merda e il piscio dei suini colavano al centro delle stalle grazie al pavimento inclinato verso il solco centrale dello scolo. Questo era tutto ciò che potevano fare i porchettari come mio padre e i suoi soci, per contrastare la strabordante sporcizia della merce che trattavano. Il Dio di questo mondo era il maiale. Un Dio totale, come dovrebbe essere per ogni Padreterno che si rispetti. Un Dio pagano, che impegnava tutta l’esistenza dei suoi carnefici e che tutto dava di sé alla fine. Chi non conosce la bontà di ogni parte del Porco? Chi non ha mai lottato con se stesso per resistere alla tentazione di abusare della sua carne volgare e paradisiaca? Si affaccia ora, alla soglia della mia coscienza, una voglia sottile di imprecare, con moderazione, ma precisamente, ostinatamente. Sì, ora sembra proprio essere arrivato il momento per qualche blasfemità. È un argomento difficile, delicato, soprattutto esagerato: la bestemmia. Si possono immaginare un bovaro, un pastore, un mandriano o un porcaro che non bestemmino? Che beffarda associazione per i porchettari quella della parola Dio con la parola che dà il nome all’animale di cui vivono. Se dicessi “cavallo” o “delfino”, “aquila”, “rondine”, “tigre” o “leone”, se nominassi un qualsiasi animale ritenuto nobile dagli esseri umani, nessuno sentirebbe sapore di bestemmia associandolo con Dio. Ma il porco, il porco è all’ultimo posto della dignità degli esseri viventi e al primo della peccaminosità e della turpitudine. I miei commercianti maledicevano il maiale proprio perché era il loro vero Dio obbligatorio. Un Dio tutto carnale, da divorare, col grasso che unge la bocca e il mento. Imprecavano contro il destino che li aveva condannati a tirare le loro code per caricarli nelle ceste e sui camion, aspettandosi con rassegnata certezza la merda sulle mani, nel coro infernale degli strilli suini, nasali e aspri. Bestemmie quindi, contro il Dio del destino che mischia oscuramente merda e denaro, puzza e carne prelibata, crescita all’ingrasso e morte. I miei cow-boys piceni cercavano il portafoglio pieno e almeno un vestito spuzzato col “Pino Silvestre Vidal”, per Natale, Pasqua o qualsiasi altra domenica mattina da passeggiare in piazza con la cravatta. Chi legge non si offenda, non posso raccontare nulla di loro se ometto le bestemmie. Puntualizzavano i discorsi e i gesti, riempiendo tutti i vuoti e risottolineando ogni volta, con due sole parole, i confini estremi di quel mondo. Cinque soci. Mio padre Lello, capo di fatto, Paolo, Leo, Peppe e Ivo gli altri quattro. Una società mai registrata, mai ufficializzata davanti a un notaio o nei registri della Camera di Commercio. Ognuno aveva un territorio dove comprare maiali. Peppe e Ivo erano soprattutto adibiti ai trasporti coi camion, anche perché erano i più giovani. Mio padre teneva i contatti con i compratori, decideva i prezzi, gestiva uscite e entrate e si procurava sempre clienti nuovi. Tranne Peppe erano tutti dei Gentili, parenti, parenti stretti, nella peggiore e più efficace tradizione d’economia familiare marchigiana. La fiducia deve rimanere in famiglia, così come il denaro. A volte però anche l’odio rimane chiuso in famiglia, così come i rancori e le invidie, le rivalità e i segreti. Erano tutti figli di commercianti di bestiame vario, bovini, cavalli, ovini, oppure di contadini che avevano integrato le attività della campagna con una piccola stalla annessa al podere. La società aveva un solo dipendente: Eliseo, detto Cucciolo, dipendente poi non si sa proprio di chi, visto che la società ufficialmente non esisteva. Ricordo solo, confusamente, che mio padre andava ogni tanto a pagare i contributi in cartolibreria. Lo faceva brontolando. Si lasciava alle spalle ogni volta le profezie di sciagura che gli snocciolava dietro mio nonno Enrico: «Quello ti farà passare i guai! Devi mandarlo via!». “Quello” era appunto Cucciolo. Il suo soprannome era così definitivo e condiviso che io non mi capacitai, anni dopo, quando seppi che il suo vero nome era Eliseo. Eliseo-Cucciolo, comunista stalinista, si spostava con una lambretta sgangherata e diceva sempre a mia nonna Mima, cattolica irreprensibile, che il Vaticano e il Papa bastonavano il popolo con il bastone di bambagia, invisibile e silenzioso. Più tardi, con evidente talento profetico, scrisse sulle pareti della stalla principale “la Cina è vicina”. Usò una vernice rossa naturalmente, negando con un mezzo sorriso eccitato ogni responsabilità. Provo un leggero rancore verso mio padre quando ricordo la bascula. Un’enorme bilancia con un piano d’appoggio che sembrava una piattaforma esagerata. Una piazza tremolante dove potevi sentire sotto i piedi un pianeta diverso, ondeggiante, con gravità anomala e peso insicuro. Da decidere. Cucciolo in realtà non pesava maiali, decideva il loro peso. Almeno per quella parte dei chili, di un corpo suino, che sono determinanti al guadagno. Ricordo le sbarre graduate, le tacche numerate, i piattini all’estremità e tutta quella serie di cilindri e cilindretti per stabilire al grammo una delle verità più contese e controverse di questo mondo: il peso. Denaro da avere o dare. Cucciolo era il mago della pesa, un demonio sornione che alla fiere tutti conoscevano e volentieri tutti avrebbero evitato. I mercati di Fermo, Macerata, Modena e, a volte, anche città più lontane, erano le arene dove Eliseo viveva i suoi duelli fatti di piccoli gesti, mosse repentine e inafferrabili. Appoggiava un piede sulla bascula, per pochi attimi, e il maiale pesava di più. Infilava la punta della scarpa sotto il piano della bascula e il maiale era più magro. Se la situazione lo richiedeva, riusciva addirittura a sostituire un peso con un altro, senza che nessuno lo vedesse. Duellava con altri commercianti, con mediatori e contadini, ma non lo faceva per la società di mio padre. Lo faceva per il gusto personale di prevalere. Lello si fidava del suo feroce istinto di prendere senza parlare, di vincere senza esibire nulla di sé. Se qualcuno ai mercati metteva in dubbio la correttezza del suo operato, lui negava tutto, la “buttava in cagnara” e se ne andava minacciando che l’affare non si sarebbe fatto. Sapeva distinguere i maiali belli da quelli brutti, i sani dai malati, i commercianti onesti da quelli truffaldini. Per difendere i diritti del portafoglio era un “capo”. Comunista per odio verso chi aveva di più, il volto scavato da rughe profonde, folti capelli corvini, lo guardavo e vedevo un marsigliese: Jean Paul Belmondò. Riceveva puntualmente gli incarichi più delicati. Per esempio il “contratto a vista”. Era un azzardo, una partita a poker, duello di bestemmie e menzogne. Sforzo teso degli occhi e della mente, fermezza del cuore commerciante. Stabilire il peso “a vista”. Quando sentivo mio padre decidere per l’acquisto “a vista”, tremavo. Sapevo che potevano scatenarsi tempeste di urla e imprecazioni, accuse impietose e giuramenti ultimi. Perché non affidarsi alla certezza della bilancia? Mi chiedevo. Perché iniziare una scalata così faticosa per arrivare alla verità di un maiale o di una stalla di maiali? Il prezzo a vista poteva essere proposto e rifiutato sia da chi vendeva sia da chi comprava. I commercianti sapevano che la verità sulle carni di un maiale non poteva essere contenuta tutta nei numeri della bilancia. Meglio le parole, fiumi di parole. Bestemmie, risate e lunghi racconti sull’esistenza condotta dai porcelli in oggetto. Tutti i soci di mio padre volevano ogni volta dimostrare la loro abilità, la loro capacità di arrivare, alla fine delle prediche e controprediche, alla stima più vantaggiosa. Tutti si ritenevano in grado di fare la rischiosa valutazione, ma pochi la sapevano veramente eseguire. «Per me pesa tanto e tanto te p**o!», più o meno il duello cominciava così. «Sci un ladru, me voj rovinà!». «Se non te fidi, allora li pesimo». E poi interminabili serie di suppliche, attestati di stima o insulti quasi al confine della rissa. «Cecu da tutt’e due l’occhi se te dico una vuscia!». «Ma zittu che sci un infame. Lu porcu no li pesa tutti ssi chili che dici tu!». «Allora me voi fa bestemmià! Me dai dell’infame e ‘nvece so l’amicu mejo che c’hai. Venni qua, venni qua che facimo l’affare!». Zuffe e riavvicinamenti, scontri e leccate di culo, estenuanti bracci di ferro finché uno dei due cedeva. Più che in una tribuna politica, più che in un’aula di tribunale, il contenzioso scatenava gli animi con tutto il peso della sua realtà concreta e quotidiana. Lello e Cucciolo-Belmondò non sbagliavano mai la stima, portando quasi sempre il cliente avversario verso la propria valutazione. Sapevano addirittura indovinare quanto, nel peso del maiale, c’era di grasso e c’era di magro. La loro arma segreta finale era la disponibilità alla verifica sulla bascula, «Se me sbajo anche solo de un chilu, facimo come dici tu!». Sapevano di non rischiare l’errore, a quel punto l’avversario cliente cedeva. Gli altri soci, invece, tornavano dai giri per ritirare i maiali comprati a vista, carichi di carne, paglia, merda e anche inaccettabili cifre perdute. Lello s’infuriava, urlando i numeri della rimessa. Cucciolo-Belmondò a quel punto cominciava a gongolare silenzioso, si riavviava i capelli corvini impastati di brillantina, accennando appena un nascosto sorriso. Per anni ho guardato la bascula sentendo arrivare da quel tempo lontano gli odori e le voci di chi pesava la merce da comprare e vendere. Solo per vivere. Solo per cercare di vivere un po’ meglio. Ho guardato la bascula fino a sette anni fa, quando Lello l’ha svenduta a un furbo muratore. Stava abbandonata in un garage-ripostiglio, pieno di vecchie cose apparentemente inutili. Era però il mio rottame preferito. Avevo grandi progetti. Pensavo di restaurarla e metterla nel mio studio. Speravo che sbirciarla ogni tanto m’avrebbe dato il senso del mistero di quei momenti. Le proposte, le verifiche, le quantità, i pesi e i contrappesi. I compromessi sulle visioni del mondo e dei suoi valori. Infine l’accordo. In fondo, tutto questo è anche il mio mestiere. Ritirare i maiali, cioè andarli a prendere dopo averli scovati nelle campagne marchigiane chissà per quale miracolo del passaparola, oppure per conoscenza ai mercati o, allora molto più raramente, col telefono, era spesso un’impresa non da poco e a volte anche una sorpresa. Per quanto Lello desse informazioni dettagliate sul luogo, le persone e la merce, accadeva spesso che poi le cose andassero diversamente. Non ho mai visto i miei porchettari consultare una cartina stradale, né per le province vicine, né per quelle lontane. Stava tutto nella loro testa: viottoli, stradine bianche, statali e, negli ultimi anni, le prime rare autostrade. Decidere il percorso da fare coi camion era per loro eccitante come possedere tutto quello spazio considerato. Era come fosse un andare dappertutto, liberi, pieni di nafta e di motori instancabili. Dopo aver visto i maiali la prima volta, dopo averli stimati e acquistati, si decideva il giorno del ritiro. Così è cominciata l’attività dei soci, così è fiorita e si è poi allargata ad altri modi di commerciare… Le colline marchigiane sono state percorse in lungo e in largo, con una sconcertante conoscenza di ogni contrada o fosso perduti nei territori intorno ai vari comuni. I crocevia di queste conoscenze erano i mercati di bestiame di Fermo e Macerata, da lì partivano le informazioni su dove si trovavano le case dei contadini che avevano una piccola stalla e qualche covata di maiali. Una grande quantità di be-stemmie “d’avvertimento” era impiegata per accertarsi che i porcelli fossero digiuni: «Quanno li vengo a pijà li voijo vedè svuti, sci capito porcamadò?! Svuti, sicchi comme u’ spì!»
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD