Capitolo uno-2

2140 Words
Ma nel breve periodo in cui era stata, come diceva lui, ospite sulla navicella di Zander – da quando l'aveva comprata come regalo per la figlia, che lui amava – non aveva visto shock-stick. Non c'erano stati abusi. Lei e Lamira erano sempre state trattate con cortesia, anche se si capiva che erano schiave. Mangiavano benissimo, dormivano in un ambiente lussuoso e non dovevano lavorare. Sebbene la figlia indossasse collare e manette, questi erano decorati con gli inestimabili cristalli zandiani, come parte del rituale di accoppiamento zandiano, e lì veniva ben curata. Leora sapeva che Zander aveva punito Lamira, ma in privato. Non ne avevano parlato, ma non sembrava che Lamira ne avesse risentito. Anzi, visto il rossore del suo volto Leora sospettava che nella sottomissione ci fosse un aspetto piacevole. Era per questo che Seke era responsabile per lei? Gli aveva chiesto lui di punirla? Fin dalla primissima rotazione del pianeta sulla navicella, era stato premuroso con lei, quasi protettivo. Diventerò la schiava sessuale di Seke? Nell'istante in cui il pensiero le balzò in testa, inciampò. Il maestro Seke la sostenne, rallentando e mostrando pazienza ancora una volta mista a preoccupazione. Qualcosa nel suo nucleo pulsava di eccitazione, anche se la mente vi si ribellava. Irrigidì la schiena, preparandosi a resistere. Anche se alla fine non avrebbe avuto altra scelta che sottomettersi, ciò non significava che avrebbe dovuto rendergli le cose facili. Proseguì lungo un corridoio dai colori vivaci, dai pavimenti in marmo lucido ricoperti di costosi tappeti Ostrion intrecciati a mano. Ovunque si voltasse, l'opulenza serviva a ricordare la vita agiata che aveva condotto lì. Quella navicella, niente più di una gigantesca navicella spaziale parcheggiata sopra Ocrezia, era l'unica sede del regno di Zandia fino a quando la loro specie non avesse riconquistato il pianeta dai finn. Si fermò davanti a una porta, che si aprì con un fruscio quando Seke pose il palmo della mano contro il pannello adiacente. La spinse in quella che doveva essere la sua camera. Era arredata con gusto, come ogni stanza della navicella palazzo. Una piattaforma del sonno ovale aleggiava su un lato, sospesa come per magia. Lo spesso materasso era coperto dai migliori tessuti color ambra, verde e blu notte. La luce amplificata dai cristalli filtrava attraverso un lucernario, rendendo la stanza dall’alto soffitto luminosa e ariosa. Una postazione di lavoro fiancheggiava una parete. Ma ciò che le bloccò il respiro e le torse il plesso solare fu la gabbia sospesa in un angolo. L'apparato punitivo sul letto. L'alto cesto pieno di vari attrezzi manuali, tutti progettati per infliggere dolore. Il tremore partì dalle ginocchia e risalì le gambe fino al centro del busto. Le fece le mani umide e fredde. Per nascondere il terrore, sollevò il mento e incrociò lo sguardo del suo nuovo padrone. «Quindi devo farti da schiava sessuale? Ho superato l'età ideale per la riproduzione, sicuramente lo sai.» A quarantuno cicli solari il suo corpo poteva ancora riprodursi, ma i rischi erano maggiori. Qualcosa nel viso di Seke si irrigidì, e una leggera espressione di tensione si fece largo sotto la maschera di marmo. «No,» tagliò corto. «Hai scontentato l’ospite. Il principe Zander ha ordinato che tu venga punita e addestrata, ma ha dato a Lamira la sua parola che non verrai usata come schiava sessuale.» Si chiese se l’accenno all’ordine fosse stato un modo sottile di farle capire che non era una sua idea. La trovava una cosa sgradevole? Non poteva dirlo. «Rilascia le manette.» Le manette, comandate a voce come le porte e le serrature della navicella, si aprirono. «Ti riferirai a me come padrone in ogni momento. Manterrai gli occhi bassi e le mani dietro la schiena se non diversamente indicato. Mi aspetto obbedienza e completa sottomissione. Ogni gesto di sfida sarà immediatamente punito. Togliti i vestiti.» Anche se avrebbe dovuto aspettarsi quel trattamento, le parole la colpirono come un pugno allo stomaco. Se fossero venute da un altro maschio non avrebbe sofferto tanto ma da Seke, che le aveva sempre mostrato molta cortesia, furono un tradimento. Prima di riflettere sulla saggezza del gesto, la mano scattò per schiaffeggiarlo. Lui si mosse ancora più velocemente e le afferrò il polso, torcendolo dietro la schiena in modo che lei dovesse girarsi o slogarselo. Si voltò e lui la schiacciò contro la porta chiusa, con un polso appuntato alla schiena e l'altro sul metallo freddo. La sua guancia premette contro la porta e il corpo di lui coprì il suo, bloccandola con tutto il suo petto, il suo busto, il rigonfiamento del cazzo contro la parte bassa della sua schiena. Sì. Lo trovava eccitante. Quei muscoli duri avvolsero la maggior parte del suo corpo, inflessibili e caldi. Il tremolio alle gambe si fece più forte. «Seke» sussurrò. Non sapeva cosa le avesse fatto pronunciare il suo nome così intimamente, come se fossero amanti e non semisconosciuti riuniti da terzi in una strana scenetta. E il respiro sul collo era persino più caldo della carne. «L’atteggiamento di sfida sarà punito ogni volta, Leora.» Anche lui sembrava più un amante che un custode. Non percepì rabbia né pericolo nella minaccia. Solo una promessa... una dolce promessa, come se non vedesse l'ora di sottometterla al suo comando. Lottò allora, terrorizzata non dalla punizione ma da lui e dalla reazione del proprio corpo a lui. Le tolse la mano dalla porta e gliela piegò dietro la schiena con l'altra, chiudendole di nuovo le manette. «Vieni.» Di nuovo non ci fu aggressività nelle parole, solo tranquilla determinazione. Si voltò e la guidò verso la piattaforma del sonno, dove si sedette e la tirò sulle ginocchia, appoggiando il busto al materasso. Capì immediatamente cosa intendesse fare, ma si trattenne dal lottare. Forse, se fosse stata onesta con sé stessa, avrebbe ammesso di provare curiosità, di essere affascinata dalla scena – di tutta l’intimità di starsene sulle ginocchia di un maschio e farsi toccare, punire una parte intima di sé. Quando le sollevò le vesti bianche, però, si rianimò per combattere l’evidente intento. Naturalmente non poteva competere con lui. Gli bastò sforbiciare una gamba sopra ai suoi arti scalcianti per bloccarla. Le vesti le scendevano lungo la schiena, il tessuto sottile scivolava sulla pelle come una carezza. Le modeste mutandine andavano nella direzione opposta, lungo le cosce. Sollevò la gamba per farle passare oltre, e l'aria fresca della stanza le colpì il sedere nudo. Si girò, contorcendo il busto nel tentativo di portare la bocca al braccio di lui per morderlo, ma non riuscì a raggiungerlo. Il primo schiaffo dell’enorme palmo fu quasi un sollievo: la punizione effettiva era migliore dell'attesa che si era attorcigliata e aggrovigliata nel suo ventre. Poi affiorò il dolore e iniziò a combattere di nuovo. La sculacciò forte e veloce, con un ritmo costante che le coprì ogni centimetro della metà inferiore delle natiche. Anche se cercò di tenere le labbra chiuse per non fargli sapere quanto velocemente l'aveva sconfitta, le sfuggivano di bocca grugniti e rantoli, e al grido più acuto lui si fermò e le posò la mano a paletta sulla pelle ardente. La sua schiena si sollevò ansimando e si inarcò, sollevò la testa per protestare contro l’ignominiosa posizione. «Dimmi una cosa, bellissima: ai tuoi padroni ocreziani opponevi resistenza in questo modo?» Bellissima. Avrebbe voluto che le parole non la influenzassero, ma sentirle le piaceva fin troppo. «No» ammise dopo un momento. All'improvviso la mano ricadde sul sedere, schiaffeggiandola forte e veloce. Emise un gemito di protesta. «No, padrone» la corresse. «Riprova.» Sedò gli sforzi e chiuse gli occhi. Qualcosa di ostinato in lei non voleva arrendersi, anche se sapeva che non avrebbe mai vinto la battaglia. Come capendo il suo pensiero, riprese a sculacciarla. «Puoi continuare a resistere, piccola umana, ma alla fine ti spezzerò. E la punizione per aver dato dispiacere al principe non è nemmeno iniziata.» Le lacrime iniziarono a bruciarle gli occhi, non per il dolore –la sculacciata non era lieve ma neanche insopportabile – ma per l'umiliazione. «No, padrone!» gracchiò con rabbia. Smise di sculacciare, lisciando il palmo ruvido e calloso sulle natiche contratte. «La ribellione è solo per me?» Le parole giunsero dolcemente, quanto la carezza della mano che le massaggiava il sedere ardente. Il suo cuore tuonò. Il calore le vorticava nel nucleo. Non capiva la domanda né l’insinuazione che vi era nascosta, ma la verità venne fuori prima che potesse fermarla. «Sì, padrone.» Di nuovo, le lacrime bruciarono. E così maestro Seke la raddrizzò, lasciando che le vesti ricadessero sul culo scoperto mentre la lasciava cadere sulle ginocchia con un braccio intorno alla vita. Le mutandine erano ancora abbassate, aggrovigliate intorno alle cosce, a seguito dell’umiliazione. Le strofinò le nocche sulla guancia e lei resistette all'impulso irrazionale di piegarsi a quel tocco. «L’addestramento non era nei miei piani, Leora.» Echeggiava rimpianto nella pesantezza della voce. «Ma deve essere fatto. Ti umilierai con me. Ti punirò. E mi prenderò cura di te, perché questo è quello che fa un padrone.» La figa le si strinse e nello stesso momento qualcosa si contorse nel plesso solare. Desiderio contro orgoglio. La paura si diffuse ovunque e tra i due. Volle quasi abbandonarglisi, lasciare che la punisse e si prendesse cura di lei. Quasi. «Mi sarà permesso vedere Lamira?» «Dopo l’addestramento iniziale, sì. L’allontanamento sarà usato solo come punizione, per entrambe.» Se l’addestramento doveva essere il suo destino, si chiedeva quale punizione avesse avuto sua figlia per mano del compagno. Sarebbe stato attento con lei, perché portava in grembo il piccolo. Ma sarebbe stato delicato anche in assenza di gravidanza. Aveva visto l’amore che provava per Lamira. Seke la spinse in piedi. «Rilascia le manette.» Le polsiere si staccarono. «Togliti i vestiti. Restarmi nuda davanti fa parte dell’addestramento.» Strizzò gli occhi. «Perché? Pensavo che non sarei stata usata per la riproduzione o il sesso.» Le diede uno schiaffo sulla parte posteriore della coscia. «Oggi tollero le domande perché ti stai adattando al cambiamento dei rapporti. In futuro, mi aspetto obbedienza senza domande. Il motivo per cui pretendo che resti nuda è per umiliarti.» Di nuovo, qualcosa le si contorse nel plesso solare e la rabbia lampeggiò. Con le mani libere si lanciò verso il suo viso, le dita piegate ad artiglio, mirando agli occhi. Le prese i polsi e con un piede le spinse la parte posteriore delle ginocchia, così si tuffò in avanti. Emise un grido soffocato che si trasformò in un gemito quando le ginocchia colpirono il tappeto finemente tessuto. L'espressione di Seke non era cambiata: gli occhi brillavano di viola, ma il viso rimaneva una maschera imperscrutabile. Le portò le mani girate al volto e ci si accarezzò la guancia. Avrebbe potuto graffiargli la pelle, infliggergli quella piccola ferita, ma il fascino dell’azione la calmò. Cosa stava facendo? «Queste mani» mormorò continuando a strofinarsi le dita sulla guancia, sulla bocca aperta. Era la sua immaginazione o le antenne si erano irrigidite e avevano cambiato angolazione, inclinandosi verso di lei? «Queste mani impareranno a servire.» Infuriata, cercò di ritrarle, ma sebbene la presa non fosse particolarmente severa la forza di lui lo rese impossibile. La volta successiva che le passò le dita sulla bocca, le morse – non con forza – in modo più sensuale. Sgranò gli occhi, il cuore si fermò mentre si bloccava a fissarlo. Lo shock gli danzava nei lineamenti, come se non avesse avuto intenzione di stroncarla. Gli occhi blu-viola si fissarono sui suoi e il tempo si fermò. La stanza iniziò a girare. Il desiderio le pulsava tra le gambe con la stessa intensità con cui le pulsava il sedere. E poi Seke la lasciò. All’improvviso. Con violenza. Le abbassò le mani così forte che le rimbalzarono in grembo e si alzò sollevandole una gamba sopra la testa. Si allontanò da lei, andò verso la porta, dove si fermò e incrociò le braccia sul petto massiccio, voltandosi. «In piedi. Spogliati. Sto perdendo la pazienza.» Il tono adesso era molto più freddo quindi, a differenza della cortesia che le usava di solito, feriva. Eppure, rendeva più facile obbedire. Quello era un padrone senza nome e senza volto. Non il suo Seke. Solo uno tra le centinaia di padroni che aveva avuto nella sua vita di schiava. Strinse i denti mentre si alzava e si toglieva le vesti bianche, scivolò fuori dalle mutande aggrovigliate e poi si fermò di fronte a lui, le mani ordinatamente incrociate dietro la schiena, come le aveva ordinato. Tuttavia non abbassò gli occhi. Sapevano entrambi che la sottomissione non era autentica. Qualcosa gli balenò dietro agli occhi. Dolore o rimpianto. Sembrava disgustato, ma nulla nell’espressione era cambiato. Ma lei aveva capito. Forse era un accenno dell’istinto, quella frazione di capacità psichica che la figlia minore possedeva in abbondanza. Cercò di deglutire. Si strofinò una mano sul viso, poi si schiarì la gola. «Mi obbedirai.» Sollevò il petto. «Sì padrone.»
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