II.Verso il mattino devo essermi assopito, anche se in quel momento mi sembrava di essere rimasto sveglio per giorni, invece che per ore. Quando finalmente aprii gli occhi, era giorno, e i capelli della ragazza erano sul mio viso, e lei respirava normalmente. Ringraziai Dio per questo. Si era girata durante la notte, così che quando aprii gli occhi vidi il suo viso a pochi centimetri dal mio, le mie labbra quasi a toccare le sue.
Fu Nobs che finalmente la svegliò. Si alzò, si stiracchiò, si girò alcune volte e si sdraiò di nuovo, e la ragazza aprì gli occhi e guardò nei miei. I suoi all'inizio si spalancarono, poi lentamente ricordò, e sorrise.
«Siete stato molto buono con me», disse, mentre l’aiutavo ad alzarsi, anche se, a dire la verità, avevo più bisogno di assistenza di lei; la circolazione del sangue lungo tutto il mio lato sinistro sembrava completamente paralizzata. «Siete stato molto buono con me». E questo fu l’unico accenno che fece alla faccenda; tuttavia avevo capito che mi era grata e che solo il pudore le impediva di fare riferimento a quella situazione a dir poco imbarazzante, per quanto inevitabile.
Poco dopo l’alba vedemmo del fumo che sembrava venire dritto verso di noi, e dopo un po’ scorgemmo la sagoma tozza di un rimorchiatore, uno di quegli impavidi esponenti della supremazia inglese sul mare che rimorchia i velieri nei porti francesi e britannici. Mi misi in piedi su un contrafforte e agitai il cappotto fradicio sopra la testa. Nobs era in piedi su un altro e abbaiava. La ragazza sedeva ai miei piedi e tendeva gli occhi verso il ponte dell’imbarcazione in arrivo. «Ci vedono», disse infine. «Un uomo sta rispondendo al segnale». Aveva ragione. Mi venne un groppo in gola – pensando a lei, più che a me. Era stata salvata, e al momento giusto. Non avrebbe potuto sopravvivere un’altra notte sulla Manica; non avrebbe potuto arrivare viva al giorno successivo.
Il rimorchiatore si avvicinò e un uomo sul ponte ci gettò una corda. Mani volenterose ci trascinarono sul ponte, Nobs salì a bordo agilmente senza bisogno di aiuto. Quegli uomini rudi furono gentili come madri verso la ragazza. Facendo domande a entrambi, portarono lei nella cabina del capitano e io nel locale caldaie. Dissero alla ragazza di togliersi i vestiti bagnati e di gettarli fuori dalla porta per farli asciugare, e poi di infilarsi nella cuccetta del capitano e scaldarsi. Non c’è stato bisogno che mi dicessero di spogliarmi dopo essere entrato nel calore del locale caldaia. In un batter d’occhio, i miei vestiti erano appesi dove potevano asciugarsi più rapidamente, e io stesso assorbivo, attraverso ogni poro, il piacevole caldo del soffocante ambiente. Ci portarono zuppa calda e caffè, e poi quelli che non erano in servizio si sedettero accanto a me e mi aiutarono a insultare il Kaiser e la sua stirpe.
Non appena i nostri vestiti furono asciutti, ci ordinarono di indossarli, poiché in quelle acque c’erano sempre ottime possibilità di incontrare nemici, come sapevo fin troppo bene. Con il calore e la sensazione di sicurezza per la ragazza, e la consapevolezza che un po’ di riposo e di cibo le avrebbero rapidamente fatto dimenticare le tristi esperienze delle ultime ore, mi sentivo soddisfatto più di prima che quei tre fischi sconvolgessero la pace del mio mondo il pomeriggio precedente.
Ma la pace sulla Manica era una situazione transitoria ormai dall’agosto 1914. Quella mattina non fece eccezione, perché avevo appena indossato i miei abiti asciutti e portato i vestiti della ragazza nella cabina del capitano, quando in sala macchine urlarono l’ordine di andare a tutta velocità, e un istante dopo sentii il sordo colpo di un cannone. In un attimo ero sul ponte e vidi un sottomarino nemico a circa duecento metri dalla nostra prua sinistra. Ci aveva fatto segno di fermarci, e il nostro capitano aveva ignorato l’ordine; ma ora aveva il cannone puntato su di noi, e il secondo colpo sfiorò la cabina, avvertendo il bellicoso capitano del rimorchiatore che era ora di obbedire. Ancora una volta un ordine scese nella sala macchine, e il rimorchiatore ridusse la velocità. L’U-Boot smise di sparare e ordinò al rimorchiatore di avvicinarsi. Il nostro slancio ci aveva portato un po’ oltre l’imbarcazione nemica, ma ora stavamo girando sull’arco di un cerchio che ci avrebbe portato al suo fianco. Mentre osservavo la manovra e mi chiedevo cosa ne sarebbe stato di noi, sentii qualcosa che mi toccava il gomito e quando mi voltai vidi la ragazza al mio fianco. Mi guardò in faccia con un’espressione triste. «Sembrano decisi a distruggerci», disse, «e sembra la stessa barca che ci ha affondato ieri».
«È così», risposi. «La conosco bene. Ho aiutato a progettarla e l’ho guidata nel suo primo viaggio».
La ragazza si ritrasse da me con una piccola esclamazione di sorpresa e delusione. «Pensavo foste un americano», disse. «Non avevo idea che foste un...»
«Nemmeno io», risposi. «Gli americani hanno costruito sottomarini per tutte le nazioni per molti anni. Sarebbe stato meglio, però, che fossimo andati in bancarotta, io e mio padre, prima di produrre quel Frankenstein».
Ci stavamo avvicinando all’U-Boot a velocità ridotta, e potevo quasi distinguere i lineamenti degli uomini sul suo ponte. Un marinaio si avvicinò al mio fianco e mi mise in mano qualcosa di duro e freddo. Non dovetti guardarlo per capire che era una pesante pistola. «Prendila e usala», fu tutto quello che disse.
La nostra prua era puntata dritta verso l’U-Boot, mentre sentivo passare parola alla sala macchine di andare a tutta velocità. Capii immediatamente la sfacciataggine del coraggioso capitano inglese: stava per speronare cinquecento tonnellate di U-Boot davanti al suo cannone. Riuscii a malapena a reprimere un applauso. All’inizio i crucchi non sembrarono capire. Evidentemente pensavano di assistere a una pessima esibizione di arte marinaresca, e avvertirono il rimorchiatore di ridurre la velocità e spingere il timone a babordo.
Eravamo a cinquanta piedi da loro quando compresero l’intenzionalità della nostra manovra. L’equipaggio del loro cannone era fuori guardia; ma subito corsero alla loro arma e mandarono un inutile proiettile sopra le nostre teste. Nobs saltò e abbaiò furiosamente. «Fategliela vedere!», ordinò il capitano del rimorchiatore, e all’istante rivoltelle e fucili riversarono proiettili sul ponte del sommergibile. Due dell’equipaggio del cannone finirono a terra; gli altri puntarono il loro pezzo d’artiglieria sulla linea d’acqua del rimorchiatore in arrivo. Il resto di quelli sul ponte rispose al nostro fuoco di armi leggere, dirigendo i loro sforzi verso l’uomo al timone.
Spinsi frettolosamente la ragazza giù per il corridoio che portava alla sala macchine, poi sollevai la pistola e sparai il mio primo colpo a un crucco. Ciò che accadde nei secondi successivi fu così rapido che i dettagli sono piuttosto sfocati nella mia memoria. Il timoniere si sporse, tirando la barra in modo che il rimorchiatore si allontanasse rapidamente dalla sua rotta, e ricordo di aver capito che tutti i nostri sforzi sarebbero stati vani, perché di tutti gli uomini a bordo, il destino aveva decretato che proprio lui dovesse cadere per primo sotto un proiettile nemico. Vidi l’equipaggio esausto del sottomarino sparare con il cannone, sentii lo shock dell’impatto e la fragorosa esplosione quando il proiettile raggiunse il bersaglio e scoppiò sulla nostra prua.
Vidi e compresi queste cose mentre saltavo nella cabina di pilotaggio e afferravo il timone, a cavalcioni del cadavere del timoniere. Con tutte le mie forze gettai il timone a dritta; ma era troppo tardi per raggiungere lo scopo del nostro capitano. Il meglio che potevo fare era di speronare il sottomarino. Sentii qualcuno gridare un ordine nella sala macchine; la barca tremò e si agitò per l’improvvisa inversione dei motori, e la nostra velocità diminuì rapidamente. Poi capii cosa si era inventato quel pazzo del capitano dopo che il suo primo piano era andato a monte.
Con un ordine ad alta voce, saltò sul ponte scivoloso del sommergibile, e alle sue calcagna lo seguì il suo intrepido equipaggio. Io balzai dalla cabina di pilotaggio e lo seguii, per non essere lasciato fuori al freddo quando si trattava di colpire i crucchi. Dal corridoio della sala macchine arrivarono l’ingegnere e i magazzinieri, e insieme ci tuffammo dietro al resto dell’equipaggio nella lotta corpo a corpo che stava insanguinando il ponte. Accanto a me venne anche Nobs, ora silenzioso e torvo. I tedeschi stavano uscendo dal boccaporto per prendere parte alla battaglia sul ponte. All’inizio le pistole crepitarono tra le imprecazioni degli uomini e gli ordini ad alta voce del comandante e del suo subalterno; ma presto fummo troppo indiscriminatamente mescolati per rendere sicuro l’uso delle armi da fuoco, e la battaglia si risolse in una lotta corpo a corpo per il possesso del ponte.
L’unico obiettivo di ciascuno di noi era quello di gettare in mare un avversario. Non dimenticherò mai l’orribile espressione sul volto del grande prussiano con cui il caso mi mise a confronto. Abbassò la testa e si precipitò su di me, muggendo come un toro. Con un rapido passo laterale e abbassandomi sotto le sue braccia tese, lo schivai; e mentre si girava per tornare verso di me, gli assestai un colpo sul mento che lo fece roteare verso il bordo del ponte. Vidi i suoi tentativi selvaggi di ritrovare l’equilibrio; lo vidi rullare come un ubriaco per un istante sull’orlo dell’eternità e poi, con un forte urlo, scivolare in mare. Nello stesso istante un paio di braccia gigantesche mi circondarono da dietro e mi sollevarono completamente da terra. Inutile scalciare e contorcermi, non potevo né girarmi verso il mio avversario né liberarmi dalla sua presa d’acciaio. Mi stava spingendo implacabilmente verso il fianco della nave e verso la morte. Non c’era nessuno a trattenerlo, perché ciascuno dei miei compagni era occupato da uno o più nemici. Per un istante temetti per la mia vita, e poi vidi qualcosa che mi riempì di un terrore molto più grande.
Il mio crucco mi stava portando verso il fianco del sottomarino contro il quale stava ancora sbattendo il rimorchiatore. Il fatto che sarei stato schiacciato a morte passò in secondo piano quando vidi la ragazza in piedi da sola sul ponte del rimorchiatore, quando vidi la poppa sollevata in aria e la prua che si preparava all’immersione finale, quando vidi la morte da cui non potevo salvarla afferrare la gonna della donna che ora sapevo fin troppo bene di amare.
Avevo forse una frazione di secondo in più da vivere quando sentii un ringhio rabbioso dietro di noi mescolarsi con un grido di dolore e di rabbia del gigante che mi immobilizzava. All’improvviso, ricadde all’indietro sul ponte e, nel farlo, aprì le braccia per tenersi in equilibrio, liberandomi. Caddi pesantemente su di lui, ma mi rimisi subito in piedi. Mentre mi alzavo, lanciai un solo sguardo al mio avversario. Mai più avrebbe minacciato me o un altro, perché le grandi fauci di Nobs si erano chiuse sulla sua gola. Poi mi lanciai verso il ponte e verso la ragazza sul rimorchiatore che affondava.
«Salta!», gridai. «Salta!» E le tesi le braccia. Immediatamente, come se avesse una fiducia assoluta nella mia capacità di salvarla, saltò oltre il bordo del rimorchiatore verso il fianco e scivoloso dell’U-Boot. Mi allungai per prenderle la mano. Nello stesso istante il rimorchiatore puntò la poppa dritta verso il cielo e precipitò fuori dalla vista. La mia mano mancò quella della ragazza per una frazione di millimetro, e la vidi scivolare in mare; ma non aveva ancora toccato l’acqua quando la seguii.
Il rimorchiatore che affondava ci portò molto al di sotto della superficie; ma io l’avevo afferrata nel momento in cui avevo toccato l’acqua, e così andammo giù insieme, e insieme risalimmo a pochi metri dall’U-Boot. La prima cosa che sentii fu Nobs che abbaiava furiosamente; mi aveva perso e mi stava cercando. Un solo sguardo al ponte della nave mi assicurò che la battaglia era finita e che eravamo vittoriosi, perché vidi i nostri superstiti tenere una manciata di nemici in punta di pistola, mentre uno a uno il resto dell’equipaggio usciva dall’interno dell’imbarcazione e si allineava sul ponte con gli altri prigionieri.
Mentre nuotavo verso il sottomarino con la ragazza, il persistente abbaiare di Nobs attirò l’attenzione di alcuni membri dell’equipaggio del rimorchiatore, così che non appena raggiungemmo il bordo, si allungarono mani per aiutarci a salire a bordo. Chiesi alla ragazza se fosse ferita, ma lei mi assicurò che questo secondo bagno non era andato peggio del primo, e non sembrava soffrire di shock. Avrei imparato presto che questa creatura esile e apparentemente delicata possedeva il cuore e il coraggio di un guerriero.
Mentre ci riunivamo al nostro gruppo, trovai l'equipaggio del rimorchiatore che controllava i superstiti. Eravamo rimasti in dieci, esclusa la ragazza. Il nostro coraggioso capitano era scomparso, così come altri otto. Eravamo in diciannove nel gruppo d’attacco e durante la battaglia avevamo eliminato in un modo o nell’altro sedici tedeschi e avevamo fatto nove prigionieri, compreso il comandante. Il suo luogotenente era stato ucciso.
«Non è andata male», disse Bradley, l’ufficiale di bordo, quando ebbe completato l’esame. «Però perdere lo skipper», aggiunse, «è stato un brutto colpo. Era un brav’uomo, un brav’uomo».
Olson – che nonostante il suo nome era irlandese e nonostante non fosse scozzese era stato l’ingegnere del rimorchiatore – si unì a me e Bradley. «Sì», concordò, «non è andata male, ma cosa possiamo fare adesso?»
«Porteremo il sottomarino nel più vicino porto inglese», disse Bradley, «e poi scenderemo tutti a terra e prenderemo la nostra medaglia al merito», concluse ridendo.
«Come farai a portarlo?», chiese Olson. «Non ci si può fidare di questi tedeschi».
Bradley si grattò la testa. «Credo che tu abbia ragione», ammise. «E non so niente di un sottomarino».
«Io sì», intervenni. «Ne so più io di questo particolare sottomarino che l’ufficiale che lo comandava».
Entrambi gli uomini mi guardarono con stupore, e allora dovetti spiegare tutto di nuovo come avevo fatto alla ragazza. Bradley e Olson ne furono entusiasti. Immediatamente fui messo al comando, e la prima cosa che feci fu andare sottocoperta con Olson e ispezionare accuratamente l’imbarcazione alla ricerca di crucchi nascosti e macchinari danneggiati. Non c’erano tedeschi sotto, e tutto era intatto e funzionante a dovere. Poi ordinai all’equipaggio di andare sotto, tranne un uomo che doveva fare da vedetta. Interrogando i tedeschi, scoprii che tutti, tranne il comandante, erano disposti a riprendere i loro posti e ad aiutare a condurre la nave in un porto inglese. Credo che fossero sollevati dalla prospettiva di essere trattenuti in un comodo campo di prigionia inglese per la durata della guerra, dopo i pericoli e le privazioni che avevano subito. L’ufficiale, tuttavia, mi assicurò che non avrebbe mai preso parte alla cattura della sua nave.
Non c’era quindi altro da fare che mettere l’uomo ai ferri. Mentre ci preparavamo a mettere in atto questa decisione, la ragazza scese dal ponte. Era la prima volta che lei e l’ufficiale tedesco si vedevano in faccia da quando eravamo saliti sull’U-Boot. Stavo aiutando la ragazza a scendere la scala e la tenevo ancora per il braccio – anche se questo sostegno non era più necessario – quando lei si voltò e guardò dritto in faccia il tedesco. Entrambi lanciarono un’improvvisa esclamazione di sorpresa e sgomento.
«Lys!» gridò lui, e fece un passo verso di lei.
Gli occhi della ragazza si spalancarono, e lentamente si riempirono di un grande orrore, mentre si ritraeva. Poi la sua esile figura si irrigidì come fosse un soldato, e con il mento in aria e senza dire una parola voltò le spalle all’ufficiale.
«Portatelo via», ordinai ai due uomini che lo custodivano, «e mettetelo ai ferri».
Quando se ne fu andato, la ragazza alzò gli occhi sui miei. «È il tedesco di cui parlavo», disse. «È il barone von Schoenvorts».
Mi limitai a inclinare la testa. Lo aveva amato! Mi chiesi se nel suo cuore non lo amasse ancora. D’un tratto divenni follemente geloso. Odiavo il barone Friedrich von Schoenvorts con una tale intensità che quell’emozione mi riempiva di una specie di esaltazione.
Ma non ebbi molte possibilità di godermi il mio odio, perché quasi subito la vedetta si affacciò al boccaporto e gridò che c’era del fumo all’orizzonte, davanti a noi. Immediatamente andai sul ponte a indagare, e Bradley venne con me.
«Se sono amici», disse, «ci parleremo. Altrimenti, li affonderemo – eh, capitano?»
«Sì, tenente», risposi, e fu il suo turno di sorridere.
Issammo la Union Jack e rimanemmo sul ponte, chiedendo a Bradley di andare sotto e di assegnare a ciascun membro dell’equipaggio un compito, mettendo un inglese armato accanto a ogni tedesco.
«Mezza velocità in avanti», ordinai.
Colmammo rapidamente la distanza tra noi e i nuovi arrivati, finché potei vedere chiaramente l’insegna rossa della marina mercantile britannica. Il mio cuore si gonfiò di orgoglio al pensiero che di lì a poco gli inglesi si sarebbero congratulati con noi per la nostra notevole cattura; e proprio in quel momento il piroscafo mercantile doveva averci avvistato, perché virò improvvisamente verso nord, e un momento dopo dai suoi fumaioli uscì una densa quantità di fumo. Poi, seguendo una rotta a zig zag, fuggì da noi come se fossimo la peste. Cambiai la rotta del sottomarino e mi misi all’inseguimento; ma il piroscafo era più veloce di noi e presto ci lasciò irrimediabilmente indietro.
Con un sorriso malinconico, ordinai di riprendere la nostra rotta originale, e ancora una volta partimmo verso l’allegra Inghilterra. Questo accadeva tre mesi fa, e non siamo ancora arrivati; né c’è alcuna probabilità che lo faremo mai.
Il piroscafo che avevamo appena avvistato doveva aver lanciato un avvertimento via radio, perché non passò mezz’ora prima che vedessimo altro fumo all’orizzonte, e questa volta la nave portava l’insegna bianca della Royal Navy ed era armata. Non virò verso nord o altrove, ma si avvicinò rapidamente. Mi stavo preparando a fare un segnale, quando una fiamma balenò dalla prua, e un istante dopo l’acqua di fronte a noi fu spazzata dall’esplosione di una granata.
Bradley era salito sul ponte ed era in piedi accanto a me. «Ancora uno di quelli e avrà la nostra risposta», disse. «Non sembra prendere molto in considerazione la nostra Union Jack».
Una seconda granata passò sopra di noi, e allora diedi il comando di cambiare direzione, ordinando allo stesso tempo a Bradley di andare sotto e dare disposizioni per immergersi. Gli passai Nobs, e seguendoli, mi occupai della chiusura e del fissaggio del portello.
Sembrava che i serbatoi d’immersione non si riempissero mai. Sentimmo una forte esplosione apparentemente proprio sopra di noi; l’imbarcazione tremò tanto che ci gettò tutti sul ponte. Mi aspettavo di sentire da un momento all’altro il rumore dell’acqua che ci sommergeva, ma non arrivò. Invece continuammo a immergerci fino a quando il manometro registrò quaranta piedi e allora seppi che eravamo al sicuro. Al sicuro! Quasi sorridevo. Avevo dato il cambio a Olson, che era rimasto nella torre sotto la mia direzione, essendo stato membro di uno dei primi equipaggi di sottomarini britannici, e avendo quindi una certa conoscenza del settore. Bradley era al mio fianco. Mi guardò con aria interrogativa.
«Che diavolo dobbiamo fare?», chiese. «Il mercantile ci sfuggirà; la nave da guerra ci distruggerà; nessuno dei due crederà alla nostra bandiera o ci darà la possibilità di spiegare. Incontreremo un’accoglienza ancora peggiore se andremo a curiosare in un porto britannico: mine, reti e tutto il resto. Non possiamo farlo».
«Riproviamoci quando questi tizi avranno perso le nostre tracce», lo spronai. «Dovrà arrivare una nave che ci creda».
E ci riprovammo, solo per essere quasi speronati da un enorme mercantile. Più tardi fummo attaccati da un cacciatorpediniere, e due mercantili si voltarono e fuggirono al nostro arrivo. Per due giorni navigammo su e giù per la Manica cercando di dire a tutti che eravamo amici; ma nessuno ci ascoltava. Dopo l’incontro con la prima nave da guerra, avevo dato istruzioni di inviare un messaggio senza fili per spiegare la nostra situazione, ma con mio disappunto scoprii che gli strumenti di trasmissione e ricezione erano scomparsi.
«C’è solo un posto dove puoi andare», mi disse von Schoenvorts, «ed è Kiel. Non puoi sbarcare da nessun’altra parte in queste acque. Se lo desideri, ti ci porterò, e posso prometterti che sarai trattato bene».
«C’è un altro posto dove possiamo andare», risposi, «e lo faremo prima di andare in Germania. Quel posto è l’inferno».