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Aveva la pelle e i capelli più chiari che avesse mai visto. La pelle non era semplicemente pallida, era quasi trasparente. I capelli erano più bianchi che biondi. Come quelli di un vecchio, erano sottilissimi, ma erano anche foltissimi, lustri e lisci.
«È un albino?» sussurrò a Ethel, mentre gli si avvicinavano.
«Non credo. Gli albini non hanno gli occhi rossi?» rispose lei.
Erano troppo vicine perché Kril potesse ribattere senza farsi sentire, così si limitò a scuotere le spalle.
Moon Whittaker inclinò la testa da un lato e la osservò come se stesse riflettendo. Gli occhi erano grigi, non rossi, ma, al contrario di Ethel, Kril sapeva benissimo che la maggior parte degli albini aveva gli occhi arrossati, non rossi.
Gli albini, di solito, avevano gli occhi azzurri.
«Signor Whittaker» disse Ethel «questa è la persona di cui le ho parlato, Kril Stephens».
Whittaker sorrise educatamente e allungò una mano candida. Kril la trovò secca e fresca, dalla stretta solida.
«Possiamo sederci lì. Grazie, Ethel».
Kril lo seguì verso le poltrone e il tavolino che erano in un angolo della sala, mentre Ethel si ritirava. Whittaker l’aveva mandata via senza tante cerimonie, anche se forse lei si aspettava di restare.
Whittaker si lasciò scivolare su una poltrona. Non doveva arrivare ai quaranta, stabilì Kril. Era alto e snello. Aveva dei lineamenti regolari, delicati, forse un po’ androgini, ma non sgradevoli. Kril non capiva quale fosse il problema.
Forse era gay, forse misogino.
Kril si sedette sull’altra poltrona.
«Non sono gay, e non sono nemmeno misogino» disse Whittaker, accavallando le gambe. «Sono solo un telepate».
Kril restò con la bocca aperta.
Lui le rivolse un sottile sorriso. «Voleva sapere quale fosse il problema» spiegò, come se volesse scusarsi per averla lasciata senza parole. Fece vagare lo sguardo sul soffitto dell’ufficio. «Non sono neanche albino» aggiunse. «Nel caso le interessasse».
«È assurdo» disse Kril.
Whittaker si strinse nelle spalle.
«Lo so. Vogliamo parlare di affari?».
Kril abbozzò un sorriso. Be’, forse era pazzo, ma avrebbe pagato. «Okay» disse.
«Ovviamente, pagherò» confermò Whittaker. «Volevo semplicemente vederla in faccia. Accertarmi che fosse degna di fiducia». Si strinse di nuovo nelle spalle. «Quel minimo di fiducia che mi serve per lasciare che porti nella pancia mio figlio per nove mesi. La sua fibra morale non mi interessa, è chiaro. Mi bastano i suoi certificati medici, il suo aspetto e la ragionevole certezza che lei non sia una drogata o un’alcolista».
Be’, non si poteva dire che avesse peli sulla lingua, pensò Kril.
«Non sono una sbandata» disse. «La prima volta mi è successo per caso. È andata bene, così ho pensato di rifarlo».
«Non potrà continuare in eterno» le fece notare lui.
«Mi sto laureando» precisò Kril. «Suo figlio mi pagherà le ultime tasse».
Osservò per un istante quegli occhi grigi e tutt’altro che albini. «Non ho intenzione di bere, fumare o drogarmi. È scritto nel contratto».
«Volevo sincerarmi che lei fosse una persona onesta. Sarà...» si strinse nelle spalle «...partorirà mio figlio» concluse.
Il gelido figlio di puttana, pensò Kril...
«...Il gelido figlio di puttana desidera un figlio, già» completò il suo pensiero l’altro. Kril arrossì, Whittaker sorrise, divertito. «Chissà, forse non sarò così gelido, con il bambino».
«Sa, inizio a capire perché ha delle difficoltà nei rapporti interpersonali. È snervante» disse lei.
«Lo è anche per me» ammise Whittaker, alzandosi. «Bene. Questo era tutto. Ci rivedremo tra circa tre mesi».
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Nel successivo mese e mezzo, Kril assistette a uno spettacolo quasi ipnotico: quello che potevano fare i soldi.
Non era il dispiegamento di mezzi a colpirla, era la sobrietà di quel dispiegamento di mezzi. Whittaker avrebbe potuto pagare un intervento di inseminazione in una clinica privata, naturalmente, ma non era il sistema che aveva scelto. Invece, tutte le mattine si presentavano a casa sua un medico e un infermiere. La facevano stendere su letto e le inserivano dentro una specie di siringa piena di liquido seminale.
Ethel le aveva proposto questa possibilità con una certa titubanza. Le aveva spiegato che avrebbero potuto estrarle degli ovuli, fecondarli e impiantarli già fecondati. Era un procedimento chirurgico, certo, ma era più asettico. Era anche più stressante, naturalmente. Se il primo impianto non fosse andato a buon fine avrebbero dovuto ripeterlo impiantando più di un ovulo fecondato. C’era la possibilità che si trovasse a dover gestire una gravidanza gemellare.
Kril aveva preferito la seconda possibilità. Venire in contatto con un po’ di sperma non le sembrava particolarmente insopportabile, paragonato allo stress di un impianto embrionale.
Durante la prima gravidanza, il problema non si era posto. Kril era già incinta, quando le avevano chiesto di portare a termine la gestazione e affidare la bambina a una coppia benestante. In realtà, Kril era stata felice di non aver abortito. Sua figlia viveva in un’ottima famiglia, ora, così si ripeteva.
Era tramite quella famiglia che Ethel l’aveva selezionata, si era informata sul suo conto e l’aveva avvicinata. Kril immaginava che ci fossero state delle vere e proprie selezioni, in qualche ufficio della Whittaker Ltd. Immaginava anche che Moon Whittaker non avesse avuto particolari problemi a mettere le mani sulle sue cartelle cliniche, scolastiche e su tutti i documenti che la riguardavano. Non era offesa. Capiva che volesse essere sicuro della propria scelta.
In fondo, poteva permetterselo. Chiunque si sarebbe comportato come lui, potendoselo permettere. Chiunque voleva il meglio per suo figlio.
Aveva dovuto firmare un contratto di duemila pagine, e capiva anche quello.
Infine, capiva perché Ethel le avesse proposto un’inseminazione quasi artigianale. Whittaker la voleva rilassata, a suo agio, non stressata e non sottoposta a interventi medici tutto considerato inutili.
Preferiva pagare uno specialista perché le portasse a domicilio una dose di liquido seminale tutte le mattine e glielo inserisse molto tranquillamente là dove sarebbe finito se solo Whittaker stesso avesse potuto sopportare di fare sesso con qualcuno.
Ma Whittaker non lo poteva sopportare, questo era chiaro. Passare dieci minuti con lui era stata una delle esperienze più stressanti della vita di Kril. Passare dieci minuti nel letto con una donna, specialmente con il preciso scopo di ingravidarla, sentendo tutti i suoi pensieri, per lui doveva essere semplicemente impossibile.
In un certo senso, quasi le dispiaceva per lui. Doveva essere faticoso.
Naturalmente, neanche i vantaggi dovevano essere roba da poco. La Whittaker Ltd era un’azienda multimilionaria e sapere che cosa pensava la gente era stato di certo utile.
Comunque, Kril aveva acconsentito all’inseminazione intracervicale. Era una donna giovane e sana, non c’erano ragioni per cui non avrebbe dovuto restare incinta in questo modo.
«Non ti dà fastidio pensare che ti stanno infilando dentro il prodotto di un paio di seghe, probabilmente anche piuttosto recenti?» le aveva chiesto Sonia, la sua coinquilina, genuinamente interessata.
Kril si era stretta nelle spalle.
«E non puoi fare sesso con nessuno finché non resti incinta» aveva aggiunto lei.
«Be’, no. Non si sa mai. Ma tanto, non avevo grandi possibilità lo stesso» aveva concluso. Non aveva aggiunto che se il figlio non fosse stato di Whittaker l’avrebbero messa sulla graticola. Era scontato. Inoltre, non poteva rivelare a nessuno l’identità del donatore, per nessun motivo.
Il test di gravidanza risultò positivo dopo un mese e mezzo di questa routine.
Kril telefonò a Ethel e le comunicò la buona notizia.
Il giorno dopo, invece del solito medico, ricevette a casa un mazzo di fiori.
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La ginecologa aveva confermato la gravidanza, aveva eseguito alcune analisi preliminari e si era congratulata. La ginecologa era una professionista dall’eccellente curriculum, ma non aveva idea della situazione. Le sue parcelle venivano saldate da Kril, che attingeva a un conto che era stato aperto appositamente allo scopo a suo nome.
Con lo stesso conto Kril pagava le lezioni di yoga, i massaggi e tutte le spese che avevano direttamente o indirettamente a che vedere con il suo benessere.
Alla quinta settimana, le venne fissato un altro appuntamento con Moon Whittaker.
Questa volta venne indirizzata verso il suo ufficio, all’ultimo piano del palazzo della Whittaker Ltd. Una segretaria sulla cinquantina la fece entrare immediatamente, lanciandole una strana occhiata.
Probabilmente Kril stava ancora pensando a quell’occhiata, quando entrò, perché Whittaker inclinò la testa da un lato e una piccola ruga si disegnò sulla sua fronte liscia e candida. Poi le strinse la mano e la invitò ad accomodarsi.
Era un ufficio grande, ma non dalle dimensioni ciclopiche come quello che aveva visto durante la visita precedente. Arredato con gusto squisito, vagamente antiquato, aveva una grande vetrata da cui si dominava mezza Brooklyn.
«Magda non capisce» spiegò Whittaker, con un gesto vago in direzione della porta, ora chiusa. «Pensa che avrei potuto impegnarmi di più. È un’ottima segretaria, però, e non mi manda al diavolo mentalmente più di due o tre volte al giorno».
Kril scrollò le spalle. «Le occhiate non mi danno fastidio. Il fatto di non sapere che cosa frulla nel cervello della gente mi aiuta ad averne una buona opinione. Posso pensare il meglio».
Whittaker sorrise appena. «Già» disse. Le indicò il divano. «Prego. Posso offrirle qualcosa da bere?».
«Un caffè» disse Kril.
Whittaker, che si era voltato per andare verso un mobile-frigo, si girò verso di lei e inarcò un sopracciglio.
Kril rise. «Un succo di frutta. Volevo solo vedere la sua reazione».
«Lo so» sorrise lui. Prese una bottiglietta dal frigo, un bicchiere e li posò sul tavolino di fronte al divano. Succo di frutta al mango, naturalmente, il gusto di cui Kril aveva voglia in quel momento.
Si sedette all’altro capo del divano e accavallò le gambe. «Come va?» chiese.
Kril bevve un sorso. «Non lo sa già?».
«Oh, via. Ora mi sopravvaluta. So come va ora. E, se avesse un problema che la assilla, saprei anche quello. Ma non so se questa mattina era felice o infelice, se ieri è rimasta bloccata nel traffico o se una settimana fa ha litigato con sua madre».
Kril sorrise appena. «Stamattina ero infelice, naturalmente. Nausee. Di già. Ma nel complesso tutto okay. Sto studiando, passeggiando, facendo yoga e tutte quelle cose rilassanti che possono permettersi le donne incinte con un conto corrente sempre pieno».
Whittaker fece un gesto distratto con una mano. «Sarà sempre pieno, non si preoccupi» disse. Tornò a guardarla. «Lei si fa dei problemi che non esistono. Se pagare il taxi con i miei soldi, se usare il suo conto gravidanza per andare al pub con i suoi amici, al cinema o a teatro. Se la bolletta della luce rientra tra le spese che può accreditarmi».
«Be’, no» rise Kril, «la bolletta della luce non mi è mai passato per la testa di...»
«Non. Ha. Importanza» la interruppe lui. La sua espressione si addolcì leggermente. «Non mi importa» ripeté, in tono più morbido. «Non voglio sembrarle brutale, ma sono troppo ricco perché mi importi. Vorrei parlarle di un’altra cosa».
Kril sospirò. «Lei è terribile» sorrise.
Whittaker inarcò un sopracciglio. Educatamente, perché sembrava che l’educazione fosse tutto quello che lo separava dall’impazzire.
Aprì leggermente la bocca, stupito. Poi sorrise appena. «Sì» disse. «Sì, l’educazione è tutto quel che mi separa dall’impazzire. Ha ragione». Si tirò indietro i capelli, vagamente estenuato. «E so che interagire con me è una delle cose più stressanti e complicate che possa capitare a un essere umano. Per questo cercherò di vederla il meno possibile. Ma le volevo parlare di... qualcosa».
«Ce ne sono altri? Come lei, intendo» chiese Kril.
Lo sguardo grigio di Whittaker tornò sul suo viso, pensieroso. «È proprio questo il punto, non trova?».
Kril inclinò la testa da un lato, perplessa. Poi la colpì un’idea. Il bambino...
«Non lo so» disse Whittaker. «Ora non...»
«Non lo sente, è vero? È troppo piccolo».
L’altro annuì. Poi sorrise appena. «È come... una lievissima increspatura. Normalmente, non ci farei caso. Quando mi è capitato di incontrare donne al settimo, all’ottavo mese... li ho sentiti. Non perfettamente, è ovvio. E con i bambini, in generale, è... diverso. Ma non intendevo parlarle di questo».
Kril, scossa, bevve un altro sorso di succo di frutta. «No, voleva dirmi che anche suo figlio potrebbe essere... ecco».
«Lo so. Ha un suono ridicolo. La parola telepate, dico».
Kril annuì.
Poi aggrottò la fronte. «Non può smettere? Vorrei proprio avere un momento di privacy, ora».
Whittaker scosse la testa. «Mi rendo conto» disse, vagamente dispiaciuto. «No, non posso smettere. Possiamo vederci in un altro momento, però».
«Anche al telefono?» chiese lei.
«Anche al telefono» confermò lui. «Mi può mandare un’e-mail, però».
«Oh, cielo!» rise lei.
Sorrise anche lui.
«È terribile, al telefono, sa. Si... appiattisce tutto. Diventa un miscuglio. Comunque... sapevo di averla scelta bene. La ringrazio».
Kril sbatté lentamente le palpebre. «Perché?».
«Per i suoi buoni pensieri» rispose lui. «Prova affetto, verso il bambino. Non lo considera una seccatura. Spera che se la possa cavare, con un genitore... ah. Sì, è una persona gentile, è quello che intendevo. Nello stesso tempo, non è suo figlio. Non è molto preoccupata. Non la trattengo oltre» concluse, quasi all’improvviso.
Kril si alzò, un po’ frastornata.
Lei dovrebbe fidarsi di più, degli altri, pensò, deliberatamente.
«Temo di conoscerli troppo intimamente per poterlo fare» rispose lui, accompagnandola alla porta.
Di certo, c’è qualcuno che desidera provare a renderle le cose più facili.
«Sì» annuì Whittaker. «Lei è uno di questi. La ringrazio ancora. Mi scriva, se vuole».
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Gli scrisse, ma non perché sentisse il bisogno di farlo. Whittaker era incredibile, certo, ma Kril non riusciva a essere davvero curiosa. Era, semplicemente, troppo.
Gli scrisse per cortesia, perché farlo non le costava niente. Nella prima e-mail, gli chiese se gli avrebbe fatto piacere ricevere degli aggiornamenti sulla gravidanza.
“Sì, grazie” rispose, semplicemente, lui.
Così, circa una volta alla settimana, Kril gli mandò dei brevi resoconti. Erano lettere schematiche, il cui contenuto era perlopiù riassumibile in “qua tutto bene”.
Immaginava che per una persona abituata a sapere praticamente tutto, non sapere praticamente niente del figlio che aspettava fosse particolarmente insopportabile.
Le sue risposte erano sempre dei brevi ringraziamenti. A volte le spediva delle cose. Un pacco di biscotti allo zenzero svedesi per le nausee (fatto arrivare direttamente dalla Svezia). Una Nintendo Wii (chissà come gli era venuto in mente). Un paio di jeans con la pancia elasticizzata (con almeno tre mesi di anticipo, e Kril ne aveva già tre). Un libro di ricette. Un grosso volume sull’architettura Bauhaus (Kril si stava laureando in architettura ed era un magnifico volume, molto pregiato, ma metà delle foto si trovavano anche su internet).
Kril non aveva idea del significato di quei doni, ma immaginava che fosse un modo come un altro di dimostrare la sua gratitudine, come se i soldi, da soli, non bastassero.
Verso la metà del quarto mese le chiese un altro incontro. Kril se lo aspettava. Era stato relativamente riservato, fino a quel momento, ma sapeva che voleva vedere con i suoi occhi gli ultimi progressi. E, forse, voleva anche capire se suo figlio era come lui oppure no.
Molto onestamente, Kril sperava di no.
La accolse nello stesso ufficio dell’incontro precedente.
«Oh» disse, per prima cosa. E sorrise.
«Lo sente» dedusse Kril.
«Mh-mh. Un’eco decisamente più definita dell’ultima volta. È...» si interruppe.
«È?» incalzò Kril, vagamente in ansia.
Lui sorrise appena. «Un ragazzo. Intendevo dire che è un maschietto, nient’altro. Vedo che non lo sapeva ancora e, naturalmente, so che non lo sapeva».
«Be’, gliel’avrei detto, non crede? Le ho spedito le ecografie» rispose lei, sorridendo. «Complimenti, quindi».
Whittaker fece una strana espressione, come se ricevere dei complimenti lo stupisse. Ritornò alla consueta espressione distante abbastanza alla svelta e le fece cenno di sedersi. Poi le portò un’arancia senza che lei chiedesse niente.
«Ed è? Lo sa...» chiese, sedendosi a sua volta. «Voglio dire... si sente?».
Kril ridacchiò. «Sì, certo. Ora vorrà vedere la pancia, presumo».
Whittaker spostò lo sguardo sulla sua pancia. La gravidanza non era ancora particolarmente visibile e Kril indossava un maglione abbastanza largo. Aveva preso un paio di chili, non di più.
«Be’» disse lui.
Kril si alzò e si sollevò un po’ il maglione. «Niente di eccezionale, come vede. E, sì, se vuole può anche metterci una mano sopra. Tra qualche mese, lo faranno tutti».
«Oh, cielo» mormorò lui, scuotendo la testa. Appoggiò una mano sopra alla sua pancia, al di sopra della canottiera. Kril si chiese che cosa provasse, ma si affrettò a dirgli, mentalmente, che non era una vera richiesta di informazioni.
Whittaker chiuse gli occhi e rimase semplicemente lì, assorto, con la mano sulla piccola calotta della sua pancia.
«Non saprei descriverlo a parole, sa? Quello che percepisco. È... complesso. Sento lui, sento lei. Sento la... relazione, che avete. È suo figlio, in questo momento. Poi me lo lascerà. Si sta preparando. Mi... scusi» aggiunse, facendo un passo indietro.
Kril, per un attimo, era rimasta senza fiato. Naturalmente, aveva ragione lui. Era suo figlio, in quel momento. Solo, non ci aveva ancora pensato.
«È un processo coinvolgente» mormorò. Le sembrò quasi di essere stata sorpresa con le mani nella marmellata. Come se gli volesse rubare il bambino.
Whittaker scosse la testa. «No. No. È tutto okay, davvero». Fece un vago gesto nell’aria. «È ridicolo che sia io a dirle che è tutto okay. È quasi... sacro. Non badi a me».
Non penso più che lei sia un gelido figlio di puttana.
Lui sorrise appena, tornando a sedersi. «Molto gentile» disse, vagamente sarcastico. «Ma lo sono, non si lasci ingannare. E, comunque, sono troppo formale per essere altrimenti. Non sento nessun segnale del fatto che lui ci ascolti, tra l’altro. Ascolta, ma questo è tutto. Nel senso... sente, ode. Tutto qua».
Anche Kril si sedette. «La sua... sa, la sua cosa. Lei che cosa sente? I pensieri, i sentimenti?».
Whittaker sembrò pensarci un attimo. Non a che cosa sentiva, ma a come spiegarlo a lei. «Be’, entrambi. È come un altro linguaggio. Con gli anni, sono arrivato a poter rispondere ai pensieri delle persone come se parlassero, ma è una traduzione. È sempre una traduzione. Ho conosciuto alcune persone... molto sagge. Venerabili. Ho percepito il senso della trascendenza così come loro lo percepivano. L’assoluta elevazione. Ma non sono capace di tradurla, essendo una persona, per mia natura, assai poco spirituale. E quello che sento in lei... non posso tradurre neanche questo. Lo guardo, lo rispetto. Le sembrerà una frase trita, ma in questo momento mi sembra notevolmente più incredibile di me. Alcune volte vorrei cancellarmi. Distorco tutto quello che incontro».
«Potrebbe non dirlo» gli fece notare, lei.
Lui le rivolse un’occhiata divertita. «Non lo faccio, di solito. Nel suo caso, sarebbe stato incosciente non farlo».
Si appoggiò contro lo schienale del divano. «Oh, ma di solito... Limitiamoci a dire che negli affari i miei piccoli segreti mi aiutano».
Kril rise. Ne era certa.
«È possibile che lei sia diventato moto comprensivo?» chiese, guidata da un’intuizione del momento.
«Non molto, no. Sulle piccole cose, naturalmente. Non sulle grandi. Davvero, sono felice di aver scelto lei. Sarebbe stato tutto molto... complicato, se lei fosse stata una persona più gretta, o più instabile. Deve perdonarmi se le sembro sdolcinato. Portarla a letto è esattamente l’ultima cosa che vorrei».
Kril inarcò le sopracciglia e rise. Aveva pensato...? Be’, probabilmente sì. Quando un uomo ti fa un complimento di solito vuole portarti a letto.
Rise anche lui, quasi sottovoce. «Sì, esatto. Mi immagini come... be’, suppongo che “gay” sia una buona approssimazione, per lei. Per un gay una buona approssimazione sarebbe “etero”. Prima o poi devo sempre fare questo discorso. Non c’è motivo di essere imbarazzati. Mi può anche immaginare come una persona estremamente disturbata. Lo sono».
«No, credo di no» rispose lei. «A meno di non considerare estremamente disturbato un paraplegico perché non vuole fare le scale. Be’, naturalmente, di solito pensiamo che un handicappato abbia qualcosa in meno degli altri. Lei ha qualcosa in più. È... incredibile, meraviglioso. E mi dispiace».
Non avrei dovuto dirlo.
Whittaker inclinò la testa da un lato, pensieroso e distante. «L’avrebbe pensato. Apprezzo che l’abbia detto».
Sì, ma ora è di nuovo terribilmente educato.
«Mi permetta di difendermi, quanto meno».
Vorrei poterla aiutare. Dio, non riesco a smettere di pensare!
«È gentile, da parte sua» ignorò il suo ultimo pensiero, lui. Come se avesse deciso di rispondere solo alla corrente principale del suo flusso interno.
Sì, però la offende, che vorrei aiutarla.
«Sì, mi offende. È sciocco. Inutilmente orgoglioso. Credo che preferirei se ci vedessimo un’altra volta».
E non vuole più ascoltare suo figlio?
«Terribilmente».
Forse dovrei dormire.
«Vedrei i suoi sogni».
È... troppo.
«Sì, lo è. Abbiamo raggiunto il limite. Molto velocemente. Ne sono dispiaciuto, ma sono impotente, in merito».
Kril si alzò di scatto. Sapeva che lui aveva sentito anche il suo pensiero successivo e, sì, avevano raggiunto il limite. Probabilmente era furioso, ora.
Si voltò e andò verso la porta. Una vera e propria fuga.
Si sentì afferrare per un braccio. Non forte. Una semplice stretta, come a chiederle di fermarsi.
Si voltò.
«Furioso no. Mai, con lei» le disse.
Kril lo osservò per un istante. I suoi pensieri erano troppo confusi perché persino lei riuscisse a seguirli. Gli posò una mano sul cuore. Poi ci appoggiò la guancia.
Sentì le sue mani sulle proprie spalle.
Era... gradevole. Era fare la pace, in un certo senso.
Suo figlio, dentro di lei, si mosse.
Kril sorrise, senza spostarle la testa.