Kayla
Sorseggiavo champagne nella hall del Four Seasons di Beverly Hills, appena oltre le porte d'ingresso, in modo da esser vista da chiunque entrasse. Ero calata nel personaggio, interpretavo la mia parte, quindi trascurai la sensazione di non appartenere a quel posto. Quello era un luogo per ricchi e famosi, mentre io ero solo un’aspirante attrice del Wisconsin.
Non avevo ancora visto nessuno di famoso entrare, ma mi balenò in mente l’idea che gironzolare da quelle parti poteva essere una strategia per essere "scoperta".
Non si sa mai. O almeno così eravamo solite dire. Io, le mie coinquiline e tutte le altre attrici disoccupate a Los Angeles.
Mi squillò il telefono, che presi dalla borsa e rispondere quando vidi che si trattava della mia agente.
«Ciao, Lara.»
«Kayla, senti, cancella i programmi per questo finesettimana. Forse riesco a farti avere un'audizione. Ci sto lavorando.»
Questo finesettimana.
Cazzo.
Nei weekend ora appartenevo a Pavel. Ma qui si trattava della mia carriera. Doveva venire prima.
«Sì, va bene» le dissi senza fiato. «Per che cosa?»
«Una nuova serie televisiva diretta da Blake Ensign; penso che saresti perfetta per una delle parti. Ah, mi chiamano e devo rispondere. Ti chiamo presto.»
Lara attaccò nel suo tipico stile da agente importante, anche se non era così importante. Sicuramente non era l'agente degli attori di serie A. E nemmeno di quelli di serie B.
Altrimenti non sarebbe stata la mia, no?
Vabbè. Ero fortunata ad averne una. Più di quanto la maggior parte delle attrici potesse dire. Sospirai, rimisi il telefono nella borsa e sorseggiai un altro po’ di champagne per calmarmi i nervi. Pavel, il mio cattivo russo dominatore, l’indomani avrebbe capito, in caso di conferma dell’audizione. O almeno così credevo.
La verità era che poteva anche essere il mio dominatore, potevamo fare le cose più intime ogni strabiliante finesettimana, ma restavamo degli estranei. Avevo detto dominatore – non fidanzato – perché non c'era niente di simile a un "fidanzato" in Pavel, anche se probabilmente avevamo la stessa età. Non che lo sapessi con certezza, eh. C’erano un milione di cose che non sapevo di Pavel. Come quello che faceva per vivere. O ciò che lo aveva reso un sadico, se si potevano spiegare cose di quel tipo. Probabilmente no. Chissà cosa aveva reso me una sottomessa. Sapevo solo che mi accendeva più di tutto il sesso precedente al Black Light.
Solo il pensiero delle cose che mi avrebbe fatto quella sera mi fece scendere un brivido giù per la schiena. Indossavo un abito da cocktail nero, non abbastanza sinuoso né sexy quanto avrei voluto, ma aveva un colletto euna scollatura profonda che mi sembravano belli bollenti. Speravo che lo pensasse anche Pavel. Incrociai le gambe. Indossavo lussuose autoreggenti nere, del tipo dalla cucitura che correva su per la gamba e terminava con un piccolo fiocco di raso a pochi centimetri dal culo. Avevo cambiato look quindici volte nel tentativo di scegliere quello giusto, e non ero ancora sicura. Mi sentivo un po' una call-girl in attesa del suo john.
Cosa magari anche intrigante in termini cosplay, ma pure un po' troppo simile alla verità.
Non che Pavel mi pagasse. Il primo finesettimana in cui aveva preso un aereo per vedermi, il finesettimana dopo l’abbinamento al Black Light, l’esclusivo club sadomaso dove ci eravamo incontrati, aveva tirato fuori una manciata di banconote prima che ci separassimo.
«Non ti sto pagando» aveva detto nel suo accento sexy. Riusciva a essere severo e autoritario anche quando mi faceva un regalo. «Non pensarci neanche. Sono solo soldi perché non sarò in giro a portarti fuori il resto della settimana.»
Avevo sbattuto le palpebre solo due volte prima di prenderli, con tanto di bacio di Pavel alla tempia.
Riuscivo a malapena a tirare avanti come attrice di spot e piccoli ruoli che faceva promozioni alle feste per pagare l'affitto.
Mi sarebbe piaciuto fare la coraggiosa e l’orgogliosa e dirgli che non avevo bisogno dei suoi soldi, ma in realtà non ero quel tipo di persona. Ero sicuramente il tipo di sopravvissuta da "fa’ attenzione e sii socievole".
Il che significava che, quando arrivava, io l’aiuto lo accettavo.
Quando poi a casa avevo srotolato le banconote, ero rimasta scioccata nello scoprire che non era una mazzettina da venti dollari. Quelli erano pezzi da cento, nove per l'esattezza.
Aveva ripetuto il gesto nei tre finesettimana successivi che eravamo stati insieme, infilandomi grandi quantità di denaro nella borsa o mettendomele direttamente in mano.
«Non ti sto pagando» aveva detto severo con quel sexy accento russo, sfidandomi a contraddirlo.
Un fremito di eccitazione mi colpì come un fulmine nel momento in cui attraversò le porte di vetro.
Da quell’uomo si irradiava un potere che ne contraddiceva la giovinezza e i tatuaggi da uomo di strada. La barba ben tagliata adornava una mascella e un mento quadrati con una fossetta al centro. Sarebbe stato un tipico bellone di Hollywood, salvo per la distinta aria di pericolo che lo accompagnava. Più di una testa si girò per vedere chi stava arrivando.
Eravamo a Los Angeles, quindi c’erano personaggi famosi ovunque, specialmente al Four Seasons, e Pavel sembrava essere uno di loro.
Come sempre indossava abiti costosi, ma la button-down inamidata era aperta sulla gola, rivelando i tatuaggi che strisciavano su dal petto fino al collo. Era un duro della bratva in ogni centimetro. Portava con sé una valigetta che, per esperienza, io sapevo contenere i suoi strumenti di tortura. Cose che avrebbe usato per padroneggiarmi più e più volte per tutto il finesettimana.
Scivolai in avanti sul divano moderno, pronta ad alzarmi, ma lui scosse leggermente la testa e fece passare lo sguardo da me alla fila alla reception.
L'esplosione di farfalle nella pancia mi rese difficile pensare. Decifrarlo. Oltre a sollevare un dito per mezzo secondo, come a indicarmi di aspettare, non mi considerò. Mi superò per mettersi in fila alla reception. Una vampata di calore mi inondò le guance mentre mi sedevo, la spina dorsale dritta, le tette in fuori, in attesa del suo comando. Cercai di respingere il dolore del rifiuto.
Ma non era un rifiuto. Era una prova di obbedienza.
Quanto bene sapevo interpretare i suoi desideri? Quanto ero brava nella gratificazione ritardata? Stava prendendo le sue misure. Per forza.
Tutto ciò che quell'uomo diceva o faceva mi scatenava fluttuazioni interiori. Le sue parole erano comandi deliziosi e fantasiosi. Le sue espressioni tendevano a essere oscure, al limite di una leggera disapprovazione. Mi avrebbe fatto un cenno con un sopracciglio, lanciato uno sguardo di avvertimento. Interpretava il ruolo del padrone severo a pennello. Solo che non ero nemmeno sicura che fosse un ruolo. Tutte le nostre interazioni erano scene degne di un film, ma non credevo che il suo personaggio fosse molto lontano da chi era veramente.
Il problema era che non lo sapevo. A volte non ero nemmeno sicura di volerlo sapere. Stavamo interpretando le nostre fantasie l'uno con l'altra. Perché desiderare anche solo un briciolo di realtà nella cosa?
Un addetto dell'hotel gli portò un vassoio con dei bicchieri pieni di champagne. Lui scosse la testa, ma gli disse qualcosa e poi indicò me. Il dolore svanì. Mi cercava ancora, da bravo padrone. Mi venne offerto altro champagne, che accettai non perché lo volessi, ma perché me l’aveva mandato Pavel.
Fece il check-in e poi venne da me. Stavolta non provai ad alzarmi finché non fui sicura. Finché non tese la mano verso di me. Rimaneva freddo e impassibile. I lineamenti duri del suo volto non rivelavano espressione alcuna. Chissà se era felice di vedermi. Chissà se era contento o scontento del mio vestito o dell’obbedienza con cui avevo aspettato. Posai lo champagne. Non ne avevo più bisogno: un drink era più che sufficiente, per un peso piuma come me.
La mia mano si saldò con la sua quando mi aiutò ad alzarmi. Non disse una parola. Nessun bacio. Neanche un come stai? o ti trovo bene. Niente. Tutto mero business.
Lasciò cadere la valigetta sopra alla mia, mi prese di nuovo per mano e mi condusse verso gli ascensori, trascinando entrambe le valigie con la mano libera. Le farfalle si fecero uragano, una spirale dal volo frenetico.
Non lo capivo, e il mio bisogno di compiacere – di giocare bere al giochino – mi teneva sul filo del rasoio.
Entrammo nell'ascensore e le porte si chiusero. Nel momento in cui rimanemmo soli, Pavel si voltò verso di me. Mi avvolse una mano tra i capelli, mi piazzò l'altra sul culo e mi spinse contro il muro dell'ascensore. La sua bocca scese sulla mia in un bacio esigente.
L’erezione mi spingeva contro alla pancia e la lingua mi travolse la bocca. Il sollievo si riversò dentro di me. Non era scontento affatto. Mi voleva. Gli avvolsi le braccia intorno al collo e lo baciai, avvolgendogli una gamba intorno per avvicinarlo.
Ci baciammo come se il mondo stesse per finire. Come se senza divorarci la bocca l'un l'altra non avremmo mai più visto la luce del giorno. Era passata solo una settimana dall’ultima volta che ci eravamo visti, e sembrava tanto ieri quanto un’infinità di tempo.
L'ascensore trillò e Pavel mi prese per mano, conducendomi fuori senza guardarmi, manovrando sapientemente le nostre valigie accatastate lungo il corridoio fino a una porta che aprì con la chiave magnetica.
Non aveva ancora parlato. Probabilmente neanch’io, perché stavo aspettando che lui guidasse. Era lui il padrone. Io la schiava. O almeno a quello giocavamo da poco più di un mese prima, quando ci eravamo conosciuti. Chiuse la porta con un calcio e riprese il bacio con la stessa ferocia di quando lo aveva interrotto. Il sedere mi andò a sbattere contro al muro. Le linee dure del suo corpo si modellarono contro il mio, richiedendo la mia resa. E io mi arresi. A lui. Alla sua abilità. Al suo dominio, al suo comando. Mi prese la coscia e la sollevò, trovando la fascia superiore delle autoreggenti.
«Sexy» mi disse in un alito di fiato contro alle labbra. Molto appropriata, come prima parola. Mi accarezzò il culo, il palmo della mano scivolò sotto l'orlo del vestito.
«Cazzo, se sei sexy.»
Ecco. Ciò che speravo. Perché mi ero cambiata i vestiti più di una dozzina di volte. Mi baciò il collo mentre mi palpeggiava la figa come se la possedesse. Cosa verissima. Con il mio consenso, ovviamente. Come sempre, ero cera morbida nelle sue mani, tremante, pronta, in attesa del suo comando.
Che non mi diede. Si limitò a prendere. Mi fece scivolare le dita dentro le mutandine e mi accarezzò la fessura.
«Sei già bagnata.» La sua barba ben tagliata mi solleticava l'orecchio. Il suo accento russo era marcato: diventava sempre più forte, quando era su di giri. «Sei una brava ragazza. Pronta a prendere il cazzo nel momento in cui io decido di dartelo.»
Un brivido di piacere mi attraversò alle parole sporche, e mi nutrii delle sue lodi, anche se il fatto di essere pronta non era cosa su cui avevo controllo.
«Sì, signore» ansimai.
«Ho bisogno di entrarti dentro, fiorellino» disse burbero, sbrigandosi a liberare l’erezione.
Fiorellino. Adoravo il nomignolo che mi aveva dato. L’aveva scelto perché mi riteneva un fiore troppo delicato. Troppo facile da schiacciare. Eravamo stati accoppiati da un giro di ruota della roulette del Black Light, e secondo me era rimasto deluso dalla scelta del caso. Ma quando aveva scoperto che accoglievo tutto ciò che aveva da offrire – dolore e umiliazione allo stesso modo – il suo disprezzo per me si era lentamente trasformato in apprezzamento. Dopo che mi aveva spezzata, quando mi ero umiliata andando fuori di testa in una pozza di singhiozzi a causa del sub-drop, aveva dichiarato che gli appartenevo.
Era successo cinque settimane prima.
Non lo aiutai, perché il mio compito era sottomettermi. Era lui a condurre.
Mi scostò le mutandine e allineò la cappella al il mio ingresso, piegando le ginocchia per abbassarsi alla mia altezza. Non usavamo il preservativo perché io prendevo la pillola, eravamo monogami e avevamo fatto entrambi il test, risultato negativo. Quando si spinse dentro e verso l’alto, mi sollevò fino a farmi salire sulle punte dei piedi, facendomi scivolare i fianchi su per il muro. Gridai, stringendogli i bicipiti sporgenti per rimanere stabile.
«Di chi è questa figa?» Le dita di Pavel erano ruvide sul mio culo mentre mi aiutava a sollevarmi alla giusta altezza per inchiodarmi contro il muro.
«Tua, padrone!»
Spinse forte e veloce. La schiena mi sbatté contro il muro. Brutale, spaventoso e meraviglioso. Sollevai l'altra gamba per avvolgergli la vita e lui si insinuò in me, spingendo dentro con ogni potente scatto dei fianchi. I suoi denti mi segnarono il collo, che succhiava e mordeva mentre mi martellava.
Ascoltai l'accelerazione del suo respiro. Sarei venuta nel momento in cui lo avesse fatto anche lui, se me lo avesse permesso. Non ci pensai né ci provai nemmeno: era come se il mio corpo conoscesse il suo padrone. Come se volesse unirsi a lui nel rilascio.
I colpi di Pavel diventarono più duri, mi spingeva il corpo più in alto sul muro. Mi sfuggì un grido bisognoso.
Il suo respiro si sbloccò e lui sbatté in profondità. «Vieni.» Il comando gli uscì soffocato e gutturale: parlava al di sopra del suo stesso orgasmo.
Rinunciai a ogni sforzo di trattenere la contrazione dei muscoli attorno al cazzo.
Non c'era nient'altro che il suono del suo respiro affannoso e la sensazione del cazzo che pulsava dentro di me.
Pavel mi baciò la tempia, lo zigomo, il naso. Erano quelli i momenti che assaporavo. Quando ero sicura di aver ottenuto la sua approvazione. Quando era grato, gentile e generoso di un affetto che altrimenti tratteneva. «Ne avevo bisogno.» Mi strinse il culo e mi baciò il collo. «Non riuscivo nemmeno a guardarti con quel vestitino, quando sono entrato. Sapevo che sarei andato alla reception con l’erezione più evidente del mondo.»
«Ah, era per questo.» Risi quasi dal sollievo. «Pensavo che stessi mettendo in atto un giochetto mentale per spiazzarmi.»
Pavel si tirò indietro, si allontanò da me e mi studiò il viso. Sfilò il cazzo e mi aggiustò l’abito. «Ho ferito i tuoi sentimenti.»
Feci spallucce. Era bravissimo a leggermi dentro quando cercava una risposta, ma alle volte non aveva idea di cosa chiedere.
La mia amica Sasha, che ci aveva messi in contatto, credeva che io fossi la prima e unica ragazza che avesse mai avuto.
E non mi consideravo nemmeno la sua ragazza.
Quello che avevamo era altro.
Annuii e lui mi accarezzò la guancia con il pollice.
«Mi piace trasmettere dolore fisico, non emotivo, Kayla. Non faccio giochetti mentali. Non voglio destabilizzarti: voglio che tu sia sicura di me. Altrimenti, con questo tuo bel corpicino sexy, come farai a fidarti di me?»
I battiti nella pancia piombarono una volta e poi si assestarono.
Pavel mi tenne la mascella e posò le labbra sopra le mie. «Scusa, fiorellino. Sono un cazzo di egoista. Non intendevo ferirti.» Mi baciò tanto dolcemente da farmi quasi piangere. Tutto il contrario dei baci duri e rivendicativi dell'ascensore. Tutto diverso. «Grazie di avermelo detto. Non ti lascerò più in sospeso.»
Tutto nel mio petto divenne caldo e appiccicoso. Funzionava sempre così con Pavel. Ero al limite, un pasticcio tremante e volatile, bramosa della sua attenzione, morente dal desiderio di una conferma, e poi quando me la dava mi alzavo in volo come un aquilone.
Le mie coinquiline pensavano che non fossi normale, ma non capivano il sadomaso. Pavel era la cosa più eccitante che mi fosse mai capitata.