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Pavel
Avvolsi le dita tatuate sotto la mascella dello sfaticato e tracciai il profilo della sua gola con la lama del coltello. «Non fare scommesse che non puoi pagare» gli dissi. Avevo affilato la lama prima di arrivare, quindi il tocco leggero gli tagliò la pelle e gli fece scendere un rivolo di sangue lungo il collo grasso. Bastava a spaventarlo, se era uno schizzinoso.
Non eravamo lì per mutilarlo però, ma solo per farlo cagare sotto.
Nikolaj, il nostro bookmaker, era vicino, con le braccia conserte sul petto in chiaro segno di disapprovazione.
Accanto a lui Oleg, l'enorme e silenzioso sicario, si scrocchiava le nocche tatuate. Aveva già pestato quello stronzo piuttosto bene. Il tizio sarebbe stato livido e gonfio per un paio di settimane, di sicuro. Ecco quello che succedeva a rompere alla bratva di Chicago.
«Ti prego. Vi darò i soldi. Lo giuro.» Stava piagnucolando. Non ci era voluto molto per piegarlo, ma comunque più del tempo che avrei voluto sprecarne con lui.
Non che il mio lavoro fosse una perdita di tempo.
Ero dannatamente fortunato a far parte della cellula bratva di Ravil. Solo che avevo un’altra da torturare dopo quello lì. Una persona molto più deliziosa e volenterosa. Ma sfortunatamente viveva in un’altra città, il che significava che avevo un volo da prendere. Incrociai lo sguardo di Nikolaj, e lui fece spallucce, lasciando la decisione a me.
Pulii la lama del coltello sulla camicia del mudak.
«Hai due settimane. Se non paghi prenderemo tutto ciò che ami. È chiaro?»
«Ho capito» gemette. «Ti porterò i soldi. Lo prometto.»
«Avevi i soldi» gli ricordai. «E invece di portarceli, li hai usati per piazzare una nuova scommessa con i Tacone.»
Il tizio piegò la testa. «Lo so» gemette.
«Quindi ti avverto: dobbiamo essere pagati per primi.»
«Lo farò, vi pagherò per primi. Lo prometto.»
«Non credere che sarai di nuovo il benvenuto al mio tavolo» disse Nikolaj. Quando i giocatori sceglievano di sedersi con gli italiani invece che con noi, lui la prendeva sul personale. I Tacone non erano nostri nemici; avevamo il tacito accordo di attenerci alle rispettive specialità, nella criminalità organizzata della città. Il che significava che le giocate di poker non dovevano sovrapporsi.
Alzai il mento verso Oleg, che diede un ultimo colpo sul viso del ragazzo come promemoria, e poi tagliai le corde che lo legavano alla sedia. Fece per scattare, ma io gli puntai la lama del coltello al bulbo oculare sinistro e si bloccò. «Siediti. Conta fino a quattrocento. Poi puoi andartene.»
«Quattrocento. Ho capito. Quattrocento» balbettò il ragazzo.
Presi la giacca e la sollevai mentre lasciavamo il magazzino abbandonato scelto per la piccola sessione di tortura. La ghiaia ci scricchiolò sotto i piedi mentre ci dirigevamo al SUV di Oleg.
«Non all'altezza della tua solita qualità» osservò Nikolaj. «Stai perdendo il gusto per la tortura?»
«No.» Non gli dissi che i miei gusti erano appena cambiati. Avevo trovato uno sbocco molto più sano per i miei impulsi sadici. Non glielo dissi, ma probabilmente lo sapeva già. Vivevo tutto il tempo con quei ragazzi. Era piuttosto difficile mantenere segreti, anche se avevamo appena scoperto che Oleg ce ne aveva nascosto uno enorme sul suo passato.
«Davvero, amico. Sono quasi dovuto intervenire per tirargli io stesso un paio di pugni.»
Nikolaj mi stava ancora rompendo i coglioni. Guardai Oleg, che ultimamente comunicava di più, e lui fece spallucce e mostrò il pugno, che nel linguaggio dei segni voleva dire sì.
«Da pošël ty.» Li mandai a quel paese. Salimmo sull’auto di Oleg, e lui avviò il motore per riportarci indietro.
«Ravil ti sostituirà, se non inizi a fare la tua parte.» Nikolaj lo disse con leggerezza, ma la sensazione di punture sulla nuca mi disse di prestare attenzione. Non capivo bene se stava solo cercando di ottenere una reazione o se era serio. Ravil era il nostro pachan, il capo della bratva di Chicago. L'idea che fosse insoddisfatto dei miei servizi mi metteva in difficoltà. Ero fortunatissimo ad avere quella posizione, ed ero ambizioso. Speravo di consolidare il mio ruolo per tutto il tempo in cui sarei rimasto lì. Così, una volta tornato a Mosca, speravo di migliorare la mia posizione nell'organizzazione sul posto.
«Di che cazzo stai parlando?» scattai.
Nikolaj si girò indietro per guardarmi. «Stamattina ha accennato al fatto che sei di nuovo in partenza per il fine settimana. Al fatto che non sei stato chiaro con lui.»
Bljad’. Non ero stato chiaro con lui. Ma pensavo che tutti sapessero che sarei andato a Los Angeles per il fine settimana. Ci andavo ogni weekend da San Valentino, quando Ravil mi aveva spedito in un club sadomaso per lavoro ed ero finito a rivendicare la mia piccola schiava. Tuttavia, supporre che tutti lo sapessero non era lo stesso che chiedere il permesso al capo. Avrei dovuto almeno pensarci, ma non eravamo esattamente dipendenti che timbravano li cartellino. Le nostre tipologie di lavoro erano piuttosto libere. Fondamentalmente, facevo qualsiasi cosa Ravil mi dicesse di fare, legale o meno. Ravil mi possedeva, ma io avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Mi strofinai una mano sul viso. «Va bene. Grazie per avermelo detto.» Nikolaj poteva sembrare un cazzone, ma sapevo che stava cercando di salvarmi il culo.
«Che progetti hai con questa qui?» mi chiese.
Non risposi. Non erano cazzi suoi.
«Hai intenzione di andare avanti per sempre con questa cosa a distanza?»
«No» dissi cercando di fare il disinvolto.
Come se rompere con Kayla mi sarebbe stato facile. La verità era che non lo sarebbe stato per niente.
Sapevo di essermi comportato da pezzo di merda nell’ultimo mese, reclamandola e considerandola mia. Kayla aveva una vita. Un futuro luminoso. Che sarebbe stato ostacolato anche solo dal venir associata con me. E il tutto senza nemmeno prendere in considerazione il dolore emotivo che le avrei causato. Ogni settimana in cui permettevo alla cosa di andare avanti rendeva più difficile rompere.
Avrei dovuto strappare il cerotto subito, prima che si legasse di più a me, che mi considerasse il suo padrone, più di quanto non fosse già.
Sì, avrei chiuso quel finesettimana. Non all’arrivo, ma alla fine.
Dopo esserci divertiti. Mi sarei assicurato che avesse i migliori orgasmi della sua vita, e poi l’avrei lasciata con delicatezza.
Colpa della distanza. Oleg parcheggiò nel lotto sotterraneo dell'edificio di Ravil, di fronte al lago Michigan. Tutto il quartiere lo chiamava il Cremlino perché potevano viverci e lavorarci solo russi. Russi e la sua sposa americana. E ora anche la nuova fidanzata di Oleg, Story. Per un breve momento mi balenò il pensiero di chiedere alla mia schiava di trasferirsi a Chicago, di piazzarla al Cremlino in modo da poterla dominare ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette.
Ma naturalmente non l’avrei mai fatto. Era un'attrice che cercava di emergere a Los Angeles. Convincerla a trasferirsi – e non nemmeno ero sicuro di riuscirci, anche se si dimostrava disposta a sottostare ai miei ordini – avrebbe potuto effettivamente porre fine ai suoi sogni. Ero un egoista del cazzo, certo, ma non uno stronzo così esagerato. Uscii e controllai il telefono. La mia valigia era già chiusa in auto. Se fossi montato in macchina subito e mi fossi fiondato dritto all'aeroporto, sarei arrivato in perfetto orario.
Ma c’era Ravil. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era che il capo mi rompesse il culo. Non dopo tanto lavoro per rendermi indispensabile.
Bljad’. Seguii Nikolaj e Oleg fino all'ascensore, che presi per salire all'ultimo piano, dove condividevamo tutti l'attico del capo. Lui si trovava davanti alle gigantesche finestre, che andavano dal pavimento al soffitto e si affacciano sul lago, con in braccio Benjamin, il figlio di cinque mesi. Gli mormorava dolcemente qualcosa in russo.
Non era un buon momento per interromperlo.
Ma non avevo tempo da perdere.
Lo affiancai, sempre tranquillo e guardando il lago.
«Cos’è successo?» Ravil si rivolgeva a noi quasi sempre nella lingua del posto. Quando mi ero trasferito lì dalla Russia per unirmi alla sua cellula, non ne conoscevo una parola. Così fece in modo che imparassimo, vietandoci di parlare il russo finché non fossimo stati fluenti in quella americana.
«Niente. Ce ne siamo occupati noi.»
Mi posò addosso uno sguardo indagatore, ma non disse nulla. Ravil era mite. Di un freddo temperato. Dannatamente intelligente. Non era assolutamente un uomo da sottovalutare né infastidire. Ero fortunato che mi avesse offerto il posto quando avevo dovuto lasciare Mosca. Avevo cercato di imparare tutto quello che potevo da lui, di emulare i suoi modi. In superficie ero sempre un rozzo, ma mi facevo sempre più sofisticato ogni giorno.
Infilai le mani in tasca. Scusarmi, per me, non era facile. Non riuscivo a pensare all'ultima volta che l'avevo fatto, in realtà. Ma dovevo a Ravil assoluto rispetto.
«Avrei dovuto chiederti il permesso di lasciare la città» dissi, con lo sguardo rivolto verso il volto del suo angioletto mentre le palpebre del piccolo si chiudevano.
«Sì» concordò Ravil.
Cazzo. Nikolaj aveva ragione. Gli dovevo un favore enorme, per avermelo detto.
«Scusa.»
«Perdonato.» Lo disse facilmente, pur chiarendo che la trasgressione richiedeva il perdono.
Inspirai, ma senza saper bene come continuare.
Avrei dovuto chiedere un'autorizzazione tardiva? Forse sì, ma non riuscivo nemmeno a prendere in considerazione la possibilità di non andare. C’era una fetta di paradiso puro in mia attesa in California, di cui avevo intenzione di succhiare tutto il succo prima della rottura.
Stavo per dirgli che quello sarebbe stato l’ultimo viaggio, ma nemmeno quello riuscii a promettere.
«Stai cercando di capire le cose.» Parlò lui per me.
Per qualche inspiegabile ragione, il mio cuore iniziò a palpitare.
Ravil aveva appena dato voce a quello che con me stesso fingevo di aver già deciso. Ma cosa c'era da capire? Kayla stava a Los Angeles. Io lì. E poi avevo in programma di tornare in Russia, una volta calmatesi le cose. Avevo risparmiato per avviare una mia impresa lì. Non tornare non era un'opzione valida: mia madre era lì tutta sola.
Ma aveva ragione: chiaramente non avevo ancora preso una decisione, altrimenti quel weekend non sarei partito. L’accordo mensile con Kayla era terminato la settimana precedente.
«Sì» concordai.
«Fammi sapere quando avrai capito.» Si girò e si allontanò, lasciandomi lì a sudare.
Cazzo. Un altro motivo per chiudere l’avventura con Kayla quel finesettimana. Eppure, mentre varcavo l’uscio per dirigermi all'aeroporto, ero quasi certo che non avrei chiuso un bel niente.