2.
Non dormii affatto, quella notte. Non sapevo che cosa ne sarebbe stato di me. Forse Knismesis Riparian Sabrage, chiunque fosse, si era preso gioco di me e il giorno dopo sarebbe ricominciata la mia routine sempre uguale, fino al processo, e poi sarei finita al Pozzo.
Oppure, per sfuggire al Pozzo, poteva darsi che mi fossi cacciata in una posizione altrettanto orribile. Se Sabrage avesse iniziato a picchiarmi e violentarmi dal primo giorno, sarebbe stato ugualmente orribile. Non peggio, perché non c’è niente peggiore del Pozzo, neppure la morte.
E la morte, in realtà, era pur sempre una soluzione.
Ci pensai, quella notte.
Pensai che avrei potuto legare le lenzuola al lavandino e impiccarmi da seduta. Fine delle preoccupazioni e dell’incertezza.
Ma non riuscivo a credere che quella potesse essere una soluzione. Per quante cose orribili potesse farmi Sabrage, una parte di me continuava a pensare che forse sarei riuscita a sfuggirgli, prima o poi, in qualche modo.
Rimuginai ossessivamente per tutta la notte, senza dormire neppure un istante.
Quando accesero le luci ero ancora stesa sul letto sfatto, perfettamente sveglia e con i nervi a pezzi. Passarono le ore.
Quando la porta della cella si aprì, pensai che fosse il momento della perquisizione. Mi alzai e rimasi in piedi accanto al letto, ma la guardia mi fece cenno di uscire.
«Con me» si limitò a dire.
Lo seguii lungo i corridoi grigi del blocco detentivo, giù per le scale, fino a un bancone.
La guardia dietro al bancone mi allungò un modulo. «Dato che i suoi abiti e i suoi oggetti personali sono stati acquisiti come prove, deve firmare per uscire con l’uniforme carceraria» disse.
Uscire. Quindi stavo uscendo... era vero.
Firmai e la guardia indicò il corridoio alla mia destra. Lo seguii, instabile sulle gambe. Un atrio grigio. Delle scale che scesi a passi tremanti. La luce del sole. Il marciapiede. La strada. La piazza oltre la strada.
Sul marciapiede, appoggiato alla ringhiera protettiva, c’era Knismesis Riparian Sabrage.
Era vestito in modo simile al giorno precedente, ma visto alla luce faceva un altro effetto. Sembrava meno marziale e più elegante.
«Vieni con me» disse, voltandosi.
Mi guardai attorno, smarrita. Forse potevo mettermi a correre... scappare. Sarei uscita dal Distretto, in qualche modo, e avrei vissuto come una gentile.
«Stupida idea. Abbiamo le tue coordinate assolute» disse Sabrage, lanciandomi un’occhiata seccata da sopra alla spalla. «Muoviti».
Lo seguii.
Camminai dietro di lui lungo il marciapiede, cercando di godermi almeno il sole e l’aria fresca. I passanti mi fissavano, a causa della mia uniforme, ma non mi importava. Potevano fissarmi finché volevano: ero uscita.
«Muoviti» ripeté Sabrage.
Mi precedette fino alla televia. Fece il biglietto anche per me e salimmo sulla numero 7. Il vagone era relativamente affollato, quindi non c’era posto a sedere. Mi aggrappai a uno dei sostegni, mentre si rimetteva in moto dopo la fermata.
Gli altri passeggeri mi fissavano. Guardai a terra, cercando di non farci caso. Anche Sabrage mi fissava, con sguardo inespressivo, e mi chiesi se non mi avesse portata su un mezzo pubblico solo per godersi il mio imbarazzo.
«Naturalmente» confermò lui, con un mezzo sorriso.
Tenni duro. Mi dissi che non mi importava che cosa pensassero gli altri passeggeri, nonostante continuassero a fissarmi con aria severa.
Dopo circa venti minuti scendemmo nel quartiere del Rettorio. Il grande palazzo della sede centrale si stagliava in fondo alla strada, scuro e severo. Sabrage mi precedette lungo una perpendicolare, Tenner Avenue. Non ero stata molto spesso in quel quartiere, ma ricordavo gli alti palazzi di vetro scuro pieni di appartamenti di lusso.
Sabrage entrò nell’atrio di un palazzo al numero 23 di Elision Street. Il portiere gli rivolse un saluto rispettoso, prima di consegnargli della corrispondenza. Seguii Sabrage fino a una delle colonne ascendenti ed entrai nel lento flusso cinetico dietro di lui.
Scendemmo all’ultimo piano, su un pianerottolo sospeso, di marmo nero con delle venature dorate. Davanti a noi c’era una porta di metallo brunito, decorata a spirali.
«Spogliati» ordinò Sabrage, facendo ruotare la manopola della combinazione di sblocco.
Obbedii, dato che non avevo alternative. Lui aprì la porta e mi fece entrare.
«Buttali in quello scivolo».
A qualche metro dall’ingresso, su una parete, c’era lo sportello di uno scivolo per i rifiuti. Lo aprii e ci buttai dentro l’uniforme. Poi mi guardai attorno.
Era un appartamento di altissimo livello, questo era ovvio. Il pavimento di marmo nero era coperto da dei tappeti folti, pulitissimi, riccamente decorati. Le pareti erano rivestite di carta da parati scura ed elegante. I mobili erano squadrati, di legno massiccio, neri, ma l’effetto complessivo non era cupo. Piuttosto, nonostante l’evidente opulenza, era freddo e severo. Su un tavolino c’era un grande vaso di vetro verde, traslucido e cangiante, con una composizione di fiori secchi dai colori delicati. Anche i quadri erano colorati e raffiguravano per lo più cavalli, chissà perché.
Sabrage mi precedette lungo un ampio corridoio, finendo per aprire una porta.
«Harbinger?» chiamò, senza entrare.
Poco dopo fu un giovane uomo pallido a uscire. Mi guardò con espressione distante. «La sua nuova impiegata, signore?». Mi scansionò completamente. «Devo prenotarle una seduta con un’estetista?».
«Ti ringrazio» rispose Sabrage.
Il giovane annuì. «Oggi pomeriggio, signore».
«Vieni» mi ordinò l’altro, rivolgendo un cenno di saluto al giovane.
«Harbinger è il mio assistente personale. In mia assenza devi obbedire a lui».
Mi limitai ad annuire. Non mi piaceva seguirlo come un cagnolino, scalza, nuda ed esposta, ma non volevo nemmeno irritarlo iniziando a fare domande. Questo non significava che non ne avessi.
Sabrage mi condusse oltre una serie di sale impeccabili, fredde e calde nello stesso momento, fino a superare le porte che chiaramente dividevano la zona giorno dalla zona notte.
Mi precedette all’interno di una camera da letto. C’era un grande armadio nero, un letto coperto da una trapunta di velluto azzurro e oro, una toletta, un’ampia porta-finestra che dava su una terrazza piena di sole e di piante.
Fu proprio la porta-finestra che Sabrage aprì, per poi farmi cenno di uscire.
Fuori, il sole mi accarezzò la pelle in modo meraviglioso, dandomi la prima sensazione piacevole da una settimana a quella parte.
Il pavimento della terrazza era di cotto rossastro ed era circondata da grandi vasi pieni di cespugli e di piccoli alberi. Sabrage mi mostrò i palazzi attorno a quello in cui eravamo, le cui pareti erano molto vicine, a soli pochi metri di distanza. Sperai che nessuno si affacciasse in quel momento.
«È una preoccupazione inutile. La casa è coperta da uno scudo. Potrei picchiarti a sangue e nessuno sentirebbe le tue grida, né vedrebbe la tua agonia. Ti piace la tua stanza?».
Deglutii e annuii. Iniziavo a capire che per lui minacciarti di morte e chiederti se l’ambiente era di tuo gradimento erano la stessa cosa.
«È... è tutto molto bello» cercai di compiacerlo. Ed era tutto molto bello veramente, per inciso, ma in quel momento non ero esattamente in grado di apprezzarlo.
«Mi piacciono le cose belle, sì» disse lui, scrutandomi con espressione pensierosa. «Mi piace guardarle e, a volte, mi piace distruggerle. Tu puoi diventare una delle mie cose belle, con un po’ di impegno. Adesso sei materiale grezzo. Voglio che tu sia glabra e profumata. E non sopporto l’odore del sapone del blocco detentivo... vieni nel bagno».
Di nuovo, lo seguii all’interno, nella stanza da bagno.
Contro ua parete c’era una grande vasca quadrata, di marmo nero. «Entra» ordinò Sabrage.
Poco dopo lui aprì l’acqua con un flusso cinetico. Era tiepida e dolce, non come quella del carcere. Lasciai che mi accarezzasse la pelle, ripulendola dal sapone chimico e amaro che avevo usato il giorno prima, e per la seconda volta provai una fuggevole sensazione di piacere.
«Usa questo» disse Sabrage, porgendomi un barattolo.
Lo aprii. Conteneva un sapone fluido e profumato, dal gradevole odore di agrumi e sandalo. Me ne versai un po’ in mano, per poi posare il barattolo su una mensola di marmo. Lo usai per frizionarmi e lavarmi.
Sabrage mi osservò in silenzio. Il suo sguardo mi metteva a disagio, ma la doccia era molto piacevole. Pensai di dargli le spalle, in modo da non doverlo più guardare mentre mi guardava. Non lo feci. Non capivo che cosa volesse da me, ma mi aveva liberata, per cui se voleva guardarmi mentre mi accarezzavo il corpo probabilmente non potevo impedirglielo. Mi rendevo conto di essere appesa a un filo e mi rendevo anche conto che tutte quelle belle cose avevano un prezzo.
«Naturalmente hanno un prezzo» mi lesse nel pensiero lui. «Sei di mia proprietà, ora, te l’ho detto. Posso fare di te quello che voglio. Ora... ora voglio guardarti. Devo decidere che cosa mi piace e che cosa voglio cambiare. Usa questo, per i capelli».
Mi allungò un flacone. Lo shampoo profumava di tè verde e una spezia che non riuscivo a mettere a fuoco.
«Coriandolo. I tuoi capelli... li lascerò come sono, ma devono essere acconciati. Dovrai prendere un paio di chili. Dovrai essere bella e curata. E il tuo scopo, da questo momento in poi, è compiacermi».
«Compiacerla» ripetei.
«Esattamente. Essere utile e servizievole, essere gradevole da guardare e abnegata, essere obbediente, sottomessa, desiderosa di soddisfarmi. Ti plasmerò fino a farti diventare come ti desidero. Ti umilierò quando ho voglia di farlo. Userò la tua esperienza quando mi serve. Ti farò soffrire se mi farà piacere».
Deglutii. Ero praticamente diventata la sua... prostituta?
«Non direi. Non ti pago» rispose Sabrage, con un mezzo sorriso. «Sei una mia proprietà, non una mia dipendente. Ma, oh, in società ti definirò tale. E ti restituirò alcune delle tue capacità. Padroneggi l’Eterna Rigenerazione?».
«Sì, signore» mormorai.
«Molto bene».
Aspettò che mi risciacquassi e mi passò un asciugamano. Me lo avvolsi attorno al corpo, uscendo dalla vasca. Un secondo asciugamano finì attorno ai miei capelli.
«Vieni» disse lui. Tornammo in camera e Sabrage mi indicò il letto. «A quattro zampe» ordinò. Obbedii e chiusi gli occhi, cercando di prepararmi mentalmente al momento in cui...
Mi slacciò l’asciugamano e lo buttò da un lato.
«Apri gli occhi».
Lo feci e lo guardai. Nuda, carponi sul letto, mi sentivo terribilmente esposta. Ed ero sicura che a quel punto sarebbe successo qualcosa di brutto.
«Oh, sì» mormorò lui, con un microscopico sorriso.
Il battito cardiaco mi aumentò, mentre il mio respiro si faceva veloce. Speravo che si sbrigasse. Speravo che non mi facesse troppo male. Speravo che... che non infierisse, probabilmente, anche se sapevo che era una speranza vana.
«Hai paura?» chiese Sabrage, senza cambiare espressione.
«N-no» mormorai. Stavo per mettermi a singhiozzare.
«E di che cosa hai paura?» insistette lui.
«N-no, signore, non... non si preoccupi. Faccia quello che vuole».
Lui rise. «Non ho di certo bisogno del tuo permesso. Rispondimi: di che cosa hai paura?».
Lo sapeva perfettamente, ma voleva sentirselo dire da me. Voleva che gli dicessi che avevo paura di quello che mi avrebbe fatto, per poi farlo con più soddisfazione. Voleva vedermi piangere, probabilmente.
Sentii qualcosa di caldo scivolarmi giù dagli occhi e pensai che almeno in quello era stato accontentato.
Sabrage raccolse una lacrima dal ciglio di uno dei miei occhi, tranquillissimo. «Mi piace vederti impaurita, ma non ne hai bisogno. Non ho nessuna intenzione di scoparti. Non ho nessuna intenzione di scopare una tizia rigida come un cadavere, con la figa asciutta, terrorizzata. Non è il mio genere di divertimento. Da quel punto di vista puoi dormire sonni tranquilli».
Deglutii, cercando di calmarmi. Il mio cuore batteva ancora forsennatamente.
«Questo non deve farti pensare che non abuserò di te in tutti i modi possibili... lo farò. Solo, non immaginare che si tratterà di un banale stupro. Non ragiono così. Probabilmente sono diverso da chiunque tu abbia conosciuto finora. Ti addestrerò, in modo da poterti usare nel modo che preferisco. Ti addestrerò lentamente, dandoti tutto il tempo di abituarti. Non ho fretta».
Girò attorno al letto, guardandomi dall’altro lato. Lo seguii con lo sguardo.
«E avrai sempre la possibilità di rifiutarti... e di subirne le conseguenze. Adesso dormi. Ci rivedremo stasera e domani ti metterò al lavoro».
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Dormii davvero, per un paio d’ore. Mi svegliò un discreto bussare alla porta. Subito dopo entrò il giovanotto pallido che avevo visto appena arrivata, Harbinger.
Cercai di coprirmi con la trapunta, visto che ero ancora nuda, ma lui fece un gesto distratto con una mano. «Non mi interessa. Sei proprietà del signor Sabrage. Dovresti vestirti, mangiare e incontrare l’estetista, in modo che possa renderti più... presentabile».
Non aspettò la mia risposta. Andò all’armadio e lo aprì. Poco dopo sul letto atterrava un completo intimo di rete. Seguirono un vestito nero a mezzo polpaccio e delle calze autoreggenti velate.
Iniziai a vestirmi. Il completo intimo era indecente, ma il vestito, pur essendo piuttosto aderente, era sobrio ed elegante.