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Scintilla (b**m)

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Blurb

Scintilla Lilt è in trappola. È stata arrestata dalla polizia politica per crimini contro il Distretto. Il Distretto: la città dentro alla città, la Londra di chi padroneggia le arti magiche. Scintilla apparteneva a un gruppo terrorista che combatteva il Rettorio, il governo intrasingente e immobilista del Distretto, ma ora è tutto finito e quello che la aspetta è il Pozzo, dove impazzirà e si dissolverà lentamente. A meno che...

L’uomo che la va a trovare in prigione si chiama Knismesis Riparian Sabrage ed è un uomo del Rettorio. Può salvarla, ma dopo lei gli apparterrà anima e corpo. E quello che vuole da lei non è un segreto: vuole ferirla, umiliarla e degradarla, perché è questo quello che gli piace.

Scintilla accetta, non ha alternative, ma presto inizia a rendersi conto che Sabrage non è il mostro che sembra e che non l’ha liberata solo per il proprio piacere...

"Sabrage mi scostò gentilmente la testa e spense la macchina.

La mia eccitazione calò bruscamente, ma non scomparve del tutto. Volevo ancora che mi toccasse e che mi desse piacere.

«E se invece volessi farti male?» disse lui, stringendomi un capezzolo.

«Quello che... vuole...» risposi io, con il respiro accelerato. Le sue dita si strinsero attorno al mio capezzolo, finché non sentii una fitta di dolore. Gemetti, ma non era stato completamente sgradevole.

Mi accarezzò i capelli. «No, è un diverso tipo di piacere. Ma devi ancora capirlo, hai ancora bisogno di un po’ di tempo».

Non sapevo che cosa dovevo ancora capire, speravo solo che restasse lì. In quel momento avevo bisogno che restasse lì e mi consolasse per la mia stessa confusione. Come faceva ad accendermi così velocemente, dopo avermi terrorizzato e bulleggiato? La macchina l’aveva aiutato, certo, ma la macchina amplificava le sensazioni di chi c’era seduto sopra, non le creava dal nulla.

«Quindi forse... farti terrorizzare e bulleggiare ti accende, non pensi?» mormorò lui, continuando ad accarezzarmi i capelli."

CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

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1.
1. Mi portarono nel blocco detentivo della sede della polizia politica mentre ero incosciente. Mi svegliai in una cella di cemento, spoglia, asettica, un po’ troppo fredda. Indossavo un’uniforme grigia sopra alla pelle nuda ed ero stesa su una brandina stretta e dura. Nelle mani del Rettorio. Cercai di non mettermi a piangere e ci riuscii, ma avevo paura. Oh, se avevo paura. Nella migliore delle ipotesi sarei stata condannata a centovent’anni da scontare in una normale prigione, ma se il Rettorio avesse deciso di perseguirmi per crimini contro il Distretto sarei finita dritta al Pozzo. E se finivi al Pozzo non importava quale fosse la tua pena: impazzivi nell’arco di pochi mesi. In quel momento non sapevo ancora dov’ero. O meglio, sapevo di essere in una cella, ma non sapevo in quale tipo di cella. Scoprii di essere nel blocco detentivo della sede della polizia politica solo più tardi e in un certo senso fu un bene. Se me l’avessero detto subito lo shock sarebbe stato ancora maggiore. Perché... be’, se sei in mano alla polizia politica non ci vuole molto a capire che le accuse contro di te sono fottutamente gravi. Ignara di questo, aspettai che qualcuno venisse a parlare con me in relativa tranquillità. Sapevo di essere fregata, ma mi illudevo di sopravvivere in qualche modo. Rimasi immobile, seduta sulla brandina, viaggiando dentro me stessa. Fu solo dopo diverse ore che sentii la pesante porta di ferro che si apriva. Il rumore di un meccanismo di chiusura che sferragliava e il battente che ruotava con un cigolio. «Scintilla Lilt?» disse l’uomo che era fermo sulla porta. Era un tizio basso e tozzo, con addosso un completo spento. Dato che il corridoio era scuro, la sua faccia era quasi completamente in ombra, ma riuscii a vedere che aveva i baffi. Annuii seccamente. «Mi segua» ordinò lui. Mi alzai dalla brandina e andai verso la porta. Mi aspettavo che qualcuno mi bloccasse i polsi, ma non avvenne. Le due guardie che erano con l’uomo si limitarono a guardarmi. In quanto a lui, lo superavo di qualche centimetro, ma sembrava solido e forte. Non sapevo che genere di mago fosse, né quanto talentuoso, ma in quel momento lo era senz’altro più di me, visto che tutte le mie capacità erano state inibite. Lo seguii in silenzio lungo il corridoio in penombra. Le porte delle celle erano completamente chiuse, quindi non potevo sapere quante fossero occupate da altri prigionieri. Una delle guardie aprì una di quelle porte, comunque. Una porta come tutte le altre, senza nessun numero sopra. L’uomo mi fece segno di entrare. Era un piccolo ufficio, spoglio quasi quanto la mia cella, con al centro un tavolo quadrato, imbullonato al pavimento, e due sedie, imbullonate al tavolo. Mi sedetti e l’uomo si sedette di fronte a me. Ora vedevo il suo viso. Un viso morbido, dall’apparente età di cinquat’anni circa, reso più duro dai baffi grigi. «Chi è lei?» chiesi. Mi lanciò un’occhiata di rimprovero, ma bonaria. «Il maggiore Inglenook. E sono io che faccio le domande, se non le dispiace». «Mi dispiace, sì» ribattei. Poi sospirai. «Mi dica almeno dove sono». Me lo disse e mi sembrò di essere stata presa a schiaffi. Polizia politica. Mi aspettava il Pozzo. Deglutii, cercando di mantenere la calma. «Non avrei diritto a un avvocato?» chiesi. Inglenook scosse appena la testa. «Non lavoriamo così, da queste parti. Potrà vedere un avvocato quando avremo formalizzato le accuse nei suoi confronti, signorina Lilt. Adesso risponderà alle mie domande. La informo che sono un telepate». Annuii lentamente. Era ovvio che fosse un telepate a interrogarmi. Erano le normali procedure, probabilmente. Speravo che non fosse troppo bravo, ma non mi facevo illusioni. «Appartiene a qualche gruppo terroristico, signorina Lilt?» mi chiese, in tono morbido. «Non ci definiamo così. Siamo un’organizzazione politica». «Registrata?». «No» ammisi. L’uomo schioccò le dita e davanti a lui comparve una cartelletta azzurra. Mentre la apriva pensai che nella migliore delle ipotesi sarebbero passati dei decenni prima che io potessi fare qualcosa di banale come l’apporto di un oggetto. «Qua dice che vi chiamate Sole Nuovo, è giusto?». Annuii. «Vi ispirate alle idee terroristiche di Thren Valedictorian». Feci un gesto vago. «È più complicato». «Mi spieghi» disse lui. Sospirai. Davvero dovevo mettermi a parlare di questo con quell’uomo della polizia politica? Dovevo spiegargli le minuzie della nostra filosofia, come se potesse capire? «Oh, le assicuro che posso capire. Poi non condividerò, ma capire non è un reato» rispose ai miei pensieri lui, con un lieve sorriso. Sospirai di nuovo. «Bene» dissi. «Non è corretto dire che ci ispiriamo alle idee di Valedictorian, vede. Entrambi crediamo nell’evoluzione dei sistemi magici, ma erano concetti che giravano anche prima di Valedictorian. E non abbiamo mai approvato i suoi metodi. Quindi sarebbe più corretto dire che abbiamo un substrato comune. Capisce?». «Capisco. E lei non l’ha mai incontrato?». Mi strinsi nelle spalle. «Mai. Dicono che sia morto». «Ha detto che non avete mai approvato i suoi metodi. Che cosa non approvavate?». Scossi la testa. «L’idea di creare una frattura, per dire. La consideravamo folle. Non so se Valedictorian abbia mai perseguito un cambiamento su larga scala, ma farlo tramite una frattura nel Distretto? La maggior parte delle persone ha iniziato ad avere paura di lui. E non c’era un vero motivo... a molti è sembrato che volesse solo dimostrare di poterlo fare. Non lo so. Noi crediamo in uno sviluppo organico. In un’evoluzione condivisa dalla gente, non dettata dall’alto. Noi crediamo che il Distretto debba evolvere progressivamente, in modo partecipe e collettivo». «E per farlo volete rovesciare il Rettorio?» chiese Inglenook. Deglutii. «Non c’è nessun altro modo, visto che il Rettorio si rifiuta di modificare lo status quo da decenni». Lui sfogliò qualche pagina. Non sembrava affatto colpito dalle mie parole. «Bene, veniamo a lei, signorina Lilt. Secondo le mie informazioni, è stata responsabile di diversi atti di sabotaggio, uno dei quali ha causato due vittime. Ha fatto esplodere una Giunzione, è vero?». Annuii. «Non dovevano esserci... morti» mormorai, debolmente. Inglenook si strinse nelle spalle. «Sì, le credo. Non ha importanza, in ogni caso. Ci sono state due vittime. Marjorie Boston, di centoquattordici anni... Summery Fey, di venticinque» lesse. Cercai di non cambiare espressione, anche se sentire quei nomi mi aveva fatto male. Non avevo mai voluto che qualcuno morisse a causa mia. «Immagino che faccia parte dei rischi, quando ti unisci a un organizzazione come quella di cui faceva parte lei, signorina Lilt» commentò Inglenook, in tono sobrio. Sfogliò un’altra pagina. «Parliamo del Sole Nuovo. Avete una struttura di comando piuttosto rigida. Il suo diretto superiore è Lagoon Demesne». Mi sentii morire. Visto che Inglenook era un telepate non potevo rifiutarmi di collaborare. Potevo non parlare, ma lui avrebbe letto comunque tutto quello che gli serviva direttamente dal mio cervello. Compreso Lagoon. L’avrebbero arrestato a causa mia – per questo mi sentivo morire. «Non lo arresteremo. Lavora già per noi» disse Inglenook. Lo fissai. Doveva essere un trabocchetto, anche se non ne capivo lo scopo. In ogni caso non era possibile che Lagoon lavorasse per il Rettorio. Li odiava, li odiava con tutto il cuore. «Oppure è molto bravo a fingere. Ha ragione, non ho nessun motivo di mentirle su questo: Lagoon Demesne lavora per noi. È stato lui a farla arrestare, signorina Lilt. Forse ha bisogno di qualche minuto?». L’aveva detto senza nessuna traccia di gentilezza, ma neppure in tono sprezzante. La verità è che gli occhi mi si erano riempiti di lacrime e il senso di tradimento... il senso di tradimento mi aveva lasciata senza fiato e senza forze. Non riuscivo a credere che Lagoon mi avesse consegnata al Rettorio. Era semplicemente inconcepibile. Tra di noi c’era... E poi pensai che dovevano averlo costretto in qualche modo. Che dovevano averlo ricattato, minacciato o dovevano aver minacciato qualcuno della sua famiglia. Non sapevo molto di lui, non sarebbe stato sicuro, ma sapevo tutto quello che mi serviva. O così avevo pensato. Cercai di accantonare il pensiero per concentrarmi sull’interrogatorio, perché se avessi iniziato a pensare a lui non ne sarei uscita viva, molto semplicemente. «Sto bene» dissi, debolmente. Inglenook mi fece scivolare un foglio davanti. «Dovrà dirmi come rintracciare queste persone» spiegò. Annuii. Avevo perso. Avevo perso completamente. +++ Per sei giorni nessuno mi venne a cercare. Le guardie mi passavano il cibo attraverso un passavivande nella porta, una volta alla mattina e una volta alla sera. O, almeno, così mi sembrava. Nella mia cella non c’erano finestre, né orologi. Non sapevo che ore fossero. Quando spegnevano la luce provavo a dormire, questo era tutto. Una volta al giorno due guardie entravano nella cella e la perquisivano. Era grottesco, dato che là dentro non c’era assolutamente nulla, a parte quello che loro stessi ci avevano messo: la brandina, le lenzuola, un lavandino, un pezzo di sapone, un water, me. Indifferenti all’illogicità della cosa, le guardie frugavano dappertutto. Toglievano le lenzuola dal letto e tastavano il materasso duro e sottile, guardavano dentro al lavandino e al water, controllavano le pareti e il pavimento. Lo facevano mentre io aspettavo in piedi, nuda, con le mani appoggiate sul muro e le gambe leggermente divaricate. Controllavano la mia tuta e perquisivano anche me, poi potevo rivestirmi e mettere tutto in ordine. Era umiliante, ma non mi importava. Sapevo che era concepito per essere umiliante e inutile. Non mi avrebbero piegata in quel modo. Mi avrebbero piegata, invece, con l’attesa. Lasciandomi lì, sottoposta ogni giorno alla loro alienante routine, senza sapere che cosa ne sarebbe stato di me o degli altri del mio gruppo. In realtà, sapevo che non li avrei mai più visti. Se Inglenook fosse tornato, però, avrei potuto almeno chiedergli se erano liberi o se li avevano presi. Non sapevo se me l’avrebbe detto, ma avrei provato. Avevo cercato di non pensare a Lagoon. Mi ero detta che se mi aveva tradito doveva averlo fatto per un buon motivo. Adesso so che quella giustificazione mi serviva per non crollare completamente. Potevo accettare che l’uomo che amavo mi avesse consegnata alla polizia politica, se pensavo che fosse stato costretto. Per sei giorni non avvenne nulla, quindi. Giornate vuote, grige, scandite dallo spegnersi e dall’accendersi delle luci, dai pasti e dalle perquisizioni. Esattamente dopo una settimana, due guardie vennero e mi portarono in un’altra ala. Mi fecero spogliare e mi fecero entrare in una stanza piena di docce. Sebbene fossero docce comuni, ero da sola, lì dentro. Mi preoccupai, ma non troppo. Le guardie mi osservarono mentre mi lavavo, rabbrividendo per l’acqua fredda, ma non mossero un dito. Alla fine mi consegnarono una nuova tuta. La infilai e li seguii di nuovo fuori. La tuta di cotone grosso era sgradevole sulla pelle ancora bagnata, ma non dissi niente. Non gli avrei dato la soddisfazione di lamentarmi. Li seguii con i capelli gocciolanti e con le scarpe di tela tutte umide. Iniziavo a capire che si limitavano a mettere in pratica un sistema collaudato e sempre uguale, che gli consentiva di sfiancare i prigionieri senza bisogno di picchiarli o di minacciarli. Si limitavano a trattarti come una non-persona, a guardarti come se non fossi altro che un oggetto e a non dimostrare nessun tipo di emozione nei tuoi confronti. Quando mi riportarono in cella, restai stupita del fatto che la porta fosse aperta. Ero sicura che l’avessero chiusa, quando mi avevano scortata fuori. Una delle due guardie entrò per prima e la sentii dire, in tono asettico: «Signore». Fece segno all’altro agente di farmi entrare. Seduto sulla mia brandina c’era un uomo vestito in borghese. All’apparenza era sulla quarantina, con dei corti capelli scuri, il naso leggermente storto, il viso lungo e la mascella decisa. Gli occhi erano chiari e incassati, la struttura corporea snella, ma allenata. In poche parole, aveva i vestiti di un civile, ma l’aspetto e il contegno di un militare. Anche gli abiti avevano qualcosa di marziale. Indossava una camicia con il collo alla coreana, grigio scuro, e dei pantaloni semplici, dello stesso colore. Solo le scarpe erano fuori luogo. Erano scarpe nere eleganti, stringate, Semi-Brogue, ovvero con un numero limitato di forellini decorativi. «Signore, dobbiamo ancora perquisire la cella» mormorò la seconda guardia, a disagio. Non sapevo chi fosse quel tizio, ma i miei carcerieri sembravano in soggezione, nei suoi confronti. L’uomo si alzò con un movimento fluido e silenzioso. «Prego» disse «posso aspettare». La sua voce era bassa e modulata, il suo accento coltivato. Nonostante questo, la frase aveva qualcosa di sbrigativo, che spinse la guardia ad annuire. «Contro il muro, signorina Lilt. Conosce la procedura». Guardai lui e poi lo sconosciuto, che mi rimandò uno sguardo calmo e imperscrutabile. Molto bene, pensai. Continuate a giocare. Mi scalzai le scarpe di tela con i piedi, scalciandole un po’ più in là. Mi tirai giù la lunga zip sul davanti della tuta e me la sfilai completamente. La stoffa era bagnata in più punti, dato che me l’avevano fatta infilare senza che mi fossi asciugata. I capelli mi si appiccicarono alla schiena mentre mi andavo a posizionare con le mani contro al muro. Ancora umida, nell’aria fresca mi riempii di pelle d’oca. Lustrati le pupille, coglione, pensai, inarcando leggermente la schiena. Mi voltai dalla parte dello sconosciuto e lo osservai. L’uomo aveva le mani in tasca. Lo vidi seguire distrattamente la perquisizione del letto e dei sanitari, per poi spostare lo sguardo su di me. Mi analizzò freddamente dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, senza perdersi un dettaglio. Si avvicinò a passi silenziosi, fermandosi a circa un metro dal mio fianco sinistro. Lo guardai e lui mi guardò. «Il mio nome è Knismesis Riparian Sabrage» disse. «Faccio parte del Rettorio». Una delle guardie si accostò, infilandosi un paio di guanti. «Dobbiamo perquisire anche la prigioniera» borbottò. «Continui pure. Mi hai sentito, Scintilla Lilt?». «Si, signore, l’ho sentita» dissi. La guardia mi fece scorrere sbrigativamente le mani lungo il corpo. Sapeva benissimo che non nascondevo nulla, ma non avrebbe deviato dalle procedure. Lo sentii perquisirmi l’interno della v****a e poi l’interno dell’ano. Cercai di non fare smorfie di dolore, dato che l’uomo del Rettorio aveva gli occhi piantati sulla mia faccia, ma non riuscii a evitare di mordermi l’interno di una guancia. Ancora una volta quel tizio non si perse un dettaglio. Avrei voluto avere la forza di provocarlo. Avrei voluto riuscire a chiedergli in tono sarcastico se gli veniva duro così, ma ero troppo spaventata e troppo impotente per farlo. Mi sembrava già un buon risultato non essermi messa a piangere. «Cerchi meglio, guardia» ordinò Sabrage, in tono neutro, senza che il suo sguardo abbandonasse la mia faccia. «Sì, Scintilla Lilt. È proprio così che mi viene duro» aggiunse, con un mezzo sorriso. La guardia tornò a infilarmi le dita dentro e questa volta cominciai a piangere in silenzio, non tanto per il dolore, quanto per l’umiliazione. Di solito non insistevano mai troppo e restavano relativamente vicini “all’entrata”. Questa volta sentii le dita guantate dell’uomo sprofondarmi dentro fino in fondo e tastare le mie pareti interne con il massimo scrupolo. Per farlo mi divaricò dolorosamente entrambi gli sfinteri, ma, lo ripeto, quello che sentii di più fu l’umiliazione. Gli occhi di Sabrage non abbandonarono mai la mia faccia. Le mie lacrime lo fecero sorridere lievemente. «Potete andare» decise, quando ebbe chiarito il suo potere. Le due guardie si allontanarono in silenzio, a loro volta a disagio. Sentii la pesante porta metallica della cella aprirsi e poi richiudersi con un tonfo. Restai con le mani sul muro, cercando di smettere di piangere. Sabrage si allontanò e iniziò a girellare per la stanza. Non mi era mai sembrata più angusta. «Rivestiti» ordinò lui. Con mani tremanti, ripresi la mia tuta. Mentre la infilavo persi l’equilibrio un paio di volte cercando di fare in fretta. «Siediti». Mi andai a mettere sul letto sfatto. A quel punto rabbrividivo, sia per l’umiliazione che per il freddo. Avevo ancora i capelli zuppi. Sabrage andò al piccolo lavandino metallico e prese un asciugamano dal suo supporto. Lo esaminò come a sincerarsi che fosse pulito e tornò verso di me. «China la testa» disse. Lo guardai per un istante, ma la mia forza di volontà era già stata spezzata, almeno quel giorno. Chinai la testa. Lo sentii raccogliermi i capelli e avvolgerli nell’asciugamano, che poi fermò incastrandone un lembo sotto al resto. Rialzai la testa. «Il Rettorio sta formalizzando le accuse nei tuoi confronti. Abbiamo intenzione di accusarti di omicidio, di sabotaggio e di crimini contro il Distretto, aggravati dal fine terroristico. Sai che cosa significa?». Deglutii forte. Lo sapevo benissimo. Significava che la mia vita finiva in quel momento, in pratica. Mi avrebbero spedita al Pozzo, dove sarei marcita lentamente fino a disfarmi nel corpo e nella mente. Stavo già tremando, ma iniziai a tremare ancora più forte e ripresi a piangere. Non un pianto silenzioso e umiliato, questa volta, ma un pianto spaventato e singhiozzante. Sabrage mi posò la mano su una spalla. In un altro momento me la sarei scrollata di dosso, ma quel pomeriggio la trovai quasi confortante. «Potrai parlare con un avvocato, ovviamente» aggiunse. Annuii appena, continuando a singhiozzare, ma ero perfettamente consapevole che sarebbe stato inutile. Non c’era assolutamente nulla che io potessi fare, se non appellarmi alla clemenza della corte. E la corte, probabilmente, era composta di persone come quella che avevo davanti. «Sì, te lo garantisco» disse lui, secco. Allontanò la mano. «Che cosa sei disposta a fare per salvarti?» aggiunse, in tono molto più morbido, quasi pensieroso. Lo guardai. «Q-quello che volete...» «Quello che volete chi?». «Q-quello che vuole l-lei, signore» mormorai io. E a quel punto avrei fatto davvero qualsiasi cosa. Non avevo la minima idea se quel tizio potesse aiutarmi in qualche modo, ma non avevo niente da perdere. E avevo ben chiaro che cosa fosse il Pozzo. Celle sotterranee grandi poco più di te, in cui non riuscivi neppure a stenderti completamente. Umidità, claustrofobia, mai un’ora d’aria, isolamento completo, buio. Quelli che finivano nel Pozzo finivano nella propria bara, solo che tecnicamente erano ancora vivi. «Inginocchiati» ordinò Sabrage. Lo feci senza un istante di esitazione. Se non serviva a niente, se era solo un funzionario che si approfittava della situazione, comunque non aveva importanza. Scivolai in ginocchio davanti a lui. «Tira giù la cerniera». Feci anche quello, con mani tremanti. Non mi aspettavo niente di meno. Cercai di prepararmi mentalmente, ma a quel punto ero vicina al panico. Mi sembrava tutto ugualmente orribile. «No, non è tutto ugualmente orribile» disse lui. «Ogni cosa è orribile a suo modo, fidati. Abbassa la tuta». Sfilai le maniche e la lasciai cadere a terra attorno alle mie ginocchia. Avevo la pelle d’oca, ma i miei capezzoli erano ritratti. Sperai che Sabrage non volesse che sembrassi contenta o eccitata, perché non potevo farcela. Lui mi posò una mano sulla testa. «Oh, potresti farcela, invece. Se ti ordinassi di farlo, ci proveresti fino a riuscire. Ma, vedi, non mi interessa. Anzi, non mi piace nemmeno. Guarda». Mi tirò la testa verso di sé e mi trovai con la faccia premuta sul suo inguine. Sentii un conato di vomito risalirmi dallo stomaco, ma riuscii a tenerlo giù. «Inizia ad ansimare» ordinò lui, senza pietà. Deglutii. Avevo la faccia premuta contro i suoi pantaloni e non respiravo molto bene. In quanto a Sabrage, non sembrava che si divertisse o, comunque, non al punto da avere un’erezione. Provai a emettere un piccolo gemito. Ricominciai a piangere per la vergogna, ma ci provai comunque. Dopo il primo ne emisi un secondo e un terzo. Cercai di sembrare eccitata e vogliosa, se era quello che gli piaceva. Lo mordicchiai delicatamente attraverso la stoffa dei pantaloni. Lui rise. Quella risata, in quel momento, mentre mi mettevo l’amor proprio sotto ai piedi per cercare di salvarmi la vita, mi distrusse completamente. Mi allontanò la testa e mi spinse di nuovo sulla brandina. Strinsi gli occhi e aprii le cosce. Mi aspettavo di sentirmelo sopra un secondo dopo, ma tutto quello che sentii fu di nuovo la sua risata. «Copriti» ordinò. Mi affrettai a farlo, tra il sollevato e il preoccupato. Perché fossi sollevata è evidente. La preoccupazione era questa: se non mi voleva, significava che non mi avrebbe aiutata? «Al contrario» disse lui. Tornai a guardarlo. «Sei un ingegnere, giusto?». Annuii. «Hai studiato le Giunzioni e l’ingegneria civile del Distretto, mi risulta». «Sì» confermai. «Sì, signore, volevi dire». «Sì, signore» ripetei. Lui inclinò la testa da un lato, pensieroso. «Questo mi serve, non i tuoi patetici gemiti da cagna». Annuii di nuovo, anche se era stato lui a chiedermi di ansimare. Quello che gli piaceva, mi resi conto, era umiliarmi. Glielo avrei lasciato fare, se serviva a salvarmi dal Pozzo. «Sì, con un minimo sforzo posso strapparti alla polizia politica. Niente processo, niente prigione». Mi limitai a guardarlo, cercando di capire se lo stava dicendo solo per darmi un’illusione di salvezza e potermi ferire di più quando mi avrebbe detto che non era vero, ma interpretare la sua espressione era impossibile. «Ti tirerò fuori di qua, se lavori per me e fai tutto quello che ti dico. Tutto, hai capito?». «Sì, signore». «Se dovessi rifiutarti di obbedire a un mio ordine, qualsiasi sia l’ordine, ti rispedirò qua in mezzo secondo». Annuii di nuovo. «Bene. Ti manderò a prendere. Dormi, ora». Detto questo, andò alla porta e battè un paio di colpi. Immediatamente dopo sentii la chiusura aprirsi sferragliando e Knismesis Riparian Sabrage uscì dalla cella.

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