2.-1

2004 Words
2. Damasco era una strana città. In quei giorni nell’aria c’era un’inquietudine nuova, diversa. Era come se essere una delle poche nazioni benestanti in un’area geografica infelice ai siriani non bastasse più. Era come se volessero liberarsi dalle vecchie consuetudini: la ragionevolezza, la dittatura... Mi chiedevo se tutte quelle belle idee fossero venute ai siriani da soli. Se fosse stato internet a mostrar loro quant’erano belle le democrazie occidentali o se non ci avessero messo lo zampino le democrazie occidetali stesse. Domanda idiota, a ben pensarci: le democrazie occidentali ci mettevano sempre lo zampino. E il fremito che attraversava il paese aveva l’odore di un’operazione americana delle meno sottili. Comunque. Quello che interessava a me era Zoran. Appena arrivata, due giorni dopo aver parlato con Quinn, corruppi un funzionario dell’aeroporto per avvisarmi dell’arrivo del biondino e feci in modo di avere un piede in tutti gli hotel per occidentali della città. Non ci voleva molto. Erano praticamente le basi. Lavorando da freelance non avevo grandissime risorse e non avevo copertura, ma per piazzare le proprie pedine in una città come Damasco non serviva molto. Mi facevo passare per una giornalista occidentale quando mi conveniva (avevo delle credenziali belghe e olandesi) e mi velavo tutta quando dovevo passare per una mediorientale. Ho gli occhi castani e la carnagione di quel colore medio che potrebbe essere di buona parte del mondo. Sono i lineamenti del viso che mi identificano come occidentale e nei paesi mussulmani è facile coprirli a sufficienza. Il mio arabo ha un accento difficile da individuare, ma per lo più posso passare per una nordafricana. Non in nordafrica, è chiaro. Quindi, quando tre giorni dopo Zoran arrivò io ero pronta. Riuscii addirittura a seguirlo dall’aeroporto con un taxi irregolare. Brkoviæ scese al Talisman, un cinque stelle un po’ sottotono nonostante appartenesse a una catena di hotel, e non uno dei preferiti dagli occidentali. Era chiaro che non voleva essere notato, ma era altrettanto chiaro che non cercava la completa invisibilità. Anche perché un occidentale biondo e alto, comunque, a Damasco se vuoi notarlo lo noti. E io volevo notarlo. Lo seguii. Non fu particolarmente difficile, perché Zoran non si preoccupò di non farsi seguire. Forse non si aspettava problemi, forse, semplicemente, non fece attenzione a una donna velata. Anni più tardi seppi che in quei giorni era un altro l’agente di cui aveva paura. Dato che io non ero lui, nemmeno fece caso a me. Lo seguii anche quella sera, quando si incontrò con un iracheno di mezza età in un bagno turco del centro. Ovviamente non ebbi modo di seguirli fino all’interno, ma li aspettai all’esterno, per poi seguire l’altro, l’iracheno, all’uscita. Lui aveva paura di essere seguito, ma non era un professionista. Provò a seminare chiunque fosse sulle sue tracce con una serie di trucchi da manuale, finendo per stancarsi e spaventarsi da solo. In quella città magnifica, io ero virtualmente invisibile. Ci sono città mediorientali in cui le donne non vanno in giro da sole, ma Damasco non era così. A Damasco ero una mussulmana in mezzo alle altre, nessuno faceva caso a me. Seguii il mio obbiettivo fino a un suq. Forse voleva confondersi nella folla, come nei migliori film di spionaggio. Lo seguii con passo leggero, mentre lui ormai sbuffava e sudava. Lì, in quel turbine di corpi umani, avrei potuto ucciderlo senza che nessuno facesse caso a me e allontanarmi prima che qualcuno mi fermasse. Ma, come dicevo, i freelance non hanno copertura. Se commettono un crimine in un paese straniero non arriva nessun pezzo grosso a salvarli. Vengono processati e, se va tutto bene, estradati nella propria nazione d’origine. Se le cose vanno male si trovano a marcire nel carcere di un posto come la Siria. No, grazie. Mi avvicinai a sufficienza al mio obbiettivo da accoltellarlo e lo feci senza alcun senso di colpa, ma non lo uccisi. Non ne avevo nessuna intenzione. Lo accoltellai in profondità a una coscia e alla pancia, mettendo a rischio la sua vita in modo marginale. Avrebbe potuto morire, sì, ma solo se non fosse stato portato al più presto in ospedale. E dato che era in mezzo a un mercato, in centro città, non c’era motivo per cui non avrebbe dovuto ricevere tempestivamente aiuto. Inoltre – qua stava l’intelligenza del mio piano – mentre lo accoltellavo gli rubai il portafogli. La mia aggressione diventava un furto finito male, un incidente che non gli sarebbe mai successo se non avesse pensato di far perdere le proprie tracce in un mercato pieno di borseggiatori. Dopo essermi occupata del mio obbiettivo, me la filai in fretta, ma senza correre. Guardai il suo nome sulla patente e chiamai un contatto di Quinn perché gli agenti britannici andassero a recuperare il nostro amico in ospedale, se così volevano. Era andato tutto bene. Be’, ovviamente il mio target avrebbe potuto non darmi l’occasione di mettere in atto il piano che avevo ideato – e in quel caso avrei dovuto ucciderlo e basta – ma ormai era andata. Soddisfatta di come avevo gestito la prima parte dell’operazione, tornai in hotel e mi preparai per la seconda. +++ Mi cambiai, rimettendo i panni della giornalista occidentale. Ora che mi ero occupata dell’iracheno dovevo occuparmi di Zoran. Non vedevo l’ora di farlo. Misurarsi con un altro professionista, battersi con lui, per me è sempre eccitante. Con Zoran avevo un vantaggio: non mi conosceva. All’epoca ero solo un puntino insignificante sulla mappa delle proteiformi agenzie di intelligence private. Un nulla. Perfettamente invisibile in quanto troppo insignificante. Indossai un paio di jeans aderenti, delle ballerine e una maglia con un morbido scollo a barca. Quando voleva essere volgare (ossia sempre) Quinn mi definiva “una gran figa”, ma non è proprio così. Ora come allora ho un fisico sodo e snello, piuttosto minuto ma non fragile, con le tette piccole e le gambe lunghe, una bella bocca sfrontata, un naso molto francese, gli occhi scuri e allungati. Con un minimo di manutenzione posso essere bella, non “una gran figa”. E con altrettanta minima manutenzione posso diventare invisibile, incolore, niente-di-speciale, una che non ti ricordi dieci minuti dopo averla vista. Quella sera mi vestii e mi truccai in modo da essere bella, ma non vistosa. Misi insieme la mia valigia e presi un taxi per il Talisman. Feci il check-in come se fossi arrivata quel giorno. Non sapevo quali fossero i piani di Zoran per la serata. Poteva anche darsi che non uscisse dalla sua camera neppure per mangiare, in quel caso avrei avuto qualche problema. E non sapevo che piani avesse con l’iracheno. Si erano visti quel pomeriggio... quando doveva aiutarlo a lasciare il paese? Quella sera stessa o il giorno dopo? E aveva già saputo dell’incidente che l’iracheno aveva avuto al mercato? Se sì, l’aveva attribuito a un borseggio o aveva capito che c’era una terza parte in gioco? Erano tutte domande a cui non potevo rispondere. Nel mio lavoro è quasi sempre così: raccogli tutte le informazioni possibili, ma poi agisci quasi sempre al buio, improvvisando. È una delle cose che amo del mio lavoro, è chiaro. Mi sedetti nel cortile interno dell’hotel e aspettai, giocherellando con il cellulare, ma tenendo d’occhio l’ingresso. Bevendo tè verde e guardandomi attorno. Ovviamente venni abbordata quasi subito da un terzetto di turchi. Me ne liberai e venni abbordata da un siriano solitario. Mi liberai anche di lui e mi resi conto che Zoran era uscito a sua volta nel cortile e mi stava guardando. Lo guardai anch’io. L’avevo già visto di persona, ma non così da vicino. Ora era sì e no a cinque metri di distanza e trovai la sua figura davvero notevole. Era vestito come quel pomeriggio, con dei pantaloni cargo e un maglione di filo blu. Nella luce del tardo pomeriggio mi accorsi che i suoi occhi non erano azzurri come avevo pensato dalle fotografie, ma di un verde chiarissimo. Continuò a guardarmi per diversi secondi, analizzando quello che vedeva, e alla fine io inarcai un sopracciglio, ironica. Lui sembrò riscuotersi e si avvicinò. «Mi scusi tanto» disse, in un inglese dall’accento dell’est, «non intendevo fissarla». Non spiegò che cosa avesse intenzione di fare, se non fissarmi, ma pensai bene di non infierire. Anche perché sapevo benissimo che cosa stava facendo: cercava di ricordare se mi avesse già vista da qualche parte. Probabilmente, anche se quel pomeriggio non mi aveva notata il suo subconscio registrava delle somiglianze tra me e la donna araba che aveva incrociato nel corso del giorno. Speravo che quella sensazione non si facesse più precisa, perché se no avrei potuto avere dei problemi. Sperai anche che Zoran non si fidasse troppo delle sue sensazioni. Seguendo il mio istinto, gli feci segno di sedersi al mio tavolo. «Non è un problema» risposi alle sue scuse, a mia volta in inglese. «Probabilmente l’avrei fermata lo stesso». Ne sembrò divertito. «Sì? Perché?». «Informazioni turistiche. Sono arrivata da poco, mentre lei sembra...» «Sembro?». Mi produssi in uno dei miei migliori sorrisi imbarazzati. «Non lo so. A suo agio». Tra l’altro era vero. Zoran Brkoviæ aveva l’aria di essere perfettamente a suo agio, in quell’hotel. «È possibile» disse, con un sorriso educato. «E queste informazioni turistiche?». Mi sporsi leggermente verso di lui. Non invadente, non aggressiva... avvicinandomi quel tanto che bastava perché riuscisse ad annusare il mio profumo. «Se non volessi mangiare in albergo, no?». Sulla sua fronte si disegnò una piccola ruga. «Da sola?». «Be’, non voglio andare in un quartiere malfamato o...» «Le consiglio di restare in albergo lo stesso. Al massimo di andare a cena nel ristorante di un altro albergo. Glielo consiglio anche se è in compagnia. Il cibo qua a volte può essere... problematico, per un occidentale». Risi e bevvi un altro sorso di tè. «Non sono arrivata così da poco». Sorrise a sua volta. Aveva i denti bianchissimi, non storti, ma non allineati da un apparecchio ortodontico. «Insomma... è decisa a rischiare». Mi strinsi nelle spalle. «Ma no... me ne resterò qua, ho capito». «È una turista?». Risi di nuovo. «Una giornalista». Feci una piccola pausa. «Freelance» aggiunsi. «E lei?». Lui non sbatté neppure le palpebre. «Oh, lavoro per il governo». «E sarebbe indiscreto chiedere per quale governo?». Finse di essere colto alla sprovvista. «Ma per quello britannico, naturalmente». «Solo che lei non è britannico, mi sbaglio?». Sorrise, un po’ sornione. «Neanche lei. Lei è... francese?». «Belga». Gli tesi la mano. «Lilas Peeters» mi presentai con il nome sulle mie qualifiche da giornalista. Lui strinse la mia mano e rispose: «Zoran Brkoviæ». «Zoran Berkoviæ» ripetei, storpiando leggermente il suo cognome. Mi rivolse un sorriso gentile. «Brkoviæ» mi corresse. «Lo so, è difficile. Be’, ora che ci siamo presentati...» «Andiamo a cena» conclusi io. Gli lanciai una lunga occhiata. «Dove vuole lei». Zoran sembrò divertito. Si strinse nelle spalle. «Camera mia sarebbe perfetta». +++ Prima che dicesse quella frase stavo quasi iniziando a preoccuparmi. Flirtare discretamente non è il mio stile e temevo che a Zoran non fosse arrivato il messaggio. Ma gli era arrivato, si era solo preso un po’ di tempo per riflettere. Come giornalista straniera non avevo molto senso. Come freelance ne avevo ancora meno. La mia storia di copertura non era fatta per essere credibile, solo per superare i controlli svogliati di un funzionario che avresti comunque dovuto corrompere poco dopo. Una volta capito che non ero una giornalista l’unica possibilità che aveva per scoprire che cosa ci facessi lì, nel suo stesso albergo, era approfondire la conoscenza. Quindi salimmo in camera sua e consultammo il menù del servizio in camera commentando più o meno ogni piatto. Zoran chiamò per ordinare e ci sedemmo sul balcone ad aspettare il nostro ordine. Ero pervasa da una strana energia, da quell’eccitazione che solo le situazioni di massima incertezza possono darti. Zoran avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, compreso cercare di uccidermi. Non era molto probabile, ma era pur sempre una possibilità. «Quindi, spiegami... perché sei venuta proprio qui?» decise di mettere alla prova la mia storia, per il momento. «Ti hanno commissionato un pezzo sulla Siria? Turismo?». Scossi la testa. Damasco, davanti a noi, al tramonto era maestosa. Sulla nostra terrazza spirava un vento tiepido e profumato di carne speziata. «Qua sta per succedere qualcosa, non pensi?» risposi. «La Siria ronza come un alveare pieno di api. Tutto il mondo arabo: Tunisia, Egitto, Libia... così sembrerebbe. Dico, sembrerebbe l’inizio di qualcosa, no?». Zoran mi lanciò una lunga occhiata. Era appoggiato con i gomiti al parapetto e con quella luce i suoi occhi sembravano giallo chiaro. «Sì, sembra l’inizio di qualcosa» concordò. «Ma la Siria?». «La gente non è felice. Be’, neppure in Yemen, in Algeria, in Iraq, in Giordania, nel Bahrein, nel Gibuti... ma qui è diverso. Qui c’è qualcosa nell’aria. Basta fare un giro in internet. Ci sono state proteste, se ne stanno organizzando altre. Ho pensato che valesse la pena appoggiare l’orecchio per terra e ascoltare».
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