1.
«Nel suo profondo, credo che Zoran Brkoviæ sarà sempre un soldato» mi disse Quinn, la prima volta che mi parlò di lui. «Esegue gli ordini senza fare domande. Be’, perché non gli interessano le motivazioni, probabilmente, ma comunque... È disciplinato, ordinato. Quando lo vedi per la prima volta ti fa una strana impressione, ma non è sgradevole. Più lo guardi e più ti abitui a lui. Alla fine potresti persino trovarlo bello».
«Non vedo che cosa c’entri, Quinn. Ne parli come se dessi per scontato che ci andrò a letto» risi io.
Lui mi rivolse un sorriso a metà. «Be’, è un po’ la tua tecnica, no? E intendiamoci... non ho niente in contrario. Anzi, mi piace. Mi piace avere tra gli operativi una puttanella ninfomane come te, Lolie Sebastien».
Mentre lo diceva allungò un piede, insinuandolo dolcemente tra le mie gambe. Mi appoggiò la pianta sulla chatte e me la massaggiò. Emisi un sospiro e aprii le cosce. All’epoca impazzivo per Quinn. Lui mi infilò l’alluce tra le grandi labbra, si fece largo tra le piccole e me lo mise a mollo nella fichetta. Ero tutta bagnata e sapevo che gli piaceva. Ne avevo le prove davanti agli occhi, diciamo.
Eravamo stesi su un sofà in un appartamento del centro di Parigi. Soffitti alti e stucchi barocchi. Nudi, le gambe intrecciate e i gomiti appoggiati sui braccioli, ci fronteggiavamo dalle estremità opposte del sofà. E Quinn aveva infilato l’alluce dentro la mia fichetta. Era una scena un po’ decadente, lo so, ma aveva anche le sue attrattive.
«Bene, poniamo che me lo porterò a letto. A parte questo che cosa...»
Quinn mosse leggermente l’alluce, facendomi sospirare. «È nato in Serbia trentasei anni fa. Fatti un paio di conti e capirai che non ha avuto un’infanzia particolarmente felice. Subito dopo la fine del conflitto si è ficcato nell’esercito... soldati addestrati dalle truppe NATO, hai presente. Profilo esemplare, ottimo cecchino, ma quelli non erano paesi per uomini ambiziosi, allora meno di ora. Si è dimesso e ha iniziato a lavorare a contratto».
«Per il miglior offerente?» chiesi. Mi ricordava qualcuno.
Quinn mi spinse dentro l’alluce più che poteva. «Toccati» ordinò.
Gli rivolsi un sorriso sornione e allargai ancora di più le cosce, mostrandogli la mia fichetta quasi del tutto glabra, con solo un ciuffetto di riccioli castani in alto. Mi sfiorai il clitoride con il medio, mentre lui mi scopava con il piede. Finalmente lo vidi prendersi l’uccello in mano. Era duro da dieci minuti abbondanti. Chiuse la grande mano dalle vene in rilievo attorno all’asta bruna del suo cazzo e iniziò a masturbarsi lentamente.
«Per il miglior offerente... all’inizio...» mi spiegò, indifferente ai miei gemiti frustrati. Il suo alluce non mi bastava. «Poi con un’agenzia di intelligence privata... la Global Information... nome astuto... ci sono altre decine di attività registrate... che si chiamano così. Sede legale... Gibilterra... non provare a venire».
Scostò il piede e lo usò per allontanarmi la mano. Poi si rivoltò e gattonò su di me, l’uccello duro e gli addominali dai muscoli guizzanti. Forse l’ho già detto, ma all’epoca adoravo Quinn. Pur essendo inglese era così maschio. Bruno, atletico, sulla quarantina... completamente stronzo.
Io avevo ventotto anni e lavoravo per il miglior offerente. L’MI6 era un offerente di tutto rispetto e Quinn sapeva come rendere più interessanti le cose.
«Voltati» mi disse, quando fu a quattro zampe sopra il mio corpo. Avevo iniziato ad accarezzargli l’uccello e lasciarlo andare mi dispiacque un po’.
Mi rivoltai e gli strofinai il sederino contro, sperando che si decidesse a sbattermi come sapeva fare, quando voleva. «Gibilterra vuol dire tutto e niente. Per chi lavorano, questi signori della Global Service?» chiesi.
Quinn mi mise dentro la cappella. Era così grosso e avevo così voglia di prenderlo tutto. Il modo in cui mi allargò la fichetta, tendendola senza soddisfarmi ancora...
«Global Information, Lolie. Non iniziare a fare casino. E lavorano per l’asse del male...» Me lo infilò tutto dentro, facendomi gemere forte. «Be’, del male dal nostro punto di vista» si corresse.
Gli premetti il sedere contro, cercandolo. Mi arrivava senza sforzo alla cervice, ma volevo di più. Volevo che mi ingroppasse fino a lasciarmi distrutta e sapevo benissimo che sapeva farlo, se voleva.
Allungò una mano tra le mie gambe e trovò il mio clitoride. Iniziò a giocherellarci e a me sembrò di impazzire per la frustrazione. Gemetti e mi contrassi attorno a quell’uccello così grosso, così duro e così immobile.
«Quinn...» lo chiamai.
«Tra cinque giorni Zoran incontrerà una persona a Damasco. Non sappiamo chi sia questa persona, se maschio, femmina, giovane, vecchia... più probabilmente un uomo di mezza età che in passato ha avuto un ruolo di secondo piano nel governo iracheno».
Mentre lui parlava io contiuavo a gemere, ma riuscii a dire: «Ai tempi di Saddam?».
«Brava» confermò Quinn. Si decise a spostarmelo dietro. Lo sentii premere sul mio buchetto posteriore, grosso, duro, pesante e reso viscido dai miei umori.
«Oh, sì» ansimai.
«Non deve riuscire a portarlo fuori dal paese. Hai capito?».
La sua cappella mi era entrata là dietro e in realtà non capivo più niente. Provavo solo piacere e delore, mescolati in un una sensazione forte, vertiginosa, stordente. Mi faceva così male... mi faceva così godere...
«S-sì» riuscii a gemere.
Mi scivolò fino in fondo e ricominciò a sgrillettarmi piano-piano. Il suo randello mi riempì tutta, tendendomi allo sfinimento e facendomi contrarre selvaggiamente il buchetto.
«Meno parlano meglio è, ma in fondo non ha importanza. L’asset non deve lasciare il paese con Brkoviæ e Brkoviæ non deve portare via niente di suo... cd, memorie usb, buone-vecchie microfiches...»
Finalmente iniziò a muoversi. I miei gemiti si fecero sempre più sonori e disperati, singhiozzi vogliosi e pieni di desiderio. Quinn mi strizzò la fica con la mano e mi martellò senza un grammo di gentilezza, allargandomi tutta, riempiendomi tutta, facendomi sobbalzare le tette a ogni spinta.
Mi fece il culo con tutto se stesso e iniziò a venire senza aspettarmi. Ero così infognata con lui che trovavo eccitante anche il suo egoismo, all’epoca, quindi fu proprio il fatto che non mi avesse aspettata a darmi la spinta finale verso l’orgasmo.
Guaii e uggiolai, accasciandomi sul divano mentre Quinn finiva di svuotarsi dentro di me. Il piacere mi fece pulsare entrambi gli sfinteri e mi squirtai sulle cosce. Quinn continuò a trafiggermi ancora per qualche istante, ovviamente fregandosene se mi faceva male.
Si sfilò e si mise a sedere, stravaccandosi contro lo schienale. Io ero ancora rannicchiata nella posizione in cui ero venuta e lui mi appoggiò una mano sul culo.
«Sei così affamata di cazzo, Lolie. Sei così troia» disse, stringendomi una natica. «È per questo che sto passando questo lavoro a te e non a qualcun altro. Non sei la freelance migliore a cui rivolgersi, ma sei una gran figa e ti piace darla a tutti. Stai attenta con questo ragazzo, però. Per prima cosa è slavo... sono duri, da quelle parti». Mi infilò un dito dietro, nel buchetto che aveva appena finito di usare. Fu fastidioso ma, ancora una volta, all’epoca ero così presa da lui da trovare eccitante il suo latente sadismo: emisi un soffice gemito di dolore e desiderio. «La Global Information è un’agenzia di piccola taglia, ma nemmeno noi siamo mai riusciti a capire bene quanto sia davvero così e quanto sia una copertura. Ha dei contatti in Russia, il nostro Zoran. Ha dei contatti fino in Iran. Non sottovalutarlo».
Mi infilò due dita anche davanti e mi spinse dentro. Gemetti, cercando di alzare il sedere. Il dolore era piacere, a quel punto.
«Ne vuoi ancora, mh?» mi chiese, continuando a spingere.
«Sì» ansimai.
Lui sfilò e le dita e mi mollò uno schiaffetto tra fica e culo. «Be’, io no. Ti mando il suo file stasera, Lolie. Ci vediamo».
Detto questo si alzò e andò verso il bagno, lasciandomi su quel divano, in un appartamento di chissà chi, nuda e ancora eccitata.
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Quella sera ricevetti il file su Zoran Brkoviæ in una delle mie caselle e-mail. Ero tornata a casa, nel XVIII Arrondissement, nel mio piccolo appartamento di Monmartre. Mi portai il laptop a letto e mi infilai sotto le coperte (era gennaio, fuori era freddissimo) con una tazza di tè caldo sul comodino. Guardai il file.
All’epoca aveva trentasei anni, l’ho già detto. Le foto mi mostravano un uomo alto (un metro e novantuno, diceva la scheda), un po’ troppo magro ma con le spalle larghe. Un viso strano, tagliente come un vetro rotto, dalla fronte sporgente e dagli occhi sottili, il naso affilato e la labbra quasi inesistenti. Poi i capelli, chiarissimi, riccioli, tirati all’indietro. Le sopracciglia ad ala di gabbiano e una luce spietata nello sguardo. Almeno in quelle foto.
Lessi le informazioni che avevano raccolto su di lui gli inglesi. Lavorava in ambito internazionale da quasi dieci anni. Pareva che avesse fatto un po’ di cosucce, ma nel nostro lavoro non si poteva mai dire.
Il nostro lavoro. Un tempo veniva definito spionaggio, e il concetto è ancora quello. Ma ora preferiamo dire che forniamo servizi d’intelligence, informazioni di natura confidenziale nella lotta globale al terrorismo. Che sia vero o meno.
E le agenzie di intelligence private, o i freelance come me, sono i nuovi attori di un gioco vecchio come il mondo. I servizi segreti della maggior parte dei paesi hanno le mani legate dalle leggi sempre più garantiste delle democrazie occidentali. Sono rimasti in pochi a potersi permettere la mano pesante, ufficialmente o semi-ufficialmente.
Certo quelli della CIA avevano in piedi operazioni da macellai in tutto il Medio-Oriente e in tutta l’Africa, ma esclusi quegli scenari potevano fare ben poco. Ma potevano assumere degli operatori privati, i cui unici obblighi nei confronti della legge erano... non farsi beccare.
All’epoca non giocavo da molto. Avevo ventotto anni e un macho come Quinn mi faceva bagnare fino alle ginocchia. Ma avevo già alcune operazioni alle spalle e non vedevo l’ora di pavoneggiarmi sulla scena dello spionaggio internazionale con qualche nuova impresa.
Quella sera guardai per bene il file su Zoran Brkoviæ e pensai a Quinn. Ci pensai così tanto che alla fine dovetti darmi una calmata usando il mio rabbit. Il fatto era che là dietro ero ancora gonfia e quindi non pensare a lui era difficile.
Mi masturbai con calma, con il laptop ancora aperto davanti e lo sguardo spietato di Zoran a guardarmi. Mi infilai dentro tutto il rabbit e strinsi le cosce, strofinandomi le “orecchie” sul clitoride. Lo accesi e mi massaggiai per bene la fichetta.
Ebbi una fantasia un po’ perversa (le mie preferite), in cui immaginavo di raccontare a Quinn in ogni dettaglio che cosa mi ero lasciata fare da Zoran, lì. Di dirgli che Zoran mi aveva scopata senza guanto bloccandomi le mani dietro alla schiena, infilzandomi fino a spellarmi la passerina. Che poi mi aveva sodomizzata con forza e mi aveva fatto leccare il suo uccello ancora odoroso del mio sedere. Che mi aveva sborrato in faccia e sulle tette, che mi aveva toccata dappertutto.
Immaginai che Quinn si eccitasse sempre di più, fino a stringermi a sé, sbattermi per terra, strapparmi i vestiti e scoparmi con una passione che non mi aveva mai dimostrato.
Quando finii, sudata e ansimante, mi chiesi che cavolo mi avesse fatto quell’inglese di merda e perché fossi così ossessionata da lui. In poche parole, tanto per cambiare, mi chiesi se avessi qualcosa che non andava.