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Il mio incubo preferito

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Blurb

Sarah Adams ne ha già passate parecchie, quando viene rapita da due inquietanti sconosciuti dalla pelle candida e dai denti aguzzi e scopre un mondo di cui non immaginava nemmeno l"esistenza. Un mondo crudele e sanguinario, nel quale resterà intrappolata. Nei giochi di piacere e di sangue di Adrian, il suo nuovo "padrone", e in una guerra tra esseri sovrannaturali che non vuole saperne di finire...

“Lui era a letto, tra le lenzuola, ancora in pigiama. Inutile dire che era un elegante pigiama da uomo di seta nera, però.

«Sei la mia colazione» spiegò, stiracchiandosi. «Spogliati».

Feci come mi diceva e rimasi in piedi accanto al letto, nuda, con le mani lungo i fianchi. Confesso che, dopo la volta precedente, l’idea di fargli da colazione non mi dispiaceva per niente. Avevo i capezzoli eretti ed ero piuttosto ansiosa di farmi mangiare.

Mi mostrò gli oggetti che intendeva usare su di me e io li osservai incuriosita.

Adrian rise. «Guardati! Questo è un secolo senza paura. In un certo senso è un peccato... ma è anche piuttosto pratico. Quali hai già usato?».

«Mh? No, nessuno. Non è il mio genere, credo. Ma capisco quello che intendi: non ho paura, possiamo provare. Se non mi piace, tu smetti?».

Lui rise di nuovo. «Non penso».”

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1.
1. Dall’incubo non mi ero svegliata. Ero passata dal sonno – se poi era sonno, quello – alla veglia, ma era tutto senza senso come prima. Cercherò di raccontare dall’inizio, con ordine. L’ultimo ricordo “normale” è di me che vado verso la mia macchina, all’uscita dal lavoro. Il mio lavoro: ballare strusciandomi contro un palo in un locale nella periferia est di Londra. Un lavoro schifoso che avrei tranquillamente definito un “incubo”, prima di finire in un incubo vero. Ero uscita dal locale verso le quattro di notte, come cinque giorni su sette alla settimana, dopo aver fatto il pieno di aspiranti geni della finanza dalle mani lunghe, anziani pervertiti che mi guardavano fisso e sottili pressioni da parte di Bobby perché incontrassi qualcuno dei suoi clienti migliori privatamente. Bobby era il gestore del Dreamland e quando non cercava di farti prostituire non era nemmeno così male. Pagava regolarmente, per dirne una. Se avevi la febbre mandava qualcuno a comprarti l’aspirina. Comunque, ero uscita dal locale. L’aria era fredda e un po’ nebbiosa. Nel parcheggio del Dreamland c’era un gruppo di clienti ritardatari che stava salendo su una familiare. Erano tutti piuttosto ubriachi. Mi ero stretta nel mio cappottino rosso e mi ero affrettata verso la mia auto, che era parcheggiata abbastanza lontano dall’ingresso. Bobby diceva di non volere la mia Micra tutta scassata troppo in vista, perché avrebbe dato un’immagine negativa del locale, quindi ero costretta a lasciarla nel parcheggio del supermercato accanto al club. Mentre andavo da quella parte avevo sentito due voci dietro di me, una maschile e una femminile. Ora lo ricordo benissimo, ma in quel momento non ci avevo fatto caso. La voce femminile aveva chiesto: «Questa?». E quella maschile aveva risposto: «Sì, questa va bene. Io prendo la macchina». Dopo era successo tutto molto velocemente. No, un attimo. Non molto velocemente, troppo velocemente. Una figura mi aveva avvicinata sul lato destro e mi aveva premuto qualcosa di morbido sopra alla bocca. Così veloce da farmi sentire come se fossi io a muovermi al rallenty. Avevo cercato di respirare. L’odore... non ricordo l’odore, ma c’era un odore ed era molto particolare. Poi, il buio. +++ Quando mi svegliai l’incubo non finì, l’ho già detto. Anzi, continuò. Avevo sognato delle figure pallide che si chinavano su di me e mi toccavano con le loro mani dure. Non mani sudate come quelle dei clienti del Dreamland, mani fredde e seriche. Non ho un ricordo preciso. C’erano dei visi bianchi dagli occhi scintillanti. Mi scrutavano. Mi tastavano. Mi spogliavano. Quando mi svegliai per prima cosa vidi le sbarre. Per primissima cosa, come se il mio cervello sapesse che erano il dettaglio più importante. Mi resi conto di essere dentro una gabbia di ferro come quelle per le tigri. Ero sdraiata su un fondo metallico bucherellato, nuda. Avevo freddo, ma non freddissimo. Abbastanza freddo da avere la pelle d’oca, ma non abbastanza da rabbrividire. La gabbia in cui ero chiusa era lunga circa due metri, larga uno e alta uno. Una gabbia per le tigri, come dicevo. Addosso non avevo più assolutamente nulla. Niente vestiti, questo è ovvio, ma anche niente orecchini, anelli... non avevo più la mia collanina con la croce, regalo di mia nonna. Niente. Solo io, nuda e infreddolita, esposta agli sguardi degli altri occupanti della stanza. Sto cercando di descrivere le cose nell’ordine in cui colpirono me, per questo non ho ancora parlato del resto della stanza. Sembrava il salotto di una residenza di lusso, anche se era freddo e poco illuminato. La tappezzeria era grigio-argentata, con un disegno molto elegante. Era una stanza grande, di almeno otto metri per otto. Su un lato dovevano esserci due grandi finestre, che però in quel momento erano completamente schermate da dei pesanti tendaggi di velluto bordeaux. La luce proveniva da diversi piccoli lumi che avevano qualcosa di funereo. Erano posati su mobili molto eleganti, laccati di nero e dalle imbottiture rosso scuro. Sembrava il set di un film di vampiri, ma con un tocco moderno, da rivista di moda. I quadri erano astratti, per dire, nei toni del grigio e del nero. Su un lungo divano erano sedute due persone che sembravano perfettamente intonate all’ambiente. Una donna molto bella, poco più grande di me, con i capelli di un rosso dorato e un vestito nero dalla vita strettissima. Era così elegante da sembrare una modella e sedeva languidamente su un fianco, parlando a voce bassissima con l’uomo seduto accanto a lei. Lui doveva avere poco più di trent’anni. Aveva i capelli corti e chiarissimi, quasi bianchi. Indossava un gessato nero elegante come il vestito di lei. Entrambi erano snelli, con la pelle pallida e perfetta, e gli occhi luminosi e splendenti. Stavano conversando, come ho detto, ed erano a circa tre metri da me, ma non riuscivo a sentire quello che dicevano, da quanto il tono della loro voce era basso. Mi chiedevo come potessero sentirsi tra di loro. Li osservai, intontita, per alcuni minuti, prima di riuscire a muovermi. Che cosa ci facevo chiusa in una gabbia, nuda, in quel salotto? Provai a fare delle ipotesi, nessuna delle quali molto rassicurante. Per prima cosa, ero stata rapita. Ero nuda in una gabbia. I mobili neri... l’atmosfera da film horror... forse mi avrebbero uccisa per sacrificarmi al diavolo. Oppure quelli erano dei pervertiti di altro tipo e sarei stata stuprata e ammazzata senza bisogno di tirare in mezzo Satana. Oppure erano dei pazzi che chissà che cosa avevano in mente. Lente torture, magari. Stavo per chiamare quei due e chiedere di conoscere almeno il mio destino, quando la grande porta a un lato della sala si aprì e fece il suo ingresso un secondo uomo. In un certo senso, era simile agli altri. Pelle perfetta e candida, occhi brillanti, eleganza impeccabile. Indossava un completo blu scuro, una camicia candida, delle scarpe stringate nere (dalla mia posizione le vedevo benissimo). Era alto, snello, con i capelli molto scuri dal taglio classico. Un viso dall’ossatura perfetta, privo di rughe anche se non sembrava giovanissimo. Meno di quarant’anni, in ogni caso. «Ehi» chiamai, debolmente. Forse non l’ho ancora detto, ma ero letteralmente paralizzata dal terrore. L’ultimo arrivato si voltò verso di me. «Perché parla?» disse, a nessuno in particolare. «Vlan deve ancora tagliarle le corde vocali» rispose la donna, con espressione impassibile. A quel punto iniziai a tremare. A tremare sul serio, ma non di freddo. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime, che poco dopo gocciolarono sul pavimento metallico della gabbia. Credo che fu l’intuito miracoloso dell’autoconservazione a farmi fare tutto questo in silenzio. Non emisi più un suono, semplicemente. «Usa una palla» disse l’ultimo arrivato, in tono di quieto comando, rivolto al biondo. L’altro annuì. Andò a uno dei mobili e aprì un’anta. Ora, lavorare in un club come il Dreamland qualcosa ti insegna. Quando il biondo si voltò con in mano una ball gag non mi chiesi che cosa fosse. È un bavaglio che usano nelle pratiche sado-maso: è costituito da una palla grande più o meno la metà di una pallina da tennis e da un laccio che si chiude dietro la testa. L’uomo biondo, Vlan, si avvicinò alla mia gabbia con la ball gag in mano e si accosciò davanti al lato dove c’era la mia testa. Prese una chiave dalla tasca e sbloccò la serratura, aprendo quel lato della gabbia. «Shh» disse, come se cercasse di calmare un animale, «vieni qua. Non ti agitare. Vieni». Non mi mossi di un millimetro, ma non cambiò nulla. Mentre parlava, infatti, lui mi aveva presa per un braccio e mi aveva tirata fuori con una forza di cui non l’avrei mai considerato capace. Caddi sul tappeto, rendendomi conto che la gabbia era a una ventina di centimetri da terra. Immediatamente dopo mi trovai in piedi, non so come. L’impressione fu di essere sollevata da delle braccia umane, ma non vidi nulla. Gli altri due, in piedi l’uno rivolto verso l’altra, mi guardavano inespressivi. «Apri la bocca» mi disse Vlan. Vidi uno scintillio freddo nei suoi occhi che mi terrorizzò ancora di più. Tremando, aprii la bocca. Un istante più tardi mi era stato infilato il bavaglio e l’uomo biondo lo stava stringendo dietro alla mia testa. Avevo la mascella aperta e una pallina bucherellata infilata tra i denti. Non potevo più parlare, al massimo potevo emettere dei suoni inarticolati. Non lo feci. Invece, rimasi in piedi in quella stanza da set cinematografico, sotto allo sguardo freddo di quei due e con il terzo uomo alle spalle. «Puoi andare, Vlan» disse il “capo”. Era evidente che lo fosse. Il biondo fece un piccolo inchino e uscì dalla stanza, chiudendosi le porte dietro. «Dovrai nutrirti, Myra» disse l’uomo con i capelli scuri, a quel punto. La donna fece un piccolo sorriso nervoso. «Dovrei?». L’altro le rivolse uno sguardo inespressivo. «Te lo consiglio». Lei annuì seriamente e si voltò verso di me. Feci mezzo passo indietro. Non so come lo capii prima ancora che succedesse. Forse non puoi vedere un milione di film horror senza aspettartelo almeno un pochino, inconsapevolmente. La donna si avvicinò e mi sfiorò il lato inferiore di un seno con una mano dura e fredda. No, non fredda, quanto non-calda, temperatura ambiente. La sua altra mano si posò sulla mia vita, mentre mi soppesava il seno. Io ero completamente paralizzata dal terrore. I capezzoli mi erano rientrati e mi sentivo rigida come un pezzo di legno. La donna si chinò e le sue labbra rosse e perfette si strinsero sull’areola del mio capezzolo. Me lo succhiò, facendolo tornare a sporgere, poi sentii la sua lingua che, ruvida, mi leccava. Un istante più tardi, sentii qualcosa di completamente diverso: una doppia trafittura su un lato del seno. Sapevo che cosa stava succedendo. Quella donna mi aveva morso con i suoi denti aguzzi. Stava bevendo il mio sangue. Le ginocchia mi cedettero. Quando toccai terra ero già svenuta. +++ Mi ridestai di nuovo dentro alla gabbia e ancora dentro all’incubo. La mia mascella era bloccata dalla ball gag. Il seno sinistro, dove la donna me l’aveva morsicato, mi faceva male. Presentava due piccole crosticine rosse e l’alone di un livido. Mi piegai in posizione fetale, su un fianco, troppo spaventata e debole per pensare lucidamente. Alzai lo sguardo. Per qualche motivo pensavo di essere sola, ma non era così. Solamente, i due... esseri... che erano nella stanza con me erano così silenziosi che sentirli era impossibile, se non parlavano. L’uomo con i capelli scuri era semi-sdraiato sul divano, con le braccia appoggiate sul bordo dello schienale. La donna, Myra, era inginocchiata davanti a lui. Non aveva più il suo elegante vestito nero. Era rimasta con un corpetto di raso e delle calze autoreggenti. La vedevo di spalle. La sua testa si alzava e si abbassava all’altezza dell’inguine dell’altro, che però, per quel che potevo vedere io, era completamente vestito. Anche se la sua espressione era neutra, era chiaro che la donna gli stava praticando una fellatio. «Myra, tieni i canini al loro posto» disse lui, a un certo punto, quasi annoiato. «Scusa, Adrian» rispose lei, prima di riprendere. Lui abbandonò la testa contro la spalliera, chiudendo gli occhi. Sembrava che dormisse. La donna continuò a fare quello che stava facendo per un tempo che mi sembrò interminabile. Evidentemente anche tra i mostri da film dell’orrore non tutto era perfetto. Alla fine lui socchiuse appena la bocca ed emise un respiro più forte. In quel momento vidi chiaramente i suoi canini, lunghi e bianchi. Un istante dopo non c’erano più e la sua bocca era tornata a essere del tutto normale. Se non avessi avuto la ball gag credo che avrei urlato. Mi limitai a fare uno scatto indietro, contro le sbarre della gabbia. Mentre la donna gli riallacciava i pantaloni i suoi occhi si spostarono su di me e mi scrutarono attentamente. Lei si rialzò, e restò in piedi davanti a lui. «La nuova schiava ci guarda» disse Adrian, con un lieve sorriso. La donna si voltò di scatto verso di me, con il viso contratto dall’ira, o forse dalla paura, non riuscii a capirlo. Aveva le zanne completamente esposte e soffiava come un gatto. «Le cavo...» iniziò a dire, facendo un passo verso la mia gabbia. Non riuscì a finire la frase né il movimento. L’uomo la prese per un polso e la tirò bruscamente indietro, sollevandola letteralmente in aria. La cosa successiva che vidi fu lei che veniva sollevata come se pesasse pochi grammi. L’uomo la teneva sotto alle natiche e lei si bilanciò elegantemente nell’aria con le braccia. Una persona normale non ce l’avrebbe mai fatta. «Non ho detto che mi dispiace» puntualizzò lui, avvicinandosela alla faccia. Fu stranissimo. Lei era praticamente seduta sulle sue mani, le cui dita le affondavano nella carne delle natiche. I suoi piedi erano oltre le spalle di lui e le sue mani erano sopra alle proprie ginocchia. Aveva le gambe larghe e lui se l’accostò alla bocca affondando il viso tra le sue cosce. Poco prima lui non aveva emesso un suono, ma adesso Myra iniziò subito a godere rumorosamente. Si inarcò, con i capezzoli eretti che spuntavano dal bustino, mentre lui la... leccava? Non era assolutamente chiaro. Dal rumore che faceva lei, sembrava che la stesse sbattendo come uno straccetto, ma lui era praticamente fermo. Lei ansimava e gridava, con la bocca aperta e i canini completamente esposti. L’uomo, Adrian, allontanò la testa per un istante e tirò fuori a sua volta le zanne. Quello che successe dopo... be’. Diciamo che non avevo mai sentito nessuno godere in quel modo. Se non fossi stata terrorizzata credo che sarei stata imbarazzata per Myra. Fu una via di mezzo tra l’orgasmo di un film porno e una scena di squartamento in un film dell’orrore. Lei ansimò, gemette, gridò, dimenò i fianchi, ululò... il tutto senza mai toccare con le mani nessuna parte del corpo dell’altro, come se le fosse proibito. Quando ebbe finito, lui la scagliò letteralmente via. Il corpo di Myra disegnò una traiettoria nell’aria e pensai che si sarebbe spiaccicata contro una parete. Invece cadde a terra e rotolò elegantemente, rialzandosi in un solo gesto. Adrian si pulì la bocca con il dorso della mano, ma fu troppo veloce perché capissi da che cosa si stava ripulendo. Mentre lei tornava verso di lui vidi che un rivolo di sangue le colava lungo una coscia. Appoggiò un piede sul divano proprio in modo che lui potesse chinarsi comodamente e leccarlo via. «Posso servirti in qualche altro modo?» chiese, poi, lei. «Sì, andandotene» rispose l’altro. La donna si inchinò e lasciò la stanza, senza nemmeno pensare di recuperare i suoi vestiti. Gli occhi dell’altro si puntarono nei miei. +++ Per qualche secondo credo che lo guardai come lo spesso citato daino davanti ai fari della macchina che sta per investirlo. Terrorizzata, ma anche involontariamente affascinata. Poi lui si alzò e venne verso la mia gabbia, e la paura prevalse nettamente. Cercai di chiudermi completamente su me stessa e, nello stesso tempo, di allontanarmi il più possibile da lui. Lui, l’essere che avevano chiamato Adrian, si sedette elegantemente sui propri talloni, guardandomi con i gomiti appoggiati sulle ginocchia. «Sarah» disse. Che poi sarebbe il mio nome. Chiaramente non risposi, dato che avevo una palla bucherellata in bocca. I suoi occhi verdastri mi scrutarono con attenzione. «Sì, hai ragione. A volte Myra è imbarazzante» continuò, con un mezzo sorriso. «Sai, credo che l’abbia sentito anche lei. Nella tua posizione... farei attenzione a quello che penso». Sbattei le palpebre. Oh, fantastico! Quei... quei... quei cazzo di vampiri erano anche telepatici? «Non telepatici, ma i vostri pensieri ci arrivano come una sorta di... come si dice? Come il senso di un canto gregoriano. Non tutti ne sono capaci, ma Vlan e Myra sì, abbastanza. Non possono evitarlo. Per questo Vlan ha la disgraziata abitudine di tagliare le corde vocali ai suoi schiavi». Rabbrividii. Aveva parlato in tono assolutamente tranquillo, come se mi stesse dicendo che molti sterilizzano il proprio gatto. «Non credo che gli esseri umani li mangino, i propri gatti. Né che li scopino» ribatté lui, pensieroso. «Tranne casi particolari, forse». E... okay, era ufficialmente come essere dentro un film horror. Quel tizio parlava di mangiarmi o di scoparmi con la faccia di uno che sta parlando di giardinaggio. «Personalmente, non sono d’accordo con questa pratica. Quella del rendervi muti, intendo. Se avvicini la testa ti toglierò quell’affare». Lo fissai per qualche istante. Non avevo niente da perdere. Gattonai fino a lui e piegai il collo in modo che potesse arrivare alla fibbia della ball gag. La slacciò ed estrasse delicatamente la palla. La mascella mi faceva male, quindi richiusi la bocca lentamente. La cosa più assurda era che nessuno di loro aveva pensato per un istante che mi sarei tolta il bavaglio da sola, visto che avevo le mani libere. «Come supponevo, sei una schiava assennata» commentò lui, posando la ball gag dentro alla gabbia, vicino a me. «Non ti sei tolta la palla da sola e non hai iniziato subito a implorarmi di liberarti. Non lo farei mai. Inoltre, non sei mia. Sono solo un ospite, in questa casa». Veramente, pensai, sembrava il padrone della baracca. Lui sorrise lievemente. «Sono solo più vecchio e più forte di loro. Abbiamo degli... affari in comune. Sarah, ora, se vuoi, puoi parlare». Mi inumidii le labbra. Avevo mezzo milione di domande da fare, la più pressante delle quali sarebbe stata che cosa intendessero farmi, ma per qualche motivo quello che chiesi fu: «Quanti anni hai?». In fondo, sapevo già che cosa intendevano farmi: usarmi come spuntino, come oggetto sessuale e chissà per cos’altro. Non avevo bisogno di sentirmelo confermare immediatamente. O meglio, non ne avevo il coraggio. Invece, volevo capire chi avessi davanti. Di nuovo, lui sorrise lievemente. «E chi lo sa? Suppergiù ottocentocinquanta. È facile perdere il conto». Deglutii, cercando di assorbire quell’informazione. Non pensai nemmeno per un istante che mentisse. I suoi occhi scesero dal mio viso al mio corpo, seri e imperscrutabili. Si fermarono sul mio seno sinistro, dove Myra mi aveva morso. Ero ancora gonfia e dolorante, senza parlare del sangue perso. Quello non doveva essere stato poi molto. Ero svenuta più che altro per la paura. Per la prima volta, lui rise. Era una risata musicale e, nello stesso tempo, profondamente spaventosa. «Se soffri di emofobia sei fottuta. Avvicinati». Lo feci, sempre basandomi sul concetto che, tanto, peggio di così non poteva andare: ero chiusa in una gabbia, tenuta prigioniera da dei mostri che mi avrebbero mangiata. «Sì, ti mangeranno. Non in una sola volta, però. Non so quali siano le abitudini di quei due. Potrebbero lasciarti morire di fame». Mentre parlava, vidi che aveva, come dire, tirato fuori i denti. Forse l’idea che mi lasciassero morire di fame gli faceva quell’effetto. Lui mi lanciò un’occhiata quasi divertita e si morse la punta di un dito. Ne sgorgò una gocciolina di sangue, ma la ferita in quanto tale si chiuse subito. Allungò la mano e mi sfiorò prima uno e poi l’altro segno che mi avevano lasciato i canini di Myra. Le due crosticine si staccarono e caddero. Sotto la pelle era liscia come se non fossi mai stata morsa. Il livido c’era ancora, ma mi faceva meno male di prima. «Grazie» dissi, anche se non avevo poi molto di cui ringraziare. «Prego. Ho ascoltato il flusso dei tuoi pensieri, prima. Sei un animaletto intelligente. Ora andrò a dormire. Il sole è già alto». Si rialzò con un movimento elegante e, senza degnarmi di un’altra occhiata, mi lasciò lì.

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