2. Il vecchio Jolyon “all'Opera”-1

2123 Words
2. Il vecchio Jolyon “all'Opera” Il giorno seguente, più o meno alle cinque, il vecchio Jolyon, seduto a un tavolino sul quale era appoggiata una tazza di tè, fumava in tranquilla solitudine il suo sigaro: si sentiva stanco, e, senza volerlo, si addormentò. Sui suoi capelli si era fermata una mosca: il silenzio pesante di quell'ora era interrotto solo dal respiro pesante del vecchio: il suo labbro superiore, sotto i baffi bianchi, si sollevava a ogni sospiro. La sua mano, attraversata dalla trama delle rughe e dalle vene, aveva lasciato cadere il sigaro che si consumava piano piano. La piccola stanza scura, con i vetri opachi alle finestre che negavano ogni veduta esterna, era adornata di velluti di un verde carico e da un mogano lavorato in modo pesante, del quale il vecchio Jolyon di solito diceva: «forse un giorno ci si potrà ricavare qualcosa, non mi stupirei proprio». Era soddisfatto quando pensava che avrebbe ancora potuto rivendere quella casa che aveva comprato guadagnandoci sopra. In quell'atmosfera ricca e scura, l'atmosfera speciale delle camere interne della casa di ogni Forsyte, l'effetto Rembrandt dalla sua grande testa incorniciata dai capelli bianchi, contro il cuscino e l'alta spalliera della sedia, veniva offuscato dai baffi che davano alla sua fisionomia qualcosa di militaresco. Un'antica pendola, comprata prima del matrimonio e che da quell'epoca non lo aveva mai abbandonato, segnava gelosamente col suo tic-tac i secondi che se ne andavano per sempre dal vecchio proprietario. Non gli era mai andata a genio quella stanza, ci entrava appena una volta l'anno, eccetto le volte che cercava dei sigari nel mobiletto giapponese nell'angolo. Adesso quella stanza si prendeva la rivincita: curve come un tetto al di sopra delle guance scavate, le sue tempie, gli zigomi, il mento, tutti i lineamenti si facevano aguzzi nel sonno, e il suo viso rivelava in questo modo la vecchiaia. A un tratto si risvegliò. June era partita. James l'aveva detto che si sarebbe sentito solo. James era sempre stato un poveretto e niente altro. Ricordò soddisfatto che aveva fatto lo sgambetto a James per la casa. Aveva fatto bene. James avrebbe dovuto semplicemente non insistere sul prezzo che si era messo in testa, non pensava che ai soldi. Ma lui, Jolyon, non aveva forse speso un po' troppo? Aveva bisogno di molte riparazioni quella casa... Avrebbe avuto bisogno di tutti i suoi soldi prima di farla finita con la storia di June. Non avrebbe mai dovuto consentire che si fidanzassero. June aveva incontrato Bosinney dai Baynes, Baynes e Bildeboy, gli architetti. Baynes, quel vecchio un po' sofistico che lui conosceva, doveva essere uno zio acquisito del ragazzo. Da allora lei era sempre corsa dietro al suo Bosinney, e quando June si metteva in testa una cosa non c'era niente che potesse farle cambiare idea. Passava il tempo a infatuarsi di ogni disgraziato che incontrava. Quel ragazzo era uno squattrinato, quindi bisognava sposarlo; un uomo con la testa fra le nuvole, senza un criterio, solo capace di mettersi in una serie di difficoltà senza fine. Un giorno June era andata da lui per dargli all'improvviso la notizia e aveva aggiunto, come se la cosa potesse essere di consolazione: «è stupendo! Spesso ha vissuto di solo cioccolato per una settimana intera». «E desidera che anche tu viva di cioccolato?». «Ma no! Adesso è tutto diverso, non ha problemi, ha fortuna». Il vecchio Jolyon si era tolto il sigaro da sotto i baffi bianchi tinti sull'orlo di caffè e si era messo a guardarla, quella ragazza a cui voleva tanto bene. Lui non ne sapeva più di lei in fatto di “fortuna”. Ma June, prendendo con le mani le ginocchia del nonno, si strofinava contro di lui con il mento, con il rumore leggero di un gatto che fa le fusa. Poi, prorompendo e sbattendo nervosamente la cenere, le aveva detto: «siete tutte uguali, dovete sempre fare di testa vostra. Se vuoi il tuo male, fallo! Me ne lavo le mani». E le mani se le era davvero lavate: aveva solo preteso che il matrimonio non si fosse celebrato prima che Bosinney avesse raggiunto almeno un guadagno di quattrocento sterline all'anno. «Io non darò molto» aveva detto con una frase non nuova per June. «Quel tipo provvederà al cioccolato?». Da quando era cominciata questa storia vedeva poco, pochissimo la nipote. Una brutta storia. Per conto suo, non aveva la minima intenzione di darle una grossa somma in dote per permettere a un ragazzo che non conosceva di vivere in un felice e dolce far niente. Aveva già visto cose simili e sapeva per esperienza che non ne usciva nulla di buono, ma il peggio era che non si poteva sperare di far cambiare idea a June, testarda come un mulo fin da bambina. Come sarebbe andata a finire? Avrebbero ben dovuto tirare avanti con i loro mezzi. Lui non avrebbe mollato prima di aver visto Bosinney guadagnare bene. Che June avrebbe avuto problemi con quella bestia d'uomo era chiaro e limpido, con quell'assenza assoluta di senso del denaro... e anche quella fretta di correre in Galles a conoscere le zie del ragazzo... Era convinto che quelle zie erano delle vecchie streghe. Il vecchio Jolyon guardava fisso il muro senza fare un movimento. Qualcuno l'avrebbe scambiato per un addormentato se i suoi grandi occhi non fossero stati così spalancati... Che idea cretina, per esempio, quella di pensare che quell'orso di Soames potesse dare dei consigli a lui! Era sempre stato un orso, Soames, con quel suo naso rialzato. E adesso stava per atteggiarsi a “possidente”, con una casa di campagna. Possidente. Come suo padre, sempre intento a fiutare i buoni affari, un calcolatore, un freddo, un furbo. Il vecchio Jolyon si alzò e, aprendo il mobiletto giapponese, prese una provvista di sigari, giusto per rifornire con cura il suo astuccio. Non erano male, per quello che costavano, ma ora non c'erano più veri buoni sigari, nulla che potesse reggere il confronto con quelli vecchi sopraffini di Hansen e Bridgen. Quelli sì che erano sigari. Questo pensiero, come un profumo respirato all'improvviso, lo riportava alle splendide notti di Richmond, quando, dopo pranzo, sulla terrazza del “Crown and Sceptre” si trovava a fumare con Nicholas Treffry, Tracquair, Jack Herring, Anthony Thornworthy. Come erano buoni quei sigari! Povero vecchio Nick! Morto, e Jack Herring, morto e Tracquair, morto. E Thornworthy aveva una salute precaria, c'era da aspettarselo, uno che mangiava come lui! Di tutti i suoi amici di allora, a pensarci, era rimasto solo lui, con Swithin, certo, ma Swithin era diventato così mostruosamente enorme che non poteva essere preso in considerazione. Difficile credere che tutto ciò fosse così lontano. Lui si sentiva ancora giovane. Di tutto il pensare contando i sigari, questa considerazione era la più dolorosa e la più amara. Aveva i capelli bianchi ed era solo ma gli era rimasta una giovinezza acerba nel cuore. E i pomeriggi di domenica a Hampstead Heath, quando per sgranchirsi le gambe camminava marciando con il piccolo Jolyon da Spaniard Road fino a Highgate e a Childs Hill, mentre tornavano fra i campi, e poi si mangiava a Jack Straw's Castle: com'erano buoni i suoi sigari allora. E che tempi... tempi così non sarebbero tornati mai più. Quando June era un batuffolo di cinque anni che sgambettava e incespicava, e ogni due domeniche lui la portava allo zoo senza quelle due brave persone della mamma e della nonna, e dalla sponda della fossa degli orsi allungava ai favoriti di June le focacce sulla punta dell'ombrello, come erano buoni allora i sigari! I sigari! Aveva resistito al tempo anche la sua raffinatezza di conoscitore, quella finezza di gusto proverbiale nel 1850, allorché si diceva: «Forsyte, è il primo buongustaio di Londra!». Questo pregio, in un certo senso, aveva fatto la sua fortuna, la fortuna dei celebri importatori di tè Forsyte e Treffry, i cui prodotti superavano tutte le altre marche per quello speciale aroma romantico, una specie di profumo delicato e misterioso. Nei loro uffici della City qualcosa respirava il segreto e lo spirito imprenditoriale, e si impegnava in traffici speciali grazie a speciali battelli con dei cinesi speciali. Come aveva lavorato bene in quell'affare! Gli uomini lavoravano davvero, allora: non erano come i giovani di adesso, all'oscuro del vero significato di questo verbo. Era entrato nei minimi particolari, si era tenuto al corrente di tutto, passando spesso al lavoro notti intere; e aveva sempre scelto da sé i rappresentanti. Di questo, specialmente, si vantava; il suo colpo d'occhio, diceva, era stato il segreto del successo, e l'esercitare con decisione il potere di scelta era stata la sola cosa piacevole di quella sua fatica che davvero rimaneva sotto le sue capacità. Anche ora, che l'impresa era ceduta a una società, si intristiva, e provava una amara tristezza ricordando il passato. Certo, avrebbe potuto fare meglio. D'altra parte sarebbe riuscito benissimo anche come avvocato. E aveva quasi pensato di presentarsi candidato al Parlamento. Quante volte Nicholas Treffry gli aveva detto: «potresti fare qualsiasi cosa, se non fosse per la tua sciagurata prudenza». Il buon, vecchio Nick: gran bravo ragazzo, ma rompicollo. Il famoso Treffry. Ecco uno che non era mai stato prudente. Ora era morto. Il vecchio Jolyon contava con mano ferma i sigari e gli venne normale chiedersi se non avesse per caso gestito con troppa prudenza la propria vita. Mise il portasigari nella tasca interna della giacca, si riabbottonò e salì le lunghe scale che portavano alla sua stanza, appoggiandosi pesantemente ad ogni passo e tenendosi forte alla ringhiera. La casa era enorme. Dopo il matrimonio di June, se si fosse veramente sposata, come bisognava supporre, avrebbe affittato il suo palazzo e avrebbe preso per sé un appartamento. Perché tenere una mezza dozzina di domestici che costano un occhio della testa lì a fare niente? Il maggiordomo arrivò richiamato dal campanello: era un uomo con il mento largo, con la barba e il passo felpato, e aveva la speciale facoltà di tacere. Il vecchio Jolyon gli ordinò di preparargli l'abito da sera: sarebbe andato a mangiare al club. «A che ora è rientrata la vettura dopo avere accompagnato la signorina June alla stazione? Alle due? Bene, fatemela trovare pronta per le sei e mezzo». Il club, nel quale il vecchio Jolyon entrò alle sette in punto, era una di quelle istituzioni politiche dell'alta borghesia, che hanno conosciuto una fortuna migliore. Nonostante i maligni commenti del pubblico, e forse proprio grazie a loro, il club rivelava una vitalità incredibile. La gente si era presa la briga di ripetere che quel circolo dell'Unione, che veniva appunto chiamato “la Disunione”, era in fin di vita. Anche il vecchio Jolyon lo diceva, ma lo dimenticava subito dopo, in modo veramente irritante per un clubman che si rispetti. «Perché continui ad andarci?» gli chiedeva spesso Swithin, seccatissimo. «Perché non vieni al Poliglotta? Non c'è in tutta Londra un vino come il nostro Heidsieck, a meno di venti scellini la bottiglia». E aggiungeva, a voce bassa: «Non ne rimangono che cinquemila dozzine, lo bevo tutte le sere...». «Ci penserò» rispondeva il vecchio Jolyon. E quando ci pensava c'era sempre la questione delle cinquanta ghinee d'iscrizione e dei quattro o cinque anni di probabile purgatorio e di attesa prima di entrare. Così continuava a pensarci su. Era troppo anziano per essere liberale, aveva abbandonato le idee del suo club, le aveva anche pesantemente apostrofate, ma gli andava di restare membro di un club i cui principi erano diametralmente opposti ai suoi. Aveva comunque sempre provato un certo disdegno per quell'istituzione nella quale era entrato molti anni prima, dopo non essere stato accettato al Potpourri perché era “un commerciante”. Come se questo diminuisse il suo valore di persona. Ovviamente sentì una specie di disprezzo per il club che l'aveva accolto. I suoi frequentatori non erano granché: la maggior parte erano impiegati nella City, agenti di cambio, procuratori, periti... Come tanti fra gli uomini di volontà ma mediocremente originali, il vecchio Jolyon considerava ben poco la classe alla quale apparteneva. Anche se seguiva fedelmente le sue abitudini, non solo quelle sociali, in fondo la giudicava banale. Il passare del tempo, e anche una certa filosofia di vita della quale non era sprovvisto, avevano calmato il bruciore di quella sconfitta al Potpourri, che per lui rimaneva consacrato come il re di tutti i club. Avrebbe potuto far parte da molto tempo del Potpourri ma il suo padrino, Jack Herring, lo aveva presentato con tanta leggerezza che quelli non lo avevano accettato senza sapere nemmeno quello che facevano. Suo figlio Jo era passato subito, alla prima richiesta, ed era ancora socio di sicuro. Aveva ricevuto una sua lettera dal Potpourri più o meno otto anni prima.
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