Lo sguardo d’un uomo abituato a trarre dai suoi capitali un interesse straordinario, contrae fatalmente, come quello del voluttuoso, del giocatore, o del cortigiano, certe abitudini indefinibili, certi moti furtivi, avidi, che non possono sfuggire a quelli che provano le identiche inclinazioni; e questo segreto linguaggio forma in certo qual modo la framassoneria delle passioni.
Il signor Grandet ispirava dunque la stima rispettosa alla quale aveva diritto un uomo che non doveva mai nulla a nessuno, e che, vecchio bottaio e vecchio vignarolo, indovinava con la precisione di un astronomo quando per il suo raccolto occorreva fabbricare mille fusti o soltanto cinquecento: ammirato come chi non fallisce alcuna speculazione e ha sempre botti da vendere allorché queste valgono più del mosto, e può conservare in cantina la sua vendemmia e attendere il momento di vendere i suoi fusti di vino a duecento franchi quando i piccoli proprietari sono costretti a vendere i loro a cinque luigi. Il suo famoso raccolto del 1811, saggiamente conservato e lautamente venduto, gli aveva fruttato più di duecentoquarantamila lire.
Finanziariamente parlando, il signor Grandet aveva della tigre e del serpente boa: egli sapeva acquattarsi, rannicchiarsi, spiare a lungo la sua preda, saltarle addosso: poi apriva la gola della sua borsa, v’inghiottiva un mucchio di scudi e si addormentava tranquillo come il serpente che digerisce, impassibile, freddo, metodico. Chi lo vedeva passare per la strada non poteva fare a meno di provare un senso di ammirazione misto a rispetto e anche a paura.
Molti in Saumur non avevan forse provato lo strazio de' suoi artigli? A questo mastro Cruchot aveva procurato il denaro necessario per la compera di una tenuta, ma all’undici per cento: a quell’altro, il signor des Grassins, aveva scontato tratte, ma ad interessi enormi. Pochi erano i giorni nei quali il nome di Grandet non fosse pronunziato nei mercati, o la sera nelle conversazioni cittadine. Per alcuni, in verità, la fortuna del vecchio vignarolo era l’oggetto di un orgoglio patriottico. così più di un negoziante e più di un proprietario d’albergo diceva al forestiero, con una certa aria di soddisfazione:
– Signore, noi qui abbiamo due o tre milionari: ma riguardo al signor Grandet, egli stesso non sa a quanto ammonti la sua fortuna!
Nel 1816 i più abili calcolatori di Saumur stimavano le terre del nostro buon uomo circa quattro milioni: ma, dato un calcolo medio, egli aveva dovuto ricavare dalle sue proprietà, dall’anno 1793 al 1817, circa centomila franchi di interessi: e così era presumibile ch’egli possedesse in denaro liquido una somma eguale al valore dei fondi. E quando, dopo una partita a boston o un discorso sulle vigne, si veniva a parlare di Grandet, quelli che se ne intendevano esclamavano:
– Papà Grandet?... Papà Grandet deve avere dai cinque ai sei milioni.
– Lei è più abile di me: io non ho mai saputo il totale di Grandet – rispondevano il signor Cruchot o il signor des Grassins alle insinuazioni.
Quando qualcuno di Parigi parlava dei Rothschild o del famoso signor Laffitte, quei di Saumur domandavano se erano ricchi come il signor Grandet. Se il parigino rispondeva con uno sguardo di sorridente degnazione, quei di Saumur lo guardavano scuotendo la testa con un’aria di incredulità. Tanta fortuna copriva di un manto d’oro tutte le azioni di questo uomo, e se dapprima qualche particolare della sua vita si offriva al ridicolo e alla beffa, ora erano del tutto scomparsi: nei suoi minimi atti, il signor Grandet aveva ormai l’autorità della cosa giudicata.
La sua parola, il suo vestire, i suoi gesti, il suo ammiccare eran legge per il paese, ove ciascuno, dopo averlo studiato, come un naturalista studia gli effetti dell’istinto degli animali, avrebbe potuto riconoscere la profonda e silenziosa saggezza dei suoi più piccoli atteggiamenti.
– L’inverno sarà rude – si diceva. – Papà Grandet ha messo i guanti foderati: bisogna vendemmiare.
Altri dicevano: – Papà Grandet prepara legname: dunque ci sarà buon vino quest’anno.
Il signor Grandet mai comprava carne o pane, perché i suoi fittavoli gli portavano ogni settimana una sufficiente provvista di capponi, polli, uova, burro e grano della sua rendita: inoltre aveva un mulino, il cui conduttore, per contratto, era obbligato di rilevar da lui una certa quantità di frumento e riportargli crusca e farina.
La grossa Nannina, sua unica serva, quantunque non più giovane, faceva ella stessa tutti i sabati il pane per la famiglia. Grandet si era poi accordato coi suoi ortolani locatari perché gli fornissero legumi: quanto alle frutta ne raccoglieva tanta che gran parte la vendeva al mercato. La legna da ardere era tagliata dalle sue siepi o consisteva in vecchi fastelli mezzo marci che disponeva ai limiti dei suoi campi, e i fittavoli gliela portavano in città, gliela disponevano a modo nella legnaia e ricevevano i suoi ringraziamenti. Le sue sole spese conosciute erano quelle per il pane benedetto, per i vestiti della moglie e della figlia, per l’affitto delle sedie in chiesa, per la luce, per il salario della grossa Nannina, per la saldatura delle sue casseruole: di più il p*******o delle imposte, restauri dei fabbricati e manutenzioni dei terreni. Aveva poi seicento iugeri di bosco acquistato recentemente che faceva sorvegliare dal guardiano di un vicino: a quel poveraccio di guardiano aveva promesso una indennità: soltanto dopo questa compera cominciò ad apparire nella sua tavola la cacciagione. I modi di questo uomo erano semplicissimi: parlava poco e generalmente esprimeva le sue idee con frasi brevi e sentenziose, a voce bassa e dolce. Dopo la Rivoluzione, epoca nella quale egli attirò la comune attenzione, il nostro caro uomo balbettava non appena doveva discorrere a lungo o sostenere una discussione. Questo tartagliare, l’incoerenza delle sue parole, il flusso delle parole dove annegava il suo pensiero, la sua apparente mancanza di logica attribuita a un difetto di educazione erano affettate, volute: e saranno a sufficienza spiegate da qualche avvenimento di questa storia.
D’altra parte, quattro frasi esatte come formule algebriche gli servivano abitualmente ad abbracciare e a risolvere tutte le difficoltà della vita e del commercio.
«Non so, non posso, non vorrei, vedremo.» Mai diceva né di sì né di no, e mai scriveva. Gli si parlava? Ascoltava freddamente, stringendosi il mento con la destra, appoggiando il gomito sul dorso della mano sinistra e in ogni affare si formava una opinione dalla quale non recedeva a tutti i costi.
Meditava a lungo anche i minimi affari, e quando dopo un’abile conversazione l’avversario gli aveva aperto il segreto delle sue pretese credendo d’averlo conquistato, gli rispondeva:
– Non posso concludere nulla senza prima aver consultato mia moglie. –
La moglie, che egli aveva ridotto ad un ilotismo completo, a una vera schiavitù, era negli affari la sua difesa più comoda. Grandet non andava a visitar nessuno, né voleva ricevere, né invitare a pranzo: non faceva rumore e sembrava economizzare tutto, anche i movimenti. Non sottraeva una mollica agli altri per un costante rispetto della proprietà. Ciò non ostante, malgrado la dolcezza della voce, malgrado il modo circospetto, il linguaggio e le abitudini del bottaio trasparivano, specialmente quando era in casa, dove aveva minor ritegno di finzioni.
Come aspetto, Grandet era un uomo grosso e basso, alto cinque piedi, con dei polpacci di dodici pollici, rotule nodose e spalle larghe: il suo viso era tondo, rossastro e lentigginoso, dal mento diritto, la bocca serrata e i denti bianchi: i suoi occhi avevano l’espressione calma e divoratrice che il popolo attribuisce al basilisco: la sua fronte solcata di rughe trasversali non mancava di protuberanze significative: i suoi capelli giallastri e grigiastri avevano del bianco e dell’oro: il suo naso aveva una gobba venata che, non senza ragione, il volgo diceva piena di malizia. Tale figura esprimeva una finezza pericolosa, una probità senza convinzione, e l’egoismo di un uomo abituato a concentrare i suoi pensieri nella gioia dell’avarizia, e convinto che il solo essere che valesse qualche cosa fosse sua figlia Eugenia, unica ereditiera. D’altra parte gli atti e i modi, tutto in lui denotava quella fiducia in sé di chi ha l’abitudine d’essere riuscito in tutte le sue imprese. E così, quantunque in apparenza di costumi facili e pieni di blandizia, il signor Grandet aveva un carattere di bronzo. Chi lo vedeva oggi lo avrebbe visto con la stessa foggia di vestire del 1791: si stringeva con cinghie di cuoio le grosse scarpe e portava in ogni stagione calze di lana, calzoni corti di panno grosso marrone con bottoni d’argento, un panciotto di velluto a righe gialle e scure con doppia fila di bottoni, un largo soprabito marrone, una cravatta nera e un cappello da quacchero. I guanti, solidi e ruvidi come quelli dei gendarmi, gli duravano venti mesi, e per conservarli puliti, li adagiava sempre sul medesimo bordo del cappello, con un gesto metodico: Saumur altro non sapeva di questo personaggio.
Soltanto sei abitanti avevano il diritto di entrare nella sua casa. Il più considerevole dei primi tre era il nipote del signor Cruchot: dopo la sua nomina di prima istanza a presidente di Tribunale a Saumur, questo giovane aveva aggiunto al nome di Cruchot quello di Bonfons, e si sforzava di far prevalere Bonfons su Cruchot. Egli già firmava C. de Bonfons; e chi aveva qualche lite ed era così ingenuo da chiamarlo signor Cruchot s’accorgeva subito della propria dabbenaggine, perché il magistrato proteggeva sì, chi lo chiamava signor presidente, ma addirittura favoriva con il più grazioso dei suoi sorrisi gli adulatori che gli dicevano signor de Bonfons. Il signor presidente aveva trent’anni, possedeva la tenuta di Bonfons (Boni Fontis) che aveva un valore di settemila lire di rendita: egli aspettava la successione di suo zio notaio e quella di un altro suo zio, l’abate Cruchot, dignitario del capitolo di San Martino di Tours: ambedue passavano per molto ricchi.
Questi tre Cruchot, sorretti da un gran numero di cugini e dall’alleanza di venti casati della città, formavano un partito, come già i Medici a Firenze, e, come i Medici, i Cruchot avevano i loro Pazzi.
La signora des Grassins, madre di un giovanotto di ventitre anni, veniva assai assiduamente a fare la partita con la signora Grandet, sperando di maritare il suo caro Adolfo con la signorina Eugenia. Il signor des Grassins, poi, banchiere, favoriva vigorosamente le manovre di sua moglie per i segreti servizi resi al vecchio avaro, e arrivava sempre in tempo sul campo di battaglia. I tre des Grassins avevano a loro volta i loro aderenti, i loro cugini, e i loro fedeli alleati. Da parte dei Cruchot, l’abate, una specie di Talleyrand della famiglia, appoggiato forte dal fratello notaio, disputava vivamente il terreno alla signora des Grassins, e tentava di riserbare la ricca eredità a suo nipote il presidente: e questa lotta segreta fra i Cruchot e i des Grassins, la cui posta era la mano di Eugenia Grandet, interessava e appassionava le diverse società di Saumur. Si domandavano: la signorina Grandet sposerà il signor Presidente o il signor Adolfo des Grassins? A tanto problema gli uni rispondevano che Grandet non avrebbe concesso la figlia né all’uno né all’altro, e si aggiungeva che il vecchio bottaio, roso dall’ambizione, cercava per genero qualche pari di Francia, al quale trecentomila lire di rendita avrebbero fatto accettare tutte le botti presenti, passate e future della famiglia.
Altri replicavano che i des Grassins erano nobili ricchissimi, che Adolfo era un gentil cavaliere, e che, a meno di aver un nipote di papa nella manica, nulla di più avrebbe potuto desiderare un uomo venuto su dal nulla e che tutta Saumur aveva visto con la pialla e sopratutto con il berretto rosso. I più sensati facevano osservare che il signor Cruchot de Bonfons aveva l’ingresso a tutte le ore in casa Grandet, mentre il rivale non era ricevuto che la domenica. Questi sostenevano che la signora des Grassins, più legata con le donne di casa Grandet che le Cruchot, poteva loro inculcare certe idee che presto o tardi l’avrebbero fatta vincere. Quelli ribattevano che l’abate Cruchot era l’uomo più insinuante del mondo e che fra donna e prete la partita è sempre uguale.