In alcune città di provincia si trovano case la cui vista ispira una malinconia simile a quella dei chiostri più tetri, delle lande più desolate, delle rovine più tristi: in queste case forse si trovano riuniti e il silenzio del chiostro, e l’aridità delle lande, e le rovine. Vita e movimento vi sono così tranquilli che un forestiero le riterrebbe inabitate, se d’un tratto non incontrasse lo sguardo smorto e freddo di una persona immobile, la cui figura, mezzo monastica, sporge dal parapetto della finestra al rumore di un passo insolito. Tale malinconia esiste anche in una casa di Saumur, in cima alla via montagnosa che mena al castello per la parte alta della città. Questa curiosa strada, ora poco frequentata, calda in estate e fredda in inverno, oscura in alcuni punti, si fa notare per il selciato sonoro, sempre a posto e arido, per la sua angustia e la sua tortuosità, per la dolce pace delle case che appartengono alla città vecchia che domina i bastioni. Vi sorgono ancora solide abitazioni di tre secoli, quantunque in legno, e i loro diversi aspetti concorrono all’originalità di questa parte di Saumur che attira l’attenzione degli antiquari e degli artisti. È difficile passare davanti a queste case senza ammirare i loro panconi enormi i cui spigoli sono intagliati e che coronano con un bassorilievo nero il pianterreno della maggior parte di esse. Qui, tavole trasversali son coperte di ardesia e disegnano linee bluastre sulle mura deboli di una casa coperta da un tetto e colombaio, che gli anni hanno fatto inclinare nelle sue assi mezzo fradice per la pioggia e il sole. Là, appaiono imposte di finestre vecchie e annerite, di cui a malapena si scorgono le delicate sculture e che sembrano troppo fragili per il vaso d’argilla oscura, d’onde si slanciano i garofani o le rose di una povera operaia. più avanti vi sono porte guarnite di chiodi enormi dove il genio dei nostri antenati ha tracciato geroglifici domestici e familiari e dei quali mai sarà scoperto il senso. Talora un protestante vi ha marcato la sua fede, talora un autore della lega vi ha bollato la maledizione per Enrico IV. Qualche borghese vi ha segnato lo stemma della sua nobiltà di campane e la dimenticata gloria della sua carica di scabino. La Storia di Francia è là tutta intiera. Di fianco alla casa tremante nelle sue mura grezze ove l’artigiano ha santificata la sua pialla, s’innalza il palazzo di un gentiluomo, e sulla sua porta spiccano ancora in pietra le sue armi, oltraggiate e infrante dalle diverse rivoluzioni che dal 1789 hanno sconvolto il paese. In questa via i pianterreni dei commercianti non sono né botteghe né magazzini; ma gli amici del medio evo vi troverebbero la bottega dei nostri padri in tutta la sua schiettezza e la sua semplicità. Quei locali bassi, che non hanno né facciata, né mostre, né vetri, sono profondi, oscuri e senza ornamenti esterni o interni. La porta si apre con due battenti, ferrati grossolanamente, dei quali la parte superiore si ripiega all’interno, e l’inferiore, munita di un campanello a molla, si schiude in modo normale. Aria e luce penetrano in questa specie di antro umido, o dal vano della porta, o per lo spazio che si riscontra fra la volta, il solaio e il breve muro ad altezza di finestra, nel quale s’incastrano solide imposte, tolte di mattino, rimesse a posto e inchiavardate la sera. Questo muro serve ad esporre le mercanzie del negoziante: e non vi è ciarlataneria. Secondo la specie del commercio la mostra consiste in due o tre mastelli colmi di sale e di merluzzo, in qualche involto di tela grossa da vele, in cordami, in ottonami appesi ai travicelli del solaio, in cerchi lungo le pareti, o in qualche pezza di stoffa su scaffali. Entrate. Una bella figliola, fulgida di giovinezza, dal bianco fazzoletto, dalle braccia rosee, lascia il suo lavoro a maglia, chiama il padre o la madre che vengono e vi vendono ciò che desiderate con flemma, con gentilezza o con arroganza, secondo il carattere, sia per due soldi, sia per ventimila franchi delle loro mercanzie. Vedrete un mercante di legname seduto davanti alla porta che gira i pollici chiacchierando con un vicino: in apparenza egli non possiede che cattive tavole per infimo uso o due o tre mucchi di panconcelli: ma in realtà nel posto il suo magazzino pieno zeppo fornisce tutti i bottai dell’Angiò, e sa a un dipresso quante botti saranno vendute se il raccolto sarà buono. Un raggio di sole l’arricchisce, una pioggia lo rovina: in una sola mattinata certi fusti di vino valgono undici franchi o cadono a sei lire. In quel paese, come nella Turenna, le variazioni dell’atmosfera dominano la vita commerciale. Vignaroli, proprietari, mercanti di legname, bottai, albergatori, marinai, sono tutti a spiare il sole: tremano nel coricarsi la sera di dover sapere l’indomani mattina che durante la notte ha gelato: temono la pioggia, il vento, la siccità, e vogliono nello stesso tempo a secondo della loro pretesa, acqua, caldo e nubi. V’è una lotta continua fra il cielo e gli interessi della terra: così il barometro rattrista, schernisce e allieta volta a volta i visi di questi abitanti. Da un capo all’altro di questa strada, che una volta era il Corso di Saumur, le parole magiche: «Ecco un tempo d’oro!» volan di porta in porta: e gioioso ciascuno risponde al vicino: «Piovon luigi!», ben sapendo che un raggio di sole e un’opportuna piovuta portano la ricchezza. Il sabato, verso mezzogiorno, nella bella stagione, non trovereste da comprare un soldo di merce presso questi bravi industriali. Ciascuno ha la sua vigna, il suo poderetto a orto o frutteto e va a passare due giorni in campagna: e là, perché da calcolatori hanno tutto previsto, la compera, la vendita, il guadagno, i commercianti possono disporre di dieci ore su dodici che trascorrono in allegre partite, in osservazioni piene di commenti e in numerosi spionaggi. Una massaia non può comperare una pernice senza che i vicini non domandino al marito se sia stata cucinata bene. Una giovinetta non s’affaccia alla finestra senza essere vista dai crocchi di disoccupati. Là, dunque, le coscienze sono liberissime e quelle case che sembrano impenetrabili, così nere e silenziose, non nascondono invece alcun mistero. La vita si svolge quasi sempre all’aperto: le famiglie si riuniscono davanti alla porta, vi fanno colazione, vi pranzano, vi discutono. Non può passare persona per la strada che non sia osservata e studiata. Del resto, fin da prima, allorché un forestiero arrivava in una città di provincia era beffato di porta in porta, onde tante gioconde storielle, e il soprannome di copieux, abbondanti di burle, dato agli abitanti di Angers che erano i primi in questo motteggiare saporito e non offensivo. Gli antichi alberghi della vecchia città sono in cima a questa strada già abitata dai signori del paese.
La melanconica casa dove si sono svolti gli avvenimenti di questo racconto era appunto uno di tali abitati, resti venerabili di un secolo nel quale le cose e gli uomini avevano quel carattere di semplicità che i costumi francesi vanno perdendo di giorno in giorno. Dopo aver seguito le traccie di questa pittoresca contrada ove i minimi particolari suscitano ricordi e sogni involontari, scoprirete un meandro oscuro: là è nascosta la porta della casa del signor Grandet. Ma è impossibile comprendere il valore di quest’espressione provinciale se non si conosce un po’ della vita del signor Grandet. Egli a Saumur godeva di una reputazione che chi non ha vissuto in provincia non potrebbe comprendere né poco né molto. Il signor Grandet, chiamato da alcuni vecchi, il cui numero diminuiva sensibilmente, papà Grandet, era nel 1789 un mastro bottaio che oltre al fatto suo sapeva leggere, scrivere e far di conto. Quando la nuova Repubblica Francese mise in vendita nel circondario di Saumur i beni del clero, il bottaio, allora quarantenne, aveva da poco sposato la figlia di un ricco mercante di legnami. Egli con il suo e con la dote mise insieme duemila luigi d’oro: munito di questi andò al distretto dove con duecento doppi luigi del suocero offerti al feroce repubblicano che sorvegliava la vendita dei domini nazionali ebbe per un pezzo di pane, legalmente, se non legittimamente, le più belle vigne del territorio, una vecchia abbazia e qualche cascina. Gli abitanti di Saumur erano poco rivoluzionari e papà Grandet passò per uomo ardimentoso, un patriota repubblicano che diffondeva nuove idee: mentre invece il bottaio si occupava pacificamente delle sue vigne.
Fu allora nominato membro del distretto di Saumur e la sua pacifica influenza si fece risentire tanto dal lato politico che da quello commerciale. Politicamente protesse i conservatori e impedì con tutte le sue possibilità la vendita dei beni degli emigrati: commercialmente, fornì alle armate repubblicane una o due migliaia di botti di vin bianco facendosi pagare con superbe praterie di proprietà di un monastero, riservate per ultimo lotto.
Sotto il consolato, quel furbacchione d’un buon Grandet divenne sindaco, amministrò con saggezza e vendemmiò anche meglio: sotto l’Impero egli fu il sig. Grandet.
Ma Napoleone non aveva cari i repubblicani e rimpiazzò il sig. Grandet, che passava per uno di quelli che avevano portato il berretto rosso, con un grande proprietario, un uomo di pretese nobiliari, un futuro barone dell’Impero. Il Sig. Grandet lasciò gli onori municipali senza dispiacere. Egli aveva fatto costruire, nell’interesse della città, strade eccellenti che, vedi caso, conducevano alle sue proprietà: e la sua casa e i suoi beni, descritti nel catasto con molto vantaggio, pagavano imposte moderate. Dopo la classificazione dei suoi diversi poderi, le sue vigne, grazie alle sue costanti cure, erano divenute la testa del paese, termine tecnico in uso per indicare i vigneti che producevano il vino migliore.
Egli avrebbe potuto chiedere la croce della Legion d’onore: e l’ottenne nel 1806. Aveva allora 57 anni e sua moglie circa 36: una figlia unica, frutto dei loro legittimi amori, aveva l’età di sedici anni. Il sig. Grandet, che la Provvidenza volle senza dubbio consolare della sua disgrazia amministrativa, ereditò successivamente durante quest’anno dalla signora La Gaudinière, nata La Bertellière, madre della signora Grandet: poi dal vecchio sig. La Bertellière, padre della defunta, e infine da madama Gentillet, sua ava materna: tre successioni la cui importanza rimase nascosta a tutti.
L’avarizia di quei tre vecchi era così sordida, così appassionata, che da lungo tempo essi nascondevano il loro denaro per poterlo contemplare in segreto. Il vecchio signor La Bertellière chiamava prodigalità l’impiego del denaro, e provava più acre soddisfazione nel contemplare l’oro che nei benefizi dell’usura: di modo che gli abitanti di Saumur supposero che quei denari fossero le economie delle rendite dei terreni.
Il signor Grandet ottenne allora il nuovo titolo di nobiltà che la nostra mania di eguaglianza non cancellerà mai, e divenne il maggior contribuente del circondario. Egli possedeva cento iugeri di vigne che nelle annate abbondanti gli rendevano dai sette agli ottocento fusti di vino: aveva inoltre tredici masserie, una vecchia abbazia, dove, per economia, aveva murato le finestre, le ogive, le vetrate, il che le conservò lungo tempo: e infine era padrone di centoventisette iugeri di praterie dove crescevano e s’ingrossavano tremila pioppi piantati nel 1793. La casa ove abitava era di sua proprietà. Questa a un dipresso era la sua fortuna visibile. Riguardo ai suoi capitali due sole persone potevano vagamente presumerne la portata: l’uno era il signor Cruchot, notaio incaricato dei depositi a usura e dei mutui di Grandet: l’altro il signor des Grassins, il più ricco banchiere di Saumur, ai benefici del quale con convenienza e segretamente il vignarolo partecipava.
Quantunque il vecchio Cruchot e il signor des Grassins possedessero quella profonda discrezione, che genera nella provincia la confidenza e la fortuna, essi testimoniavano in pubblico al signor Grandet un così profondo rispetto, che gli osservatori potevano misurare l’importanza delle ricchezze dell’antico sindaco dalla portata dell’ossequiosa considerazione di cui era oggetto.
Non vi era alcuno in Saumur che non fosse persuaso che il signor Grandet avesse un tesoro particolare, un nascondiglio zeppo di luigi, e si procurasse di notte le ineffabili gioie che procura la vista di un gran mucchio di oro. Gli avari ne erano quasi certi, scoprendo nei suoi occhi forse misteriosi riflessi che il fulvo metallo vi aveva comunicato.