2.-1

2015 Words
2. Come descrivere quei venti minuti o poco più? Probabilmente fu l’esperienza più strana della mia vita. Quando ero piccola e mia madre tornava a casa nei freddi inverni dell’Indiana, mia nonna le stringeva le mani per scaldargliele e commentava sempre, in italiano: “Mani fredde, cuore caldo”. E mia madre il cuore caldo lo aveva davvero, dato che lavorava come una pazza, come anche mio padre, per pagare gli studi a me e a mia sorella. Ecco, avrei scoperto di lì a poco che Fairchild era esattamente il contrario. Salii sul divano con le ginocchia, dandogli le spalle. Ancora mi aspettavo di sentire all’improvviso qualcuno che gridava “puttana!” e mi faceva una foto, come alle superiori, ma nel contempo avevo anche... con una tranquillità assurda... accettato che forse sarei stata scopata e basta. E Fairchild non mi piaceva, l’ho già detto e ripetuto, ma non era neppure repellente. Sarah lo considerava addirittura “figo”. Non lo era. Non era vomitevole, tutto qua. Salii con le ginocchia sul divano e lui si tolse la giacca. Lo guardai un po’ perplessa. Lui non guardò me, non negli occhi, ma fece di nuovo una specie di carrellata sul mio corpo. Ragazzi, se non è una situazione assurda questa... Si allentò la cravatta, se la sfilò e la posò sulla giacca. Si slacciò i primi due bottoni della camicia. Mentre lo faceva, disse: «Tirati su la gonna, dai». Deglutii. Adesso mi sveglio. Per forza. È troppo, troppo strano... Portavo una gonna grigio scuro, da ufficio, dei collant e delle ballerine nere. Sopra avevo una maglia elasticizzata, niente di speciale. Mi tirai su la gonna. Cioè, iniziai a farlo, ma fu lui a concludere il gesto. Io mi sarei fermata, credo... subito sotto al sedere. Lui me la tirò su del tutto, appallottolandola attorno alla mia vita. Avvampai di vergogna. Stava guardando... il mio culo, no? Be’, il mio culo coperto da collant velati neri e slip neri, ma comunque... Non avevo nemmeno finito di pensarlo che lui li abbassò entrambi. Così, come se niente fosse. Mi tirò slip e collant a metà coscia e io pensai che sarei morta di vergogna. Non solo ero nuda, ma anche... esposta, no? Il mio culone pallido e... boh... la mia patata troppo pelosa, probabilmente. Sentii le sue mani sulle natiche e chiusi gli occhi. Mi aggrappai sul serio allo schienale. Stavo per svenire dalla vergogna, è semplice. Poi... i palmi delle sue mani, caldi. Dio... mi stava palpando? Mi palpava il culo, come niente fosse? Mi... mi... mi separava le chiappe in modo da tendermi il buchetto posteriore? Oddio, sul serio mi stava toccando così? «Il tuo sedere è un sacco bello» commentò, impersonale come al solito. La sua voce... non potete capire. Era una voce bassa, controllata, che esprimeva pochissimo. Non avevo la forza di rispondergli. Non ne avevo il coraggio. Lui continuava a toccarmi il culo e io mi sentivo paralizzata dalla vergogna. Poi le sue dita tra le natiche... Non sta succedendo davvero. Non ti ha appena toccato la passera. Non sta... non sta... non sta provando a metterti dentro un dito... no, vero? Non spinse, era solo una specie di test. «Mh» fu il suo solo commento. Perché, insomma, non era entrato, è ovvio. Era tutto così strano e... più che altro imbarazzante. Imbarazzante a morte. Anche un po’ eccitante, okay. Sentii come... due rumori attutiti. Qualcosa che veniva posato sulla moquette alle mie spalle. Mi volai per controllare la situazione, anche se forse preferivo non guardare. Non vidi più nessuno, ma le mani di Faichild erano ancora sul mio sedere. Che cosa... E poi la sua bocca. Cioè, le sue labbra, la sua lingua, il suo mento ruvido... Lì. Sulla mia passera troppo pelosa. La sua lingua... Dio, la sua lingua che si insinuava tra le mie grandi labbra... mi leccava tutta la fessura... le sue labbra che succhiavano e... «Oddio...» borbottai, sempre più scioccata. Le sue dita sul clitoride, che mi titillavano. E quello fu il colpo di grazia. Non so che cosa successe. Capii che le possibilità erano due: o mi alzavo e scappavo via... o iniziavo a godere come una pazza. Dalla mia gola venne un gemito. La sua lingua... le sue labbra... le sue dita... la mia fica sembrò respirare, dischiudersi, inturgidirsi... e riempirsi di umori. La mia schiena si inarcò, i miei capezzoli si indurirono... ma in un modo... diventarono di marmo e iniziarono a farmi male, letteralmente. Fairchild mi infilò un dito dentro. Scivolò. Io gemetti. Esatto, iniziai a gemere... cercando di tenere basso il volume... ma comunque... gemiti vogliosi ed eccitati... gemiti di puro godimento. Fairchild si rialzò. «Ora va bene?» chiese. Io annuii più volte. Cercai di allargare di più le cosce, ma le calze mi legavano. Non aveva importanza, non vedevo l’ora che... Sentii la zip dei suoi pantaloni. Stoffa che frusciava. La... la punta? Era la punta del suo cazzo, quella che sentivo là in mezzo? Lui spinse e non ebbi più dubbi. Mi sentii allargare e penetrare. Mi sentii violare da questa cosa calda... dura... e davvero, davvero, così incredibilmente... «Cacchio, è gigantesco» dissi, prima di riuscire a trattenermi. Fairchild sbuffò (sì, esatto: sbuffò). Disse: «Grazie». E me lo infilò tutto dentro. Oh, ragazzi... Mi aggrappai allo schienale e singhiozzai. Mi sentivo pienissima... mi premeva sulla cervice... me la tendeva tutta, me l’allargava, me la riempiva in un modo... E le sue mani sui fianchi, sulle natiche. Le sue mani che mi stringevano, mentre lui iniziava a martellarmi dentro. Strizzai gli occhi. Ci stava dando dentro senza risparmiarsi... dalla mia gola uscivano dei gemiti a dir poco animaleschi... il suo cazzo che mi penetrava in modo così perfetto... nessuno mi aveva mai fottuta a quel modo. Non avevo mai goduto tanto. Non avevo bisogno di toccarmi, la mia fica stava esplodendo di piacere. «Ti prego... continua... per favore... fammelo sentire tutto... di più... di più... oh, Dio... ancora... è così... è così... scopami... scopami più forte...» E mentre io ansimavo come una bestia in calore, lui accelerava. Mi tirò uno sculaccione su una chiappa e io gemetti solo più forte. Di piacere, eh. Avrei goduto anche se mi avesse frustata sul serio, a quel punto. Invece mi tirò un altro sculaccione e io iniziai a venire. Le sue mani che mi stringevano i fianchi... il suo cazzo che mi riempiva tutta... mi uccideva di piacere... mi sprofondava dentro come fosse a casa sua... Cambiò ritmo. Io squirtai. E gridai. E tremai. E la sua cappella era un tormento e un godimento insieme... la mia fica pulsava... si contraeva... ancora mi mandava fitte di piacere in tutto il corpo. Mi strinsi forte le tette al di sopra della maglia. Un attimo dopo le mani di Fairchild che me le palpavano da dietro, facendomi inarcare la schiena... il suo cazzo che mi spingeva dentro... il mio culo che strofinava sulla sua pancia dura... le sue mani che mi strizzavano le tette e un suono... un suono strozzato, una specie di grugnito... un ultimo affondo, che mi fece male... «Ou...» dissi io. Lui si sfilò. Avevo la passera gocciolante. Ero praticamente appoggiata a lui, che ancora aveva le mani sulle mie tette. Entrambi avevamo il respiro affannato ed eravamo fradici di sudore. «Oh, Cristo...» ansimai, cercando di asciugarmi la faccia con una mano. Probabilmente avevo il trucco tutto sciolto. «Squirti» disse lui. Affannato, ma comunque senza un tono particolare. «Già». «E sei un sacco stretta. Mi piace». «Ehm» dissi io. Che cavolo dovevo dire? Fu lui ad allontanarsi per primo. Mi voltai a metà. Mi girava la testa. Aveva la faccia un po’ sudata e i capelli bagnati, ma non sembrava stravolto. Io sicuramente sì. Lo vidi riallacciarsi i pantaloni con gesti pratici e veloci. Trovai la cosa un po’ squallida, anche se inevitabile. Guardò l’orologio. «Siamo in ritardo di cinque minuti. Rifacciamolo domani, okay? Ma alle cinque, dopo la chiusura». «Non so se...» «Le chiavi ce le ho io» tagliò corto lui. Riprese la giacca e la cravatta. «Ho del lavoro da sbrigare» spiegò, un po’ seccato. Aprì la porta e mi mollò lì. +++ «Ho... mmm... preso contatto con Ethan Fairchild, signore». E forse ho preso anche qualche malattia venerea. «La tua “nuova strategia”, giusto?». «Già». «E questo pensi che ti porterà...» «Ora vediamo». «Kerry... lo capisci che non posso scrivere “ora vediamo” nel rapporto che devo consegnare al procuratore?». «Be’, ho appena cominciato. Spero che coltivare la sua amicizia mi porti ad avere informazioni riservate sulle commesse della MME». «Coltivare la sua amicizia». «Andarci a letto, signore». A quel punto sentii una risatina, poi più niente. Ah, come sapevano motivarti alla CIA, in nessun’altra agenzia governativa del mondo... +++ Ovviamente passai le ventiquattro ore seguenti al mio... ehm, rendez-vous con Fairchild giù al secondo piano, a razionalizzare quello che era successo. E... dunque, da un punto di vista operativo la mia posizione era migliorata. Insomma, almeno leggermente. Prima non avevo nulla, ora avevo... un altro appuntamento per fare del sesso non protetto e privo di qualsivoglia coinvolgimento personale, supponevo. Ma dovevo essere un minimo ottimista. Forse Fairchild a un certo punto sarebbe diventato più comunicativo. Almeno potevo provarci. Certo, per il momento sembrava che la sua idea di divertimento fosse di natura squisitamente corporea, ma che ne sapevo? Era la cosa più strana che mi fosse mai successa... non avevo idea delle possibili evoluzioni. Dal punto di vista della copertura mi sembrava di essere a posto. A quel che pareva le donne, almeno alcune, lo consideravano un figo... che mi fossi infatuata di lui non destava particolari sospetti. Dal punto di vista personale... Eh. Qua venivano le note dolenti. Cristo, sul serio mi ero lasciata scopare così? O meglio, davvero mi ero messa al servizio dei desideri sessuali di quel tizio senza mezza parola di protesta? Cioè, dal punto di vista operativo era okay... ma che cavolo avevo fatto? E il modo in cui mi ero sciolta? Incitandolo a fottermi più forte e a darmene ancora? Uno con cui fino a due minuti prima nemmeno parlavo? Non avevo un po’ di rispetto per me stessa? E all’idea di lasciarglielo fare ancora... sì, provavo un lieve disgusto, ma il lieve disgusto era più che altro per me stessa e per il fatto che mi bagnavo solo a pensarci. Dio... avevo esclamato qualcosa come “che cazzo gigantesco”. Sul serio. Come in un porno anni ’80. Sì, però è gigantesco davvero... E poi avevo pensieri come questi e mi sarei sotterrata. Nel contempo avvampavo e i capezzoli mi si indurivano. Ma la parte peggiore di tutte... niente, erano le solite paranoie. Che avevo il culo troppo grande, le tette come una latteria, non ero abbastanza in forma e Fairchild se ne sarebbe accorto e non avrebbe più voluto avere niente a che fare con me. Per la serie: autoflagellazione in puro Kerry-style. Pensieri di cui mi vergognavo, perché avrei voluto essere piena di sicurezza in me stessa e avrei voluto trovarmi bellissima con o senza culone, ma proprio non ci riuscivo. E, siamo onesti, Fairchild era freddo come un rettile, l’unica cosa che gli interessava era il sesso: se non avesse continuato a trovarmi attraente, o almeno eccitante, mi avrebbe scaricata. Con in testa questo gigantesco casino, il giorno dopo riuscii a essere più improduttiva che mai al lavoro, a nascondermi in ufficio durante la pausa pranzo per non correre il rischio di incontrare Fairchild in mensa e ad arrivare all’appuntamento delle cinque con le mutande bagnate fradice. +++ Fairchild mi aspettava davanti agli ascensori, stavolta. Aveva addosso uno dei soliti completi eleganti, quel giorno senza cravatta. Mi scansionò da capo a piedi e disse: «Hai timbrato l’uscita, vero?». Tutto quel romanticismo mi avrebbe uccisa. «S-sì». Salì nell’ascensore con me. «Bene. Andiamo nel mio ufficio». Selezionò il settimo piano e le porte si chiusero. Per qualche secondo restammo in silenzio. «Scusa... non ti sembra un po’ strano?». Lui si voltò appena. Mi resi conto che si stava slacciando i polsini della camicia, senza ancora essersi tolto la giacca. «Che cosa?». «Be’... questo, no? Voglio dire... ehm. Boh. Non sai nemmeno il mio nome». Inarcò un sopracciglio. «So il tuo nome. Ti chiami Kerry Arveda». «Ah» feci io. Le porte dell’ascensore si aprirono e Fairchild aspettò che scendessi per prima. Non ero mai stata a quel piano, ma si capiva che era uno di quelli per i dirigenti. Il pavimento era di lucide assi di parquet color miele, i mobili di legno rosato, le imbottiture di un delicato verde salvia, che era ripreso, più chiaro, nella tappezzeria. Fairchild mi guidò lungo un corridoio e fino a una porta chiusa. La aprì con una chiave che tirò fuori dalla tasca.
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