1.
Ethan Fairchild sembrava il protagonista di un manga di ambientazione vittoriana, o comunque a me faceva quell’impressione. Aveva un’aristocratica carnagione color avorio, i capelli biondo scuro, riccioli e tagliati corti, gli occhi blu e allungati, il viso dai tratti delicatissimi, ma con una fossetta sul mento che gli impediva di essere troppo effeminato. Era alto, sottile, con le mani da pianista...
Non era per niente il mio tipo.
Mi sono sempre piaciuti gli uomini bruni, imponenti e un po’ pelosi. Per intenderci, nel mio immaginario erotico, Wolverine vincerà sempre su Lelouch Lamperouge. Anche se poi entrambi non erano proprio “buoni”, ripensandoci, quindi forse qualcosa in comune ce l’avevano.
In ogni caso... da ragazza divoravo quintali di manga, di fumetti e di cartoni animati vari. Vengo da una cittadina senza attrattive dell’Indiana; da adolescente non avevo altro da fare.
Per di più, non ero una di quelle ragazze popolari con cui tutti vogliono uscire. Ero una creatura timida e non ero una bellezza. Non lo sono neanche ora. Ho un bel viso, degli occhi grandi e limpidi, ma per il resto... ehm, diciamo che dovrei lavorarci di più. Specie sul sedere, che è un filo più grosso di quel che vorrei. Sono il classico tipo a clessidra... quindi, sì, ho pure due grosse bocce difficili da gestire.
Mi rendo conto che con questa presentazione tutta basata sull’estetica non sarò sembrata una persona molto profonda, ma era per farvi capire quanto poco io e Fairchild fossimo ben assortiti.
Ma non limitiamoci alle apparenze. Venivamo anche da due ambienti completamente diversi: l’upper class del New England lui, il proletariato dell’Indiana io. Lui 100% WASP, io di ascendenza per metà italiana e per metà messicana (ma al 100% americana). Lui aveva frequentato le migliori università, io avevo studiato legge alla Indiana University East. Lui aveva un posto di lavoro fico e desiderabile in una grossa compagnia di componentistica meccanica, io... io mi ero fatta il mazzo ed ero stata presa alla CIA, per dirla tutta, ma lui questo non lo sapeva. Pensava che fossi una qualsiasi impiegata del reparto contabilità della Midwest Mechanical Elements, la sua stessa compagnia.
Che cosa ci facessi alla MME è un argomento di cui vi parlerò tra poco. Per ora vi basti sapere che lavoravo con loro da quasi un mese e con la mia missione ero a un punto morto.
Fairchild e il suo gruppo sarebbero ripartiti per l’Europa di lì a una settimana e io non potevo permettermi di non avere progressi da riferire. Ancora una volta.
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«Kerry... dimmi che hai qualcosa».
«Non ho niente, mi dispiace. Continuo a non avere niente. Da domani cambio strategia».
«Già, quella che hai usato finora è a dir poco fallimentare».
Il mio superiore era sempre pronto a indorare la pillola, come avrete capito.
«Lo so. Proverò ad avvicinarmi all’Ufficio Progetti, okay?».
«Forse dovevo mandare un operativo maschio. Sono ambienti... complicati. Posso sostituirti, se pensi che sia meglio».
«Non penso che sia meglio!».
«Okay... okay... non ti arrabbiare. Ma portami qualche risultato, o ti sposto su un’altra operazione».
Ossia, tanto per chiarezza: “ti rimando a sbobinare le intercettazioni telefoniche”. Grazie, ma no grazie.
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Quindi, data questa premessa... come mi ritrovai in un salottino del secondo piano, inginocchiata su uno dei divani, con Fairchild che mi scopava da dietro? Come ho già detto, non era il mio tipo, io non ero il suo e lavorativamente eravamo molto, troppo distanti. In teoria non avremmo dovuto avere nulla a che fare l’uno con l’altra.
Senza contare il mio vero lavoro, è ovvio.
Parliamo della MME. Era una grande azienda seduta in mezzo alle piane del Midwest. Produceva componentistica meccanica, dalle presse, ai giunti cardanici, ai compressori, alle pompe, ai refrigeratori, ai motori pneumatici, alle turbine... tutta roba di cui io capivo poco o niente. Quello che per me era importante non era che cosa producessero, ma dove andasse a finire.
La MME era una dei leader mondiali, nel suo settore. Non vendeva componenti che potevi comprare dal ferramenta, ma roba per le grosse aziende energetiche, chimiche e così via. Costruiva appositamente macchine per i committenti che ne avevano bisogno, ed esportava in buona parte del globo. Era una delle poche aziende americane che vendevano anche in Medio Oriente, compreso in certi paesi che l’Agenzia teneva d’occhio. E a forza di tenerli d’occhio, ci era venuto in mente che la MME stesse violando le sanzioni commerciali imposte a taluni paesi e, cosa più grave, che questo potesse dare dei mezzi tecnologici avanzati a quei paesi. Mezzi tecnologici per fare cose che agli Stati Uniti non sarebbero piaciute.
Voi direte: perché non fare in modo di fermare i traffici della MME, punto e chiuso?
Indubbiamente avevamo intenzione di farlo, ma prima volevamo capire che cosa avesse venduto e a chi. Sembra logico, no?
Dentro di me, in realtà, mi ero ormai convinta che la mia operazione non venisse considerata proprio fondamentale, perché avevo ricevuto ben poco supporto e molti rimproveri.
Ma veniamo a Ethan Fairchild. Era il vice-capo dell’Ufficio Progetti. Ovviamente era un ingegnere, ma i suoi compiti non si limitavano alla supervisione della progettazione. Visto che il suo diretto superiore, Michael Carmody, aveva ormai una certa età e soffriva di cuore, a Fairchild era affidato il compito di discutere con i grossi compratori le caratteristiche dei prodotti che volevano ordinare. In pratica, più o meno una volta al mese, Fairchild volava in Europa con il responsabile dell’Ufficio Vendite e con altri dirigenti per parlare direttamente con gli acquirenti... o i loro delegati.
Avevo già cercato di unirmi al team dell’Ufficio Vendite. Per un avvocato come me sembrava anche più logico. Ma il loro gruppo era sempre lo stesso da anni e non vedevano di buon occhio le novelline rampanti. Alla fine avevo rinunciato e avevo deciso di concentrarmi sull’Ufficio Progetti.
Fairchild era attorniato da un gruppo solo maschile. La cosa non deve stupirvi, perché l’ingegneria meccanica, ho scoperto, è un universo piuttosto misogino, che solo negli ultimi due decenni ha iniziato ad aprirsi anche alle donne.
Fairchild aveva trentotto anni e apparteneva a una generazione, sulla carta, evoluta, ma il suo team era composto solo da ingegneri maschi, e quasi tutti single.
Vedendo il modo in cui trattavano le loro subordinate femmine, la cosa non mi stupiva.
Le battutine erano all’ordine del giorno e sopra ogni conversazione sembrava aleggiare l’assunto che la meccanica fosse “roba da maschi”.
Per quanto il loro atteggiamento mi facesse infuriare, era anche un punto debole da sfruttare. Se ti comportavi come un’oca non ci avrebbero visto niente di strano.
Li osservavo da un po’ quando decisi di fare la mia mossa. Quando devo sono una persona paziente, ma la faccenda si stava trascinando da un po’ troppo tempo perché l’Agenzia fosse felice di me.
Kim Miuri, al contrario del suo diretto superiore, era proprio il mio tipo. Doveva essere di origini indiane o qualcosa del genere. Aveva gli occhi neri e liquidi, il naso a becco e aveva un bell’aspetto solido. Okay, forse un pelo troppo florido, ma chi ero io per parlare?
Era più o meno il braccio destro di Fairchild e attaccai bottone con lui nel più classico dei modi, alla mensa.
«Ehm... secondo te quel purè è commestibile?» dissi, mentre eravamo in fila al self-sevice. Casualmente eravamo finiti vicini. «Non sono qua da molto e confesso che non ho ancora avuto il coraggio di provarlo».
Miuri mi guardò in modo ben poco interessato. Quando lavori nel mio campo devi imparare a ignorare le ferite all’autostima... e la sua occhiata lo fu, ve l’assicuro.
«È decente» borbottò.
Non mi allargai oltre. Sapere quando fermarsi è un’altra cosa che devi imparare il prima possibile, e io l’avevo fatto. Non aggiunsi nulla, presi il purè e andai al mio tavolo.
Mentre una collega del reparto contabilità mi raccontava i progressi di suo figlio nella digestione dei cibi semi-solidi, osservai la mia preda sedersi accanto a Fairchild. Gli disse qualcosa, chissà che cosa, e Fairchild spostò lo sguardo su di me.
Distolsi frettolosamente il mio, un errore da vera principiante.
La verità era che odiavo quell’incarico. Fino a quel momento avevo sempre lavorato in coppia, da sola era molto più difficile. Psicologicamente difficile.
Ma non potevo mollarlo e tornare alle mansioni noiosissime che avevo svolto finché non ero stata promossa ad agente sul campo... quindi dovevo trovare un modo.
«...E ora la sua cacchina è molto più consistente, non saprei come spiegarlo...»
«Ma puoi anche non spiegarlo» mi sfuggì. Tutta la situazione mi innervosiva.
La mia collega mi guardò male e io cercai di rimediare con una risata. «Sai, mangiando questo purè è fin troppo facile fare dei paragoni».
Lei sbuffò. «Sì, fa schifo. Ma perché l’hai preso?».
«Quello lì mi ha detto che è commestibile».
Sarah voltò la testa. «Quello lì chi?».
«Non guardare!».
«Fairchild? È un miracolo che ti abbia parlato, veramente. È uno stronzo totale». Masticò un po’ della sua insalata. «Anche se è figo».
«Eh? No, guarda. E comunque quello con cui ho parlato è quello accanto».
«Ah, Miuri. È uno sfigato. È probabile che gli piaccia davvero».
Be’, almeno non stavamo più parlando della cacca di suo figlio, eh?
«Secondo me è carino» buttai lì.
Sarah inarcò le sopracciglia. «Credo che tu sia più o meno l’unica a pensarlo. A parte Roberta, quella tizia dell’ufficio personale. Mi sa che ci è uscita. Mmm... no, quello figo è lui, Fairchild. Magari ti dà un po’ l’idea che ti legherà e ti frusterà, no? Ma non in modo negativo».
«Non in modo negativo?».
Sarah scosse la testa e sospirò. «Non che la cosa mi riguardi. Non solo sono sposata, ma con Mark che mi occupa ogni secondo libero...»
E ricominciò a parlare di suo figlio.
La sopportai, che altro dovevo fare?
A fine pasto, uscendo dalla mensa, passai casualmente accanto a Miuri. «Comunque era un orrore. Tanto perché tu lo sappia».
Non mi rispose con una risata, per quanto di circostanza, come mi aspettavo. Mi lanciò un’occhiata infastidita e disse: «Senti, perché non punti direttamente Ethan, senza far perdere tempo a me?».
«Eh?» feci io, avvampando.
Il mio rossore fu interpretato come un segno di interesse per Fairchild, invece che come l’imbarazzo per essere una frana come spia.
«Dico... lo segui con lo sguardo da una settimana. Se n’è accorto persino lui».
Benissimo, pensai, mentre emettevo vocali a caso. Dio, dovevo davvero mollare quell’incarico. Probabilmente dovevo mollare proprio quel lavoro. Ero negata.
«Quindi? Vuoi negare l’evidenza?» continuò Miuri, senza pietà.
A quel punto la frittata era fatta. Tanto valeva accettare l’umiliazione e lasciare che credesse che fossi interessata per motivi di natura romantica. Sempre meglio che attirare il sospetto che le mie motivazioni fossero altre.
«Ehm, no» dissi, arrossendo per l’umiliazione. «Mi piace un sacco».
Per la prima volta Miuri rise.
«Era così difficile ammetterlo? Be’, sai, non è un tipo facile. E non è per niente un tipo romantico... ma mi ha detto che farebbe volentieri “un giro”, se capisci quello che intendo. Puoi partire da lì».
«Un giro?» ripetei io. No, non capivo quello che intendeva.
Miuri si strinse nelle spalle. Poi alzò una mano, richiamando l’attenzione del suo superiore.
«Ehi, Ethan» disse, con una risatina. «È come pensavo io».
E mi lasciò lì, vicino all’uscita della mensa, in piedi davanti a Fairchild, rossa come un pomodoro.
Riuscii solo a emettere un «V-veramente...» imbarazzatissimo.
Volevo morire. In tutta la storia dello spionaggio non si era mai vista un’agente più incapace. Come avevo fatto ad arrivare fin lì? Come avevano potuto affidarmi quell’operazione, quando non riuscivo nemmeno...
Mentre io pensavo tutto questo, Fairchild mi scansionò freddamente dalla testa ai piedi. Mi guardò più o meno come guarderesti una macchina usata: attento a prendere nota di ogni magagna, per poi tirare sul prezzo.
«Per me può anche andare» disse, tra l’indifferente e l’annoiato. «Al secondo piano, tra dieci minuti? Teoricamente è ancora pausa pranzo».
Non so che cosa mi passò per la testa, ma guardai l’orologio. Sì, in effetti la pausa pranzo durava altri venti minuti. Annuii per dargli ragione su quel punto e lui mi sembrò leggermente stupito. La sua espressione tornò subito all’indifferenza.
«Okay. Ci vediamo davanti alla sala azzurra».
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Bene, anzi, benissimo, continuavo a ripetermi, mentre mi lavavo i denti nel bagno fuori dalla mensa. Ora che cacchio dovrei fare?
Era una situazione a dir poco assurda. Mi sembrava di essere tornata alle superiori, a uno di quei momenti imbarazzanti in cui qualcuno ti dà appuntamento per limonare e quando arrivi scopri che ci sono tutti i suoi amici e che verrai presa in giro fino alla fine della scuola (sì, mi era successo).
A parte il fatto che non volevo limonare con Fairchild.
Ci pensai un po’ meglio. Io avevo trentatré anni, lui trentotto... non limonavamo più, giusto? Eravamo adulti. Ci davamo appuntamento per...
Già, perché? Passare direttamente al sesso mi sembrava un po’ eccessivo. Per quanto fossimo adulti, dico.
Quindi le ipotesi erano due: o era uno scherzo tipo quello che mi avevano fatto alle superiori (non si è mai troppo vecchi per essere merde) o era, tipo... un modo per parlare faccia a faccia senza troppa gente attorno.
Se era così, potevo dirgli che c’era stato un malinteso... e fare la figura della fifona, okay.
Mi annusai le ascelle, decisi che erano okay e andai verso l’ascensore. Ripensandoci, forse era meglio continuare a dire che mi interessava. Miuri mi aveva scoperta a guardarlo... che mi piacesse era una spiegazione logica e convincente. In caso contrario, come avrei potuto giustificare il mio interesse?
Avevo giusto raggiunto questa decisione quando le porte dell’ascensore si aprirono e mi trovai al secondo piano. Era un piano dedicato alle riunioni, per cui su un corridoio si aprivano diverse sale. Alcune erano chiuse solo da una vetrata, ma altre avevano delle pareti e tutto.
Fairchild era davanti a una di queste, appoggiato alla porta a braccia conserte, l’aria un po’ scocciata.
«Ah, eccoti» disse.
«Ehm, sì, ma che cosa...»
Lui aprì la porta della saletta e mi fece segno di accomodarmi. Senza sorridere. Ebbi l’impressione di entrare nell’ufficio del preside per essere sgridata e, a sorpresa, la cosa mi sembrò quasi intrigante.
«Non pratico il romanticismo» mi disse lui, chiudendosi la porta alle spalle. Fece girare la chiave nella serratura, ma la lasciò nella toppa. Non che avessi paura di lui, a livello fisico. Era alto, ma sottile, e io ero cintura nera di judo.
«Be’, neanch’io, ma...»
«Potresti metterti su quel divano. Sulle ginocchia, così puoi tenerti allo schienale, se ti serve».
Guardai lui e poi il divano, stranita. Era azzurro, da quattro persone, non molto imbottito, con due cuscini extra di stoffa color ruggine.
«Ma dici sul serio?».
«Mh-mh» fece lui, con l’espressione più tranquilla del mondo.
Era tutto completamente folle.
«Okay» dissi.