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Il pomeriggio in cui conobbi Riley Morgan mi sbronzai di brutto, ci finii a letto e mi ritrovai a dormire nuda sul divano della sua suite mentre lui parlava con i suoi due assistenti a un metro e mezzo di distanza. Purtroppo mi svegliai prima che se ne andassero. Se non l’avessi fatto mi sarei persa il momento più umiliante della mia vita fino a quel momento, pensate un po’.
Ma facciamo un passo indietro, come dicono i giornalisti da due soldi (io ero una di loro).
Brenda May dopo il college aveva trovato lavoro in un mobilificio, tra i cosiddetti designer. La Wagner & Sons non era un’industria di dimensioni ciclopiche, ma avevano i loro pezzi forti e i loro tavoli di legno e vetro venivano venduti in tutto lo stato.
Io e Brenda ci conoscevamo da una vita, da quando lei per un periodo si era vista con mio fratello. Aveva scaricato Steve piuttosto alla svelta, ma noi eravamo rimaste amiche.
In quanto a me, ero una dei cinque giornalisti della Sommerville Gazette. Mi occupavo più o meno di tutto, come anche gli altri, ma Bale, il nostro capo-redattore, cercava di non affidarmi lo sport.
Verso marzo dell’anno in cui compii trent’anni la Wagner & Son venne acquisita da un grosso mobilificio nazionale. Seguii la storia per la Gazette, calcando un po’ sui toni entusiastici. D’altronde non capitava tutti i giorni che un’impresa locale attirasse l’attenzione di un colosso, giusto? Era una specie di riconoscimento.
Forse lo era, ma subito dopo la fusione il nuovo amministratore delegato della Wagner annunciò che il personale sarebbe stato “razionalizzato”.
«Dice che non c’è nulla di cui preoccuparsi» mi spiegò Brenda, quella sera. «A quanto pare lo fanno sempre, quando acquisiscono una compagnia. Arriverà un esperto di risorse umane e renderà l’azienda più produttiva».
Come giornalista stavo ancora imparando, diciamo, quindi le sue parole non mi fecero suonare nessun allarme.
Ma una settimana più tardi il tono di Brenda era cambiato.
«Esperto di risorse umane un cavolo. Questo è un tagliatore di teste prezzolato. Viene a vedere chi può lasciare a casa, non a “riorganizzare” come ha detto il capo».
Ancora qualche giorno e il tizio arrivò sul serio. Un taxi lo mollò davanti al Roosvelt Hotel, il migliore della zona, e lui occupò l’unica suite.
Così mi disse Ron, il portiere, in ogni caso. Perché purtroppo avevo deciso di ascoltare le disperate richieste d’aiuto della mia amica e chiedere un’intervista al signor Morgan. Non perché la Gazette fosse così interessata alla cosa, ma perché dovevo cercare di scoprire secondo quali criteri avrebbe sforbiciato il personale.
Sì, pensavo che fosse così facile.
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Non avevo idea di che faccia avesse questo Riley Morgan, ma non perché non avessi fatto i compiti. Su internet avevo trovato il sito della sua società, una pagina molto sobria che elencava i servizi offerti e, specialmente, i clienti che avevano assoldato la Riley Morgan in passato.
Esatto, la sua società di consulenze aveva il suo nome, oltre che il suo cognome, tanto per rispondere a ogni vostra possibile domanda sulla grandezza del suo Ego.
Tra i clienti passati c’erano aziende come la Microsoft, la General Motors, la CBS, la Heinz... ma sul signor Morgan stesso non c’erano molte informazioni e Google mi fornì una serie di facce tra cui non riuscivo a scegliere.
Dissi a Dale che ne sarebbe uscito un bel pezzo di colore per il supplemento domenicale e provai a chiedere un appuntamento tramite la Wagner & Son. Lo ottenni di lì al giorno dopo, alle tre e trenta del pomeriggio, al Roosvelt Hotel.
Per andare a intervistare il tagliatore di teste, lì, cercai di darmi un look meno rurale del solito, lo ammetto. Normalmente un paio di jeans skinny e una t-shirt da ragazza mi bastano e mi avanzano. Con sotto un bel paio di stivali texani, okay.
Quel giorno mi infilai un vestito blu a mezza coscia, con una scollatura tonda e morbida che un po’ rivelava, e un paio di sandali con il tacco alto intonati. Da noi è piuttosto caldo tutto l’anno e quella primavera era particolarmente calda.
Mi sistemai i capelli corti e neri scompigliandoli con le dita e mi diedi anche un po’ di lucidalabbra. Penso di essere carina, ma quel giorno feci uno sforzo extra per esserlo di più, insomma. Mentre salivo in ascensore mi guardai nello specchio e mi approvai: occhi azzurro scuro, grandi e allungati, belle labbra, naso sufficientemente piccolo, vita molto stretta, fianchi un po’ larghi ma non in modo sgradevole, e una terza ben disegnata. Di solito ai ragazzi piacevo, okay? Anche senza essere una top-model, per lo più passavo per una bella tipa.
Quello che ignoravo era che stavo per entrare nell’universo di Riley Morgan, un universo che concepiva solo la perfezione.
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L’uomo che mi aprì la porta avrebbe potuto essere la pubblicità vivente delle idee di Morgan. Alto, capelli biondi e ordinati, viso piacevole, fisico impeccabile. Portava un completo blu scuro, una camicia bianca inamidata e una cravatta color vinaccia.
«Onie Patterson, vero? La giornalista della Gazette?» mi chiese, stringendomi la mano. Aperto, cortese, educato.
«Sì, sono io».
«Mi piace il suo nome» sorrise, aggiungendo un tocco personale. «Il signor Morgan sarà subito da lei. Se nel frattempo vuole accomodarsi...»
Mi indicò il divano e io feci bovinamente come mi suggeriva. Non mi guardai attorno un granché, ma a mia discolpa devo dire che quella stanza non aveva niente di speciale. Era grande, sì, era il salotto di una suite, ma l’arredamento non aveva nessun tocco stravagante e non c’erano montagnole di coca in giro o un mitra montato davanti alla vetrata.
Il signor Morgan arrivò davvero poco dopo, in compagnia di una donna che sembrava una top-model travestita da assistente: gambe chilometriche e fasciate di calze velate, tailleur grigio scuro avvitato, capelli ramati sciolti sulle spalle e seducenti occhi verdi.
«Riley Morgan. È un piacere. Resti pure seduta... ah, il sud» concluse con un sorriso il tizio che volevo intervistare, quando mi alzai per stringergli la mano.
Era... non lo so. L’uomo più stupefacente che avessi mai visto.
Era alto quanto il biondino, ma più vecchio di qualche anno. Il viso aveva un’ossatura splendida e il naso era un po’ storto nel modo più seducente possibile. I capelli non avevano il tipico taglio da businessman, ma uno un po’ più lungo e disordinato. Ed erano scuri, folti, con dei riflessi rosso-biondi. Portava un completo senza cravatta e i primi due bottoni della camicia slacciati.
«Richard, Merri... possiamo rivederci intorno alle sette, subito prima di cena. Dovrebbe essere sufficiente per stabilire le ultime cose. Vorrete visitare la città, no?».
«Certo» disse il biondino.
«No» rispose la modella. E poi rise.
Ridemmo tutti come se fosse divertente. Quei due se ne andarono e Morgan andò al mobile bar. Mi versò un bicchiere di qualcosa, versò lo stesso per sé e mi allungò il bicchiere senza una parola.
Tornammo a sederci.
«Onie Patterson. Mi piace il suo nome» disse.
«Anche al suo assistente» risposi io. Mi pentii subito del tono sarcastico e cercai di rimediare. «Be’, non dispiace neanche a me» aggiunsi, con una risata lieve.
«No, ha ragione» disse lui, con un sorriso disarmante. «È un’abitudine difficile da perdere. Far sentire a suo agio l’interlocutore con un piccolo commento come questo. Avrei potuto dire che mi piace il suo profumo, o le sue scarpe, o chiederle che gliene pare della stanza... è solo un’abitudine. Il suo nome mi pare curioso, in realtà».
«È una variante ebraica di Anne» mi trovai a spiegare.
«Capito» disse lui, con un altro sorriso appena abbozzato. Accavallò le gambe, bevve un sorso e inarcò le sopracciglia, come invitandomi a continuare. Per attimo pensai che volesse ulteriori informazioni sul mio nome o su di me, poi rinsavii.
Bevvi un sorso anch’io. Era bourbon, un buon bourbon corposo e dolciastro.
«Be’, non capita tutti i giorni di avere una persona con il suo curriculum a Sommerville. Ho pensato che alla gente sarebbe interessato sapere che cosa fa un esperto di risorse umane del suo calibro. Sa, dall’acquisizione in poi sono tutti avidi di notizie sulla Wagner & Son».
«È comprensibile. Immagino che non sia così comune, in una cittadina come questa».
Confesso che stavo per mettermi a raccontargli tutto quello che pensavano i cittadini di Sommerville sull’acquisizione, ma questa volta mi accorsi del trucchetto.
Risi. «Facciamo così... posso accendere il registratore, nel frattempo? Credo che valga la pena di prendere nota di ognuna delle sue parole».
«Ma certo» acconsentì lui. Bevve un altro sorso e lo feci anch’io.
Misi il registratore sul tavolino davanti a noi e lo accesi. Per un attimo tutti e due ci limitammo a guardarlo, poi Morgan emise una risatina imbarazzata.
«Dovrei aggiungere qualcosa, è vero?».
«Mh? No... no, no. Cioè, sì, se vuole, ma stavo solo pensando a come iniziare. Se dovesse descrivere il suo lavoro in poche parole...»
«Il mio lavoro o quello che faccio?».
Annuii, felice che avesse capito. «Quello che fa».
«Be’... parlo con la gente. Parlo con i dipendenti di un’azienda e cerco di capire quali sono le loro potenzialità».
«E criticità».
Un breve sorriso. «E criticità, vero. Sono molto bravo a capire le persone in fretta... o comunque è quello che ritengono i miei committenti. Come le dicevo, uso delle tecniche. Nemmeno me ne accorgo più. Cerco di mettere a suo agio il mio interlocutore, in modo che mi parli sinceramente di ciò che gli piace, lo interessa, lo annoia, lo intriga, lo spaventa... tutto quanto, no? Lei è spaventosamente giovane per fare il suo lavoro o mi sbaglio?».
Mi irritò lievemente.
«Ho trent’anni, non mi definirei spaventosamente giovane».
Lui mi mostrò il palmo delle mani.
«E voilà, volevo vedere se si sarebbe risentita. Mi perdoni se l’ho ancora una volta tirata in mezzo... volevo solo mostrarle come lavoro».
«È una cosa che fa per raccogliere informazioni in fretta, giusto? Spingere le persone a parlare, a reagire...»
«Sì, a volte mi serve anche vedere come rispondono a un commento sarcastico, velenoso, a un complimento troppo scoperto o, in casi estremi, alla sincerità».
«Ha appena confessato di essere un bugiardo» risi io.
Morgan toccò il mio bicchiere con il suo. Bevvi un sorso e finii il mio bourbon.
«Non lo siamo tutti? Venga, le rabbocco il bicchiere».
«Oh, no, non...»
Non mi ascoltò. Si alzò e mi versò dell’altro whisky, stavolta un po’ di più. Lo versò anche a se stesso, quindi non ci vidi nulla di male. E non era l’orario per il bourbon, ma lui continuava ad aggiungere ghiaccio, quindi sembrava quasi una bevanda rinfrescante.
Si risedette sul divano accanto a me e mi passò il mio bicchiere. Non si sedette esageratamente vicino, ma abbastanza vicino perché sentissi l’odore del suo dopobarba.
Ora spero che vorrete tenere in considerazione un paio di cose. La prima: non ero abituata a bere. Certo, il venerdì sera andavo al pub e buttavo giù un po’ di birra, ma era raro che arrivassi a un’intera pinta. A quel punto avevo già tracannato un bicchiere di superalcolico, a stomaco vuoto. Mi girava la testa.
La seconda attenuante... era Morgan stesso. Il suo sguardo carezzevole, la sua faccia, il modo in cui si muoveva, il suo corpo. Era perfetto. Il suo corpo, dico, era semplicemente perfetto e si capiva anche se era vestito. La pancia piatta e dura si intuiva attraverso la camicia... i fianchi stretti, le gambe lunghe, snelle e muscolose, le spalle larghe... si intuiva tutto, anche una sensualità piuttosto virile.
«Mi stava confessando che è un bugiardo» sorrisi, sporgendomi lievemente verso di lui. La cosa grave era che pensavo di avere la situazione in pugno.
Morgan mi rivolse un sorriso tra il divertito e l’ammirato. «Più che altro un manipolatore. Non do mai informazioni false... be’, forse ogni tanto. Ma per lo più ascolto quello che mi dicono le persone e mi faccio un’idea di chi sono e dove potrebbero esprimere meglio le loro potenzialità».
Bevve un sorso. Bevvi anch’io. Mi guardava fisso, gli occhi grigi pensierosi ma anche... non lo so, sembrava quasi affascinato. «E le loro criticità, come ha detto prima. Ma cerco di concentrarmi sul positivo, piuttosto che sul negativo. È più efficiente. Fingiamo che stia facendo un colloquio con lei, Onie».
Risi divertita (e un po’ sbronza). «Fingiamolo».
«Abbiamo detto che non è troppo giovane: trent’anni».
«Ma nemmeno troppo vecchia!» ridacchiai io.
Il suo sorriso si fece divertito. «Assolutamente no. Età perfetta, per inciso, tutti i guai vengono a galla dopo. Si è laureata in qualcosa, presumo. Con un voto alto?».
Mi strinsi nelle spalle. «Sì» confessai, distogliendo lo sguardo.
«E parlare dei suoi meriti la mette a disagio, così preferisce soprassedere sperando che gli altri se ne accorgano lo stesso. Lavora in un giornale locale... ha ottenuto il posto facilmente, è vero?».
Annuii, arrossendo. Era vero che parlare dei miei meriti mi imbarazzava.
Lui mi sfiorò il collo con un dito. Rise. «Mi perdoni. Che cosa deliziosa. Pensavo che non arrossisse più nessuno».
Arrossii di nuovo. «Purtroppo io sì».
«Purtroppo? No, no... è un’arma di distruzione di massa, dovrebbe rendersene conto. Ed è... no, scusi».
Mi voltai dalla sua parte. A quel punto eravamo vicini e io respiravo un po’ troppo in fretta.
«È?» chiesi.
Lui mi rivolse un sorrisino impotente. «Molto sexy. Davvero, mi scusi. Mi rendo conto che è un commento inappropriato».
Ridacchiai come una scema. «Al mondo c’è di peggio».
«Davvero? Quindi forse non è così ignara come vuole far credere. Quando arrossisce... le si accendono le guance... e le orecchie – sono piccole orecchie bellissime – e... oh, anche il petto, prima non ci ho fatto caso».
Ovviamente mentre parlava ero arrossita ancora.
«Per non parlare del collo» aggiunse. E si chinò, baciandolo.
Le sue labbra mi sfiorarono la pelle, per poi riallontanarsi.
«Vede, mi lascio portare dall’istinto» disse, riprendendo un tono professionale.
«Come se il suo lavoro fosse un’arte?» chiesi.
A quel punto ero tutta sciolta. Fisicamente, intendo. Cioè, avevo la passerina bagnata e i capezzoli duri e forse anche la pelle d’oca sulle braccia.
«Be’, suona un po’ vanitoso, no? Un’arte. No, ovviamente non è un’arte, ma si basa sull’istinto. Instaurare una complicità immediata con le persone».
«Le riesce tremendamente bene».
Rise. Una bella risata di pancia, a voce bassa. Una risata sexy, come sexy era lui.
«Lo spero» disse, posandomi casualmente una mano su una coscia. «È essenziale per avere dei buoni dati in poco tempo. La fiducia, il desiderio di rendere il processo di raccolta delle informazioni migliore... e di apparire al meglio».
«Quindi mentono anche loro. Le persone con cui parla».
Il suo sorriso sembrò quello di un lupo affamato. «Sempre».
E la sua mano era ferma sulla mia coscia, calda ma non sudata. Non portavo le calze ed era... ovviamente era una sorta di preliminare. Nessuno ti appoggia una mano sulla coscia innocentemente.
«Mentono, sì. Mentiamo tutti, d’altronde. E il modo in cui mentono mi dice delle cose».
La sua mano scivolò verso l’alto lungo l’esterno della mia coscia.
Morgan respirava veloce e la sua faccia era vicina alla mia a quel punto. Socchiuse gli occhi, sospirando. «Mi fermi se non le va. Sono... sopraffatto, Onie. Completamente... sopraffatto...»
La sua voce era diventata un sussurro roco e bastò quello per finire di sciogliermi. Coprii la distanza che separava le nostre bocche e lo baciai.
Fu un bacio incredibile. Sembrò accendermi tutta, come se il mio corpo fosse percorso da una corrente calda. Le sue mani scivolarono sotto alla gonna del mio vestito, mentre le sue labbra tornavano sul mio collo.
Non so bene come, mi trovai in mutande e reggiseno con lui sopra. Continuavamo a baciarci e le mani di Riley mi toccavano dappertutto. So che a un certo punto aprii le cosce e gli strinsi una gamba. Iniziai a strofinarmi gemendo piano. Avevo le mutande fradice, avevo la fichetta in fiamme.
Riley mi sfilò le mutande. Me le abbassò sotto il sedere e poi finì di farle scivolare lungo le mie gambe. Il contatto con le sue mani mi faceva godere. Fisicamente. Come fosse possibile non lo so, ma gli bastava sfiorarmi per farmi emettere un gemito.
Quando mi sganciò il reggiseno ero già lanciatissima. Glielo stavo toccando attraverso i pantaloni, immaginando già di averlo dentro. Dato che Riley era perfetto in tutto, era perfetto anche lì. Ne sentivo la forma e le dimensioni ed erano entrambe proprio quelle giuste.
Mi palpò le tette e ne leccò una. Emisi un gemito disperato.
Gli slacciai i pantaloni e glielo presi in mano. Era caldo, durissimo e così grande...
Riley mi accarezzò tutta. Quando sentii le sue mani sulla fichetta pensai che sarei venuta in quel momento. Mi toccò tra le grandi labbra e gli bastò quello per rendersi conto che ero più che pronta.
Mi voltò dolcemente a pancia in giù e mi toccò il culo.
Stavo impazzendo di desiderio, ma quando mi infilò un cuscino del divano sotto la pancia mi allarmai un po’.
«Non... non dietro, okay?» ansimai.
«No, eh?» mormorò lui, continuando ad accarezzarmi.
Mi prese per i fianchi e mi fece cambiare ancora posizione. Mi manipolava come se fossi una bambola, ma in quel momento non volevo altro. Mi fece piegare le ginocchia, in modo da essere con il sedere molto in alto e la faccia contro il divano. Voltai la testa da un lato e forse avrei protestato se lui non avesse iniziato a leccarmi il buchetto posteriore.
Ovviamente ero tutta aperta davanti a lui. Era la posizione più pornografica che avessi mai assunto durante il sesso e mai nessuno mi aveva leccata... lì.
Riley lo fece. Mi leccò il buchetto posteriore, lo mordicchiò e lo penetrò con la punta della lingua. La cosa mi fece impazzire di piacere. La sensazione nuova e anche l’idea. Iniziai a godere a voce alta, mentre lui mi infilava dietro il pollice di una mano. Il senso di intrusione fu fortissimo, ma anche quello di piacere. Il primo sfumò subito, il secondo crebbe.
Sentii qualcosa davanti al buco della fichetta. Poi quel qualcosa spinse e mi entrò dentro, allargandomi e riempiendomi tutta. Il cazzo di lui, duro, caldo, grosso e nudo, senza protezione.
Mi scopò così. Con un dito nel culo e a colpi secchi e veloci, spingendomi a ogni affondo la faccia sul divano.
«Toccati» disse, a un certo punto, ma io stavo già godendo orrendamente. Non avevo bisogno di sgrillettarmi, perché lo stava facendo lui dall’interno o qualcosa del genere.
Potevo solo venire ululando di piacere – e lo feci poco dopo.
Lui mi finì dentro senza farsi un problema. Lo sentii cambiare ritmo e sembrò che volesse piantarmi la cappella nella cervice. Tump-tump-tump, ogni affondo uno spintone là in fondo.
Lo sentii gemere e accelerare. Poi rallentare, mugolando. Capii che mi era venuto nella fica. Si sfilò. Gocciolavamo entrambi. Mi tolse il pollice dal buchetto posteriore e nel farlo mi fece male, ma credo che non ci fossero alternative.
Si stese contro di me. Era ancora tutto vestito, ma mi strinse contro il suo corpo.
«Che meraviglia, Onie... che cosa meravigliosa...»
Mi accarezzò i capelli e mi baciò dolcemente la bocca.
«Non hai sonno, ora?».
Sbadigliai. L’alcool e il piacere mi avevano lasciata esausta.
«Un po’».
Sbadigliò anche lui.
«Schiacciamo un sonnellino».