CAPITOLO I-5

2049 Words
«Non afferrai subito il significato di quel naufragio. Credo di capirlo adesso, ma non ne sono affatto sicuro. Quel che è certo è che la storia era troppo stupida, a pensarci bene, per essere del tutto naturale. Ma d’altra parte... comunque sia, in quel momento mi si presentò semplicemente come una maledetta seccatura. Il battello era affondato. Erano partiti due giorni prima, presi da una fretta improvvisa, per risalire il fiume, con il direttore a bordo e la guida improvvisata di un capitano che si era offerto volontario. Non erano ancora trascorse tre ore che già avevano lacerato lo scafo sulle rocce ed erano andati ad affondare presso la riva sud. Mi chiesi cosa ci restavo a fare là, adesso che la mia barca era perduta. In effetti, ebbi molto da fare per ripescare dal fiume la mia posizione di comandante. Dovetti mettermici subito, dal giorno successivo. Quell’operazione e le riparazioni, una volta portati i pezzi alla stazione, mi presero alcuni mesi. «Il mio primo colloquio con il direttore fu bizzarro. Malgrado quella mattina avessi trenta chilometri nelle gambe, non mi offrì neanche una sedia. Era un uomo ordinario nell’aspetto, nei lineamenti, nei modi, anche nella voce. Di statura media e costituzione normale. Gli occhi, di un azzurro comune, erano freddi, forse in maniera singolare, e certamente sapeva far cadere su di voi uno sguardo tagliente e pesante come un’accetta. Ma anche in quei momenti il resto della sua persona sembrava smentirne l’intenzione. Altrimenti c’era solo un’indefinibile, sfuggente espressione nelle sue labbra, qualcosa di furtivo - un sorriso? no, non un sorriso - me lo ricordo, ma non so spiegarlo. Era inconscio, quel sorriso, anche se, subito dopo aver detto qualcosa, si accentuava per un momento. Giungeva alla fine dei suoi discorsi come un sigillo posto sulle parole, per rendere enigmatico il significato della frase più banale. Era un comune commerciante, impiegato in quei paraggi fin dalla giovinezza: niente di più. Si faceva ubbidire, anche se non ispirava né amore né paura, nemmeno rispetto. Suscitava disagio. Ecco! Disagio. Non una diffidenza vera e propria - solo disagio - niente di più. Non avete idea di quanto efficace tale... tale... facoltà possa essere. Non aveva nessuno spirito di iniziativa, nessuna attitudine per l’organizzazione, neanche per la disciplina. Il che risultava evidente, per esempio, dallo stato deplorevole in cui giaceva la stazione. Non aveva cultura, né intelligenza. Occupava quella posizione... perché? Forse perché non si era mai ammalato... Erano già tre periodi di tre anni che era in servizio laggiù... Perché nella generale disfatta delle costituzioni, una salute trionfante è di per sé una forza. Quando tornava a casa, in licenza, gozzovigliava su grande scala, fastosamente. Il marinaio a terra..., con qualche differenza solo apparente. Lo si indovinava da quello che lasciava cadere nella conversazione. Da lui non nasceva nulla, sapeva far andare avanti l’ordinaria amministrazione, tutto qui. Però era grande. Era grande per la semplice ragione che era impossibile capire che cosa facesse presa su quell’uomo. Non svelò mai il suo segreto. Forse non c’era niente dentro di lui. Ma un tal sospetto dava da pensare, perché laggiù non esistevano controlli esterni. Una volta, quando quasi tutti gli ‘agenti’ della stazione erano stati colpiti dalle varie malattie tropicali, lo si intese dire: “Gli uomini che vengono qui non dovrebbero avere visceri.” Sigillò la dichiarazione con quel suo sorriso, come se avesse socchiuso la porta della tenebra di cui lui aveva la custodia. Vi sembrava di aver visto qualcosa, ma il sigillo era già stato messo. Infastidito dalle continue discussioni sorte fra i bianchi per questioni di precedenza durante l’ora dei pasti, un giorno fece costruire un’immensa tavola rotonda, per la quale fu fabbricato un apposito edificio, che poi divenne la mensa della stazione. Dove si sedeva lui, era il posto d’onore, il resto non esisteva. Si capiva che di questo era assolutamente convinto. Non era né cortese né scortese. Stava zitto. Permetteva che il suo ‘servitore’, un giovane nero della costa, supernutrito, trattasse i bianchi, anche sotto i suoi occhi, con provocante arroganza. «Incominciò a parlare non appena mi vide. Avevo impiegato molto ad arrivare. Non aveva più potuto aspettarmi. Aveva dovuto andarsene senza di me. Doveva soccorrere le stazioni a monte del fiume. C’erano stati già così tanti rinvii che non sapeva chi era vivo e chi era morto, né come se la cavavano, ecc., ecc. Non prestò alcuna attenzione alle mie spiegazioni e, giocando con un bastoncino di ceralacca, ripeté parecchie volte che la situazione era “molto grave, gravissima”. Correvano voci che un’importantissima stazione fosse in pericolo, e chi ne aveva il comando, il signor Kurtz, fosse ammalato. Sperava che non fosse vero. Il signor Kurtz era... Mi sentivo stanco e irritabile. Kurtz... che vada al diavolo!, pensai. Lo interruppi per dire che avevo sentito parlare del signor Kurtz sulla costa. “Ah! Così parlano di lui laggiù”, mormorò fra sé. Poi ricominciò per dirmi che il signor Kurtz era il suo miglior agente, un uomo eccezionale, della massima importanza per la Compagnia; potevo quindi capire la sua ansia. Era, disse, “molto, molto inquieto”. Di fatti continuava ad agitarsi sulla sedia e all’improvviso, mentre esclamava “Ah, il signor Kurtz!”, il bastoncino di ceralacca gli si spezzò in mano e lui ammutolì stupito. Dopo di che volle sapere “quanto tempo avrei impiegato per...” Lo interruppi di nuovo. Con la fame che avevo, capite, costretto anche a stare in piedi, stavo diventando rabbioso. “Come faccio a saperlo?”, dissi. “Non ho ancora visto il relitto; qualche mese, senza dubbio.” Tutte quelle chiacchiere mi sembravano talmente inutili. “Qualche mese”, ripeté. “Beh, diciamo tre mesi, prima che sia possibile ripartire. Sì. Dovrebbero bastare per la faccenda.” Mi precipitai fuori dalla capanna (viveva da solo in una capanna d’argilla con una specie di veranda) borbottando fra i denti l’opinione che mi ero fatta di lui. Era un idiota d’un chiacchierone. In seguito dovetti ricredermi, quando fui colpito dall’estrema precisione con cui aveva valutato il tempo necessario per quella ‘faccenda’. «Il giorno dopo mi misi al lavoro, voltando, per così dire, le spalle alla stazione. Solo in quel modo, mi sembrava, potevo mantenere un contatto con le realtà redentrici della vita. Di tanto in tanto, però, bisogna pur guardarsi intorno, e allora vedevo la stazione con quegli uomini che girovagavano senza meta nel sole del cortile. E qualche volta mi chiedevo che senso avesse tutto ciò. Vagavano di qua e di là con in mano i loro assurdi lunghi bastoni, come un gruppo di pellegrini senza fede, stregati dentro un recinto putrescente. La parola ‘avorio’ risuonava nell’aria, sussurrata, sospirata. Si sarebbe detto che le rivolgessero delle preghiere. Aleggiava lì sopra un odore infetto di rapacità imbecille, come il fetore di un cadavere. Per Giove! Non ho mai visto niente di tanto irreale nella mia vita. E intorno, la silenziosa landa selvaggia che circondava quel pezzetto diboscato di terra, mi colpiva come qualcosa di grande e d’invincibile, come il male o la verità, in paziente attesa della fine di quella fantastica invasione. «Ah, quei mesi! Ma lasciamo perdere. Accaddero varie cose. Una sera una capanna d’erba, piena di calicò, di cotoni stampati, di conterie e non so cos’altro, prese fuoco così improvvisamente da far pensare che un fuoco vendicatore fosse sgorgato dalla terra aperta per distruggere tutta quella paccottiglia. Io fumavo tranquillamente la pipa vicino al mio battello in disarmo, e li vedevo da lontano far le capriole fra i bagliori, con le braccia in aria, quando, a rotta di collo, arrivò al fiume l’uomo robusto dai baffi neri, con un secchio di latta in mano. Dopo avermi assicurato che “tutti si comportavano magnificamente, magnificamente”, attinse un paio di litri d’acqua e ripartì correndo. Notai che nel fondo del secchio c’era un buco. «Andai lì con calma. Non c’era fretta, capite: quella cosa aveva preso fuoco come una scatola di fiammiferi. Fin dal primo momento non c’era stato niente da fare. La fiamma era balzata altissima, respingendo tutti, illuminando tutto, e poi si era abbassata. La capanna non era che un ammasso di braci ardenti. Non lontano da lì, stavano bastonando un nero. Dicevano che in un modo o nell’altro, era stato lui a provocare l’incendio; fosse vero o no, urlava come un ossesso. Poi, per parecchi giorni, lo vidi seduto in un angolo all’ombra, con un’aria molto sofferente, mentre stava cercando di riprendersi; finalmente si alzò e se ne andò, e la silenziosa landa selvaggia se lo riprese in grembo. «Mentre mi avvicinavo al bagliore provenendo dall’oscurità, mi trovai alle spalle di due uomini che stavano discorrendo. Sentii pronunciare il nome di Kurtz, poi le parole, “approfittare di questo incidente disgraziato”. Uno dei due era il direttore. Gli augurai la buona sera. “Ha mai visto una cosa simile, eh? È incredibile”, disse e si allontanò. L’altro rimase. Era un agente di prima classe, giovane, distinto, un po’ riservato, con una barbetta a due punte e il naso adunco. Teneva a distanza gli altri agenti che, da parte loro, dicevano che lui era la spia del direttore. Prima di allora non gli avevo quasi mai rivolto la parola. Ci mettemmo a conversare e, poco a poco, ci allontanammo dalle rovine sfrigolanti. Mi invitò allora nella sua stanza, che era nell’edificio principale della stazione. Accese un fiammifero, e notai che quel giovane aristocratico non solo possedeva un necessaire da toeletta con la montatura d’argento, ma anche una candela tutta per sé. A quel tempo era previsto che solo il direttore avesse diritto alle candele. Le pareti di argilla erano coperte da stuoie indigene: vi era appesa, come un trofeo, una collezione di lance, zagaglie, scudi, coltelli. L’incarico affidato a questo tale, mi era stato detto, era di fabbricare mattoni; ma nella stazione non c’era traccia di mattoni, neanche un frammento, ed era già più di un anno che era lì: ad aspettare. A quanto pare, per fare i mattoni, gli mancava qualcosa, non so cosa esattamente, della paglia, forse. In ogni modo lì non la si poteva trovare, e siccome era improbabile che la spedissero dall’Europa, non mi era chiaro che cosa stesse aspettando. Un atto di creazione spontanea, forse. Comunque tutti, tutti quei sedici o venti pellegrini che erano, stavano aspettando qualcosa e, parola mia, non sembrava un’occupazione che non gli andasse a genio, dal modo in cui la prendevano. Però, a quanto mi fu dato di vedere, la malattia fu l’unica cosa che mai gli sia arrivata. Ammazzavano il tempo sparlando e tramando gli uni contro gli altri nella maniera più insensata. Sulla stazione soffiava un’aria di complotto, che naturalmente non approdava a niente. Era irreale come tutto il resto: il pretesto filantropico dell’impresa, i loro discorsi, la loro amministrazione, l’esibizione del lavoro. L’unico sentimento autentico era il desiderio di venire assegnati a un centro in cui passasse l’avorio, per poter guadagnare delle buone percentuali. È solo per questo che complottavano, si calunniavano e si odiavano, ma quanto ad alzare effettivamente un dito, ah, no. Sant’Iddio! Non è poi così irragionevole che a un uomo il mondo lasci rubare un cavallo, mentre a un altro non permetta neanche di guardare la cavezza. Rubare un cavallo con decisione. Benissimo. L’ha fatto. Forse è anche capace di cavalcare. Ma c’è un modo di guardare la cavezza che farebbe menar le mani anche a un santo. «Non mi sapevo spiegare la sua improvvisa socievolezza ma, mentre chiacchieravamo là dentro, mi resi conto tutt’a un tratto che quel tale stava mirando a qualche cosa, cercava, infatti, di farmi parlare. Faceva continue allusioni all’Europa, alle persone che si immaginava io conoscessi lì, ponendomi delle domande tendenziose sulle mie relazioni nella città sepolcrale e così di seguito. I suoi occhietti brillavano di curiosità come dischi di mica, benché cercasse di mantenere un’apparenza di distaccata alterigia. In principio ero stupefatto, ma presto divenni curiosissimo di scoprire cosa volesse tirarmi fuori. Non riuscivo proprio a immaginare che cosa ci potesse essere in me da meritare tutta quella fatica. Era un piacere vedere quanto si ingannasse, perché in realtà in corpo non avevo che brividi e in testa nient’altro se non quella disgraziatissima storia del battello. Era evidente che mi considerava uno spudorato mistificatore. Alla fine perse la pazienza e per nascondere un moto di esasperazione furiosa, sbadigliò. Mi alzai. Notai allora un piccolo schizzo a olio, su tavola, che rappresentava una donna con la veste drappeggiata, gli occhi bendati, e una fiaccola accesa in mano. Lo sfondo era tetro, quasi nero. Il movimento della donna era statuario e l’effetto della fiaccola, sul viso, era sinistro. «Mi ero fermato davanti al quadro e lui era rimasto vicino a me, educatamente, reggendo una mezza bottiglia di champagne vuota (forse un ricostituente), con la candela incastrata dentro. Alla mia domanda rispose che era stato il signor Kurtz a dipingerlo - proprio in quella stazione, più di un anno prima - mentre aspettava il mezzo per raggiungere il suo posto commerciale. “Se non le dispiace”, chiesi, “mi può dire chi è questo signor Kurtz?”
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