«Evitai una vasta fossa artificiale che era stata scavata nel pendio, a quale scopo mi fu impossibile indovinare. Non era sicuramente una cava, né di pietra né di sabbia. Era soltanto una fossa. Forse aveva qualche nesso col desiderio filantropico di dare qualcosa da fare ai criminali. Chissà. Poi stavo quasi per cadere in una forra, poco più di una ferita sul fianco della collina. Scoprii che un mucchio di tubi di scolo, importati a uso della colonia, erano stati fatti ruzzolare là dentro. Non ce n’era uno che non fosse rotto. Puro vandalismo. Finalmente arrivai sotto gli alberi. La mia intenzione era di gironzolare all’ombra per un po’, ma non appena fui lì dentro mi parve di essere entrato in un girone dell’Inferno. Le rapide erano vicine, e un fragore ininterrotto, uniforme, irruente, precipitoso, riempiva la lugubre quiete di quel boschetto - dove non un soffio di vento alitava, non una foglia si muoveva - di un suono misterioso, come se il movimento vorticoso della terra nello spazio vi fosse subitamente divenuto percettibile.
«Delle forme nere stavano accovacciate, sdraiate o sedute fra gli alberi, appoggiate ai tronchi, incollate alla terra; per metà in risalto, per metà nascoste entro la luce incerta, in tutte le pose del dolore, dell’abbandono e della disperazione. Scoppiò una nuova mina nella rupe, seguita da un leggero fremito della terra sotto i miei piedi. Il lavoro procedeva. Il lavoro! E questo era il luogo in cui alcuni dei suoi servi si erano ritirati a morire.
«Che stessero morendo, e di morte lenta, era chiarissimo. Non erano nemici, non erano criminali, non erano niente di terreno ormai, niente se non nere ombre di malattia e di fame, che giacevano alla rinfusa nella penombra verdastra. Portati dai luoghi più nascosti della costa, con tutta la legalità dei contratti a termine, perduti in un ambiente non congeniale, nutriti con cibo non familiare, si ammalavano, diventavano inservibili, e allora gli si concedeva di trascinarsi là, a riposare. Queste forme moribonde erano libere come l’aria e altrettanto leggere. Incominciai a distinguere il bagliore degli occhi sotto gli alberi. Poi, abbassando lo sguardo, vidi una faccia vicino alla mia mano. La nera ossatura era distesa in tutta la sua lunghezza, la spalla contro l’albero. Con lentezza, le palpebre si sollevarono; gli occhi incavati mi guardarono, enormi e vuoti; nella profondità delle orbite ci fu una specie di scintilla bianca, cieca, che si spense lentamente. L’uomo sembrava giovane, quasi un ragazzo, ma, sapete, con loro non si può mai dire. Non trovai niente di meglio da fare che dargli una di quelle gallette che avevo in tasca, prese dalla nave del mio buon svedese. Le dita si richiusero lentamente e la trattennero, senza nessun altro movimento né un altro sguardo. Si era legato un filo bianco, di lana o di cotone, attorno al collo. Perché? Dove l’aveva trovato? Era un distintivo, un ornamento, un amuleto, un atto propiziatorio? C’era connessa una qualche idea? Era sorprendente, attorno al suo collo nero, quel pezzetto di filo bianco venuto d’oltremare.
«Presso lo stesso albero altri due fagotti ad angoli acuti erano seduti con le gambe ripiegate contro il corpo. Uno dei due, il mento puntellato alle ginocchia, guardava nel vuoto, in modo intollerabile, spaventoso; suo fratello fantasma si sosteneva la fronte, come se fosse schiacciato da una grande spossatezza; e tutt’intorno altri ancora erano dispersi nelle più varie e contorte pose di prostrazione e abbandono, come nei quadri di massacri o di peste. Mentre io restavo immobile, paralizzato dall’orrore, una di quelle creature si sollevò sulle mani e sulle ginocchia, e si diresse carponi verso il fiume per bere. Sorbì l’acqua dal cavo della mano, poi si sedette al sole, incrociando gli stinchi davanti a sé, e dopo poco lasciò cadere la testa lanosa sul petto.
«Mi era passata la voglia di passeggiare all’ombra, e ripresi in fretta il cammino verso la stazione. Vicino agli edifici incontrai un bianco, di un’eleganza così inaspettata che al primo momento lo presi per una visione. Vidi un alto colletto inamidato, polsini bianchi, una leggera giacca di alpaca, pantaloni candidi, una cravatta chiara e stivaletti di vernice. Senza cappello. I capelli divisi dalla riga, ben spazzolati, impomatati, sotto un parasole bordato di verde, sorretto da una grossa mano bianca. Era stupefacente, e dietro l’orecchio aveva una penna.
«Strinsi la mano a quel miracolo, e venni a sapere che era il capo contabile della Compagnia, e che tutta la contabilità si teneva in quella stazione. Era uscito un momento, disse, “a prendere una boccata d’aria fresca.” L’espressione mi parve singolarmente sorprendente, perché lasciava intravvedere una vita sedentaria in un ufficio. Non vi avrei nemmeno parlato di costui, ma è dalle sue labbra che per la prima volta è uscito il nome di quell’uomo che è indissolubilmente legato ai ricordi di quel periodo. E in più sentivo del rispetto per quel tale. Sì, del rispetto per i suoi colletti, i suoi ampi polsini, i suoi capelli ben pettinati. Il suo aspetto non era diverso da quello di un manichino, ma nel generale sfacelo di quella terra, lui rispettava le apparenze. Questo significa avere spina dorsale. I suoi colletti inamidati, i rigidi sparati erano prove di carattere. Era lì da quasi tre anni e, più tardi, non potei fare a meno di chiedergli come riuscisse a far sfoggio di una simile biancheria. Arrossì impercettibilmente e con modestia disse: “Ho istruito una delle indigene della stazione. È stato molto difficile. Aveva un’avversione per il lavoro.” Così quell’uomo aveva realmente realizzato qualcosa. E si dedicava anche ai suoi libri, che erano tenuti in modo esemplare.
«Nella stazione tutto il resto era solo confusione: nelle teste, nelle cose, negli edifici. File di neri impolverati e con i piedi piatti che arrivavano e ripartivano; un profluvio di manufatti, tessuti di cotone di scarto, perline e grani di vetro, filo di ottone, spedito nel cuore delle tenebre, da dove, in cambio, sgorgava un prezioso rivolo d’avorio.
«Dovetti aspettare dieci giorni in quella stazione: un’eternità. Alloggiavo in una capanna nel cortile, ma per sfuggire al caos, qualche volta, andavo a rifugiarmi dal contabile. Il suo ufficio era costruito con assi orizzontali, così sconnesse che, stando chino sul suo alto scrittoio, era zebrato dalla testa ai piedi da sottili strisce di sole. Non c’era bisogno di aprire la grande imposta per vederci. E che caldo là dentro! Delle grosse mosche facevano un ronzio infernale e non pungevano: trafiggevano. Generalmente mi sedevo per terra, mentre lui, appollaiato su un alto sgabello, impeccabile (e anche leggermente profumato), scriveva e scriveva. Ogni tanto si alzava per sgranchirsi. Quando portarono lì dentro una branda con un ammalato - un agente dell’interno che veniva rimpatriato - manifestò, educatamente, una certa insofferenza. “I gemiti del malato”, disse, “potrebbero distrarre la mia attenzione. E senza attenzione, con questo clima, è già molto difficile evitare gli errori materiali.”
«Un giorno, senza alzare il capo, osservò: “Nell’interno incontrerà certamente il signor Kurtz.” Siccome gli chiesi chi era il signor Kurtz disse che era un agente di prima classe e, percependo la mia delusione alla sua risposta, aggiunse lentamente, posando la penna: “È una persona veramente notevole.” Incalzato da altre domande, aggiunse che il signor Kurtz attualmente dirigeva un posto commerciale, un posto importantissimo, nel vero paese dell’avorio, “al limite estremo. Ci manda più avorio lui di tutti gli altri messi insieme...” Ricominciò a scrivere. Il malato stava troppo male per lamentarsi. Le mosche ronzavano in una gran quiete.
«All’improvviso si udì un crescente mormorio di voci e un forte scalpitio di piedi. Era arrivata una carovana. Un violento cicaleccio di suoni rozzi e sconosciuti scoppiò dall’altra parte delle assi. I portatori parlavano tutti assieme, e in mezzo al clamore si udì la voce lamentosa dell’agente capo che, per l’ennesima volta nella giornata, dichiarava in tono piagnucoloso che lui “ci rinunciava, non ce la faceva più”... Il contabile si alzò lentamente. “Che chiasso spaventoso”, esclamò. Attraversò piano la stanza, diede un’occhiata al malato, e tornando verso di me, disse: “Lui non sente.” “Come! È morto?”, chiesi trasalendo. “No, non ancora”, rispose tranquillamente. Poi, alludendo con un cenno del capo al tumulto nel cortile: “Quando si è tenuti a riportare i numeri in modo corretto, si finisce con odiare questi selvaggi, odiarli a morte.” Rimase un attimo soprappensiero. “Quando vedrà il signor Kurtz”, continuò, “gli dica da parte mia che qui” - lanciò un’occhiata al suo scrittoio - “va tutto benissimo. Non mi piace scrivergli. Con i messaggeri che abbiamo, non si sa in che mani potrebbe finire una lettera, in quella Stazione Centrale.” Mi fissò per un istante coi suoi placidi occhi sporgenti. “Oh, andrà lontano, molto lontano”, riprese. “In poco tempo diventerà qualcuno nell’Amministrazione. Loro, quelli del Consiglio lassù, in Europa, capisce, hanno questo in mente.”
«Si rimise al lavoro. All’esterno, il rumore era cessato. Prima di varcare la soglia per uscire, mi fermai. Nell’incessante ronzio delle mosche, l’agente malato in attesa del rimpatrio giaceva inerte e congestionato; l’altro, chino sui suoi libri, riportava correttamente le voci relative a transazioni perfettamente corrette; e a una quindicina di metri più in basso del gradino della porta si ergevano immobili le cime del boschetto della morte.
«Il giorno seguente, lasciai finalmente la stazione, con una carovana di sessanta uomini, per una marcia di trecento chilometri.
«Inutile che vi racconti tutti i dettagli. Piste, piste dappertutto; una rete di piste battute che si stendeva su un paese vuoto, attraverso l’erba alta, l’erba bruciata, i rovi, su e giù per fredde gole, giù e su per petrose colline arroventate; e solitudine, solitudine: nessuno, neanche una capanna. La popolazione se n’era andata da tanto tempo. Che volete, se una banda di neri misteriosi, muniti di ogni specie di armi spaventose, si mettesse tutt’a un tratto a percorrere la strada che da Deal porta a Gravesend, acciuffando i contadini a destra e a manca per caricarli di pesi enormi, credo che le fattorie e le cascine di quei paraggi si vuoterebbero tutte in un baleno. Solo che laggiù erano sparite anche le case. Però attraversai anche dei villaggi abbandonati. C’è qualcosa di pateticamente infantile nei muri d’erba in rovina. Giorno dopo giorno, con dietro il calpestio e lo strascicamento di sessanta paia di piedi nudi, ciascun paio sotto un peso di una trentina di chili. Accamparsi, cucinare, dormire, levare il campo, marciare. Ogni tanto un portatore morto sotto il peso, steso tra l’erba alta presso la pista, con accanto la sua zucca per l’acqua, vuota, e il suo lungo bastone. Un gran silenzio attorno e sopra di noi; tutt’al più, in certe notti tranquille, il tremolio di tamburi lontani, un tremolio fievole e vasto, che s’attutiva e si gonfiava; un suono misterioso, supplichevole, suggestivo, e selvaggio, il cui significato forse era altrettanto profondo del suono delle campane in terra cristiana. Un giorno, un bianco, l’uniforme sbottonata, accampato sulla pista, con una scorta armata di allampanati zanzibaresi, molto ospitale e allegro, per non dire ubriaco. Badava alla manutenzione della strada, dichiarò. Non posso dire di aver visto né strada né manutenzione, a meno di non dover considerare una perenne miglioria il corpo di un nero di mezza età, con un foro di pallottola in fronte, nel quale sono letteralmente inciampato a un cinque chilometri da lì. Avevo anche un compagno bianco, non un cattivo soggetto, ma troppo in carne, e con l’esasperante abitudine di svenire sui pendii infuocati, a chilometri di distanza dalla minima traccia d’ombra e di acqua. Snervante, credetemi, tenere la propria giacca a mo’ di parasole sopra la testa di un uomo aspettando che rinvenga. Non potei trattenermi dal chiedergli, una volta, cosa fosse venuto a fare in quel paese. “Che domanda! A far soldi”, rispose un po’ sdegnato. Poi si ammalò e bisognò portarlo dentro a un’amaca sospesa a un palo. Siccome pesava più di un quintale, fu una brutta gatta da pelare con i portatori. Si tiravano indietro, prendevano il largo, scappavano di notte furtivamente col loro carico: un vero ammutinamento. Allora una sera tenni un discorso in inglese, accompagnandomi con gesti di cui neanche uno sfuggì alle sessanta paia d’occhi che mi stavano di fronte; il mattino seguente feci partire l’amaca in testa, in perfetta regola. Un’ora dopo trovai che tutto era naufragato dentro a un cespuglio: l’uomo, l’amaca, i gemiti, le coperte, l’orrore. Il pesante palo aveva scorticato il suo povero naso e lui voleva a tutti i costi che io ammazzassi qualcuno, ma non c’era neanche l’ombra di un portatore nelle vicinanze. Mi ricordai del vecchio dottore: “Per la scienza sarebbe di grande interesse osservare sul posto le modificazioni mentali degli individui.” Sentii che cominciavo a diventare scientificamente interessante. Comunque tutto questo non ha importanza. Il quindicesimo giorno mi ritrovai in vista del grande fiume ed entrai, zoppicando, nella Stazione Centrale. Si trovava in una insenatura d’acqua stagnante, circondata dalla sterpaglia e dalla foresta, con un bel margine di fango puzzolente da un lato, e recinta sugli altri tre da una cadente staccionata di giunchi. Un varco informe era l’unica via d’accesso, e bastava un’occhiata per capire che lì il demone flaccido regnava sovrano. Degli uomini bianchi, con dei lunghi bastoni in mano, fecero una languida apparizione fra gli edifici, si avvicinarono, ciondolanti, per guardarmi, e poi scomparvero non so dove. Uno di loro, un tipo robusto e frenetico, con i baffi neri, appena saputo chi ero, mi informò con abbondanza di particolari e molte digressioni che il mio battello giaceva in fondo al fiume. Rimasi fulminato. Cos’era successo, come, perché? Oh, “niente di grave”. Il “direttore in persona” aveva assistito. Si era svolto tutto regolarmente. “E tutti si erano comportati magnificamente, magnificamente!” “Lei deve andare subito”, proseguì agitatissimo, “dal direttore generale. La sta aspettando.”